
La sentenza che ha sospeso il trattamento di sopravvivenza a una donna è una errata applicazione della legge sul fine vita. È sempre molto pericoloso commentare decisioni giudiziarie senza avere sott'occhio il testo completo del relativo provvedimento. Tuttavia, con riguardo alla decisione del tribunale civile di Roma con la quale, secondo le notizie di stampa, sarebbe stata autorizzata, su istanza dell'amministratore di sostegno, pur in assenza di una Dat (disposizione anticipata di trattamento), l'interruzione dei trattamenti di sopravvivenza nei confronti di una donna in stato vegetativo irreversibile, sembra che il pericolo possa essere affrontato, considerando che il fatto risulta riportato in termini tali da non lasciar adito a ragionevoli dubbi circa la sua rispondenza al vero.Ciò premesso, va subito detto che il provvedimento in questione dovrebbe essere stato presumibilmente adottato sulla base dell'articolo 3, comma 5, della legge n. 219/2017, il quale, per quanto qui interessa, dispone che quando, in assenza di disposizioni anticipate di trattamento, l'amministratore di sostegno «rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare». Dal testuale tenore di tale disposizione emerge però chiaramente che oggetto della decisione del giudice non è affatto la verifica della presumibile volontà dell'interessato circa il rifiuto o meno delle cure proposte. La manifestazione del rifiuto, infatti, non è riferita all'interessato ma soltanto a coloro che genericamente possono assumerne la rappresentanza, ivi compreso l'amministratore di sostegno. In presenza di detto rifiuto, quindi, il giudice deve soltanto verificare se le cure proposte siano o meno «appropriate e necessarie», vale a dire non diano luogo a quello che comunemente viene definito un «accanimento terapeutico». È, infatti (o dovrebbe essere) di solare evidenza che nessuno può, in luogo dell'interessato, esprimere validamente un rifiuto di cure che siano, oggettivamente, «appropriate e necessarie» perché questo equivarrebbe a dire che un soggetto diverso dall'interessato potrebbe sostituirsi a quest'ultimo nel decidere se vivere o lasciarsi morire.Ciò è tanto vero che, prima dell'entrata in vigore della legge sulle Dat, per autorizzare l'interruzione dei trattamenti di sopravvivenza nei confronti di Eluana Englaro, si fece ricorso all'espediente (peraltro assai discutibile) di ricostruire «ex post» quella che sarebbe stata la volontà dell'interessata, se questa fosse stata in grado di esprimerla. E analoga ricostruzione, per analogo fine, pare sia stata quella operata nel caso di cui ci occupiamo, prevalentemente sulla base (come nel caso Englaro) di affermazioni che la donna avrebbe fatto parlando con varie persone, circa l'eventualità che si fosse trovata nelle condizioni nelle quali in effetti è poi venuta a trovarsi. Ma la validità del precedente costituito dal caso Englaro dovrebbe ritenersi venuta meno proprio a seguito dell'entrata in vigore della nuova legge. Essa prevede, infatti, all'articolo 4, come condizione ineludibile per la validità del rifiuto di trattamenti terapeutici (ivi compresi, naturalmente, quelli di sopravvivenza), con correlativo obbligo, quindi, del medico, di attenervisi, quella costituita dall'avvenuta manifestazione della relativa volontà da parte dell'interessato nella forma della Dat. Questa può comprendere anche la designazione di un fiduciario che rappresenti, all'occorrenza, l'interessato «nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie. Ed è pure previsto che, in mancanza di tale indicazione, ovvero nel caso che il fiduciario abbia rinunciato alla nomina, sia deceduto o sia divenuto incapace, «le Dat mantengono efficacia in merito alla volontà del disponente» e «in caso di necessità, il giudice provvede alla nomina di un amministratore di sostegno»; previsione, quest'ultima, che appare quindi chiaramente collegata, anch'essa, al presupposto costituito dall'esistenza di una Dat In sostanza, quindi, la nuova legge, pur con tutte le critiche che le sono state mosse, ha se non altro avuto il merito di porre a proprio fondamento l'implicito ma chiaro presupposto che nessuno, neppure se investito di una qualsivoglia forma di rappresentanza, può decidere della vita o della morte di un altro. Questa, infatti, e non altra è la ragione di fondo per la quale, proprio volendosi evitare che, come nel caso della Englaro, si ricorresse al discutibile e pericoloso espediente di ricostruire «ex post» la presumibile volontà dell'interessato, è stato disposto che questa volontà, per essere valida e vincolante per il medico, venisse espressa in anticipo con la DAT; ragion per cui deve ritenersi che chi non abbia inteso avvalersi di tale unico, possibile strumento previsto dalla legge, abbia con ciò stesso escluso di voler rifiutare trattamenti di sopravvivenza, quali che siano state le «chiacchiere» (ci si perdoni l'espressione) che nel corso della sua vita, precedentemente alla perdita della capacità di autodeterminazione, abbia potuto scambiare, sull'argomento, con parenti, amici o conoscenti.Conclusivamente, quindi, se da un lato appaiono fuori luogo le manifestazioni di trionfalistico compiacimento con le quali taluni hanno accolto la pronuncia in questione, dall'altra non sembra neppure potersi dire, da parte di chi non la condivide, che essa sia il frutto della vigente legge sulle Dat (pur per molti versi criticabile), essendovi piuttosto ragione di ritenere che sia il frutto della sua errata applicazione. Ad essa, se così è, sarebbe sperabile che si ponesse rimedio mediante la possibile impugnazione da parte del pubblico ministero.
Un frame del video dell'aggressione a Costanza Tosi (nel riquadro) nella macelleria islamica di Roubaix
Giornalista di «Fuori dal coro», sequestrata in Francia nel ghetto musulmano di Roubaix.
Sequestrata in una macelleria da un gruppo di musulmani. Minacciata, irrisa, costretta a chiedere scusa senza una colpa. È durato più di un’ora l’incubo di Costanza Tosi, giornalista e inviata per la trasmissione Fuori dal coro, a Roubaix, in Francia, una città dove il credo islamico ha ormai sostituito la cultura occidentale.
Scontri fra pro-Pal e Polizia a Torino. Nel riquadro, Walter Mazzetti (Ansa)
La tenuità del reato vale anche se la vittima è un uomo in divisa. La Corte sconfessa il principio della sua ex presidente Cartabia.
Ennesima umiliazione per le forze dell’ordine. Sarà contenta l’eurodeputata Ilaria Salis, la quale non perde mai occasione per difendere i violenti e condannare gli agenti. La mano dello Stato contro chi aggredisce poliziotti o carabinieri non è mai stata pesante, ma da oggi potrebbe diventare una piuma. A dare il colpo di grazia ai servitori dello Stato che ogni giorno vengono aggrediti da delinquenti o facinorosi è una sentenza fresca di stampa, destinata a far discutere.
Mohamed Shahin (Ansa). Nel riquadro, il vescovo di Pinerolo Derio Olivero (Imagoeconomica)
Per il Viminale, Mohamed Shahin è una persona radicalizzata che rappresenta una minaccia per lo Stato. Sulle stragi di Hamas disse: «Non è violenza». Monsignor Olivero lo difende: «Ha solo espresso un’opinione».
Per il Viminale è un pericoloso estremista. Per la sinistra e la Chiesa un simbolo da difendere. Dalla Cgil al Pd, da Avs al Movimento 5 stelle, dal vescovo di Pinerolo ai rappresentanti della Chiesa valdese, un’alleanza trasversale e influente è scesa in campo a sostegno di un imam che è in attesa di essere espulso per «ragioni di sicurezza dello Stato e prevenzione del terrorismo». Un personaggio a cui, già l’8 novembre 2023, le autorità negarono la cittadinanza italiana per «ragioni di sicurezza dello Stato». Addirittura un nutrito gruppo di antagonisti, anche in suo nome, ha dato l’assalto alla redazione della Stampa. Una saldatura tra mondi diversi che non promette niente di buono.
Nei riquadri, Letizia Martina prima e dopo il vaccino (IStock)
Letizia Martini, oggi ventiduenne, ha già sintomi in seguito alla prima dose, ma per fiducia nel sistema li sottovaluta. Con la seconda, la situazione precipita: a causa di una malattia neurologica certificata ora non cammina più.
«Io avevo 18 anni e stavo bene. Vivevo una vita normale. Mi allenavo. Ero in forma. Mi sono vaccinata ad agosto del 2021 e dieci giorni dopo la seconda dose ho iniziato a stare malissimo e da quel momento in poi sono peggiorata sempre di più. Adesso praticamente non riesco a fare più niente, riesco a stare in piedi a malapena qualche minuto e a fare qualche passo in casa, ma poi ho bisogno della sedia a rotelle, perché se mi sforzo mi vengono dolori lancinanti. Non riesco neppure ad asciugarmi i capelli perché le braccia non mi reggono…». Letizia Martini, di Rimini, oggi ha 22 anni e la vita rovinata a causa degli effetti collaterali neurologici del vaccino Pfizer. Già subito dopo la prima dose aveva avvertito i primi sintomi della malattia, che poi si è manifestata con violenza dopo la seconda puntura, tant’è che adesso Letizia è stata riconosciuta invalida all’80%.






