Misterioso e scaltro, dopo Ubi il finanziere Mercadante punta forte su Orcel
2022-05-18
Verità e Affari
Il principio è populista, e si può essere certi che sia condiviso soprattutto dal M5s, anche se ha voluto astenersi sul nuovo decreto energia di Mario Draghi per un banale inceneritore da costruire a Roma. Ma sta diventando un gran pasticcio l'idea di tassare i ricchi per dare ai poveri, che non è neppure nuovissimo.
Stiamo parlando della tassa sugli extraprofitti sull'energia che secondo lo stesso Draghi sarebbero talmente clamorosi da imporre una loro distribuzione. Secondo quanto risulta a Verità & Affari si tratterebbe di una stangata di circa 6 miliardi di euro (questa la cifra ipotizzata dalla relazione tecnica del decreto) che poi verrebbe redistribuita con quei 200 euro distribuiti una tantum in busta paga o nella pensione a chi non supera i 35 mila euro lordi di reddito annuo. È il principio di Robin Hood che ha già sullo stesso settore un antenato: la Robin Tax che ideò Giulio Tremonti e che si infranse poi contro il muro della Corte Costituzionale che la dichiarò contraria ai principi della carta fondamentale per l'Italia nel 2015. Non esiste ancora una versione ufficiale del decreto che la impone, ma le bozze circolate in entrata al Consiglio dei ministri riportano una versione assai confusa del meccanismo, tanto che nessuno ne ha compreso davvero la portata.
Secondo molti analisti dovrebbe colpire le società energetiche per qualche decina di milioni di euro e quindi essere per lo più irrilevante sui conti dei principali gruppi del settore. Ieri uno di questi - Enel - durante la presentazione dei risultati finanziari trimestrali ha fornito la prima stima ufficiale: avrebbe un impatto di 100 milioni. Non clamoroso, visti fatturato e utili del gruppo. Eni tace ed Edison comincia a sentire i primi contraccolpi in borsa: è evidente che per fare quei 6 miliardi non si possono sommare poche decine di milioni a testa. L'impatto immaginato quindi dovrebbe essere assai superiore. Il Tesoro avrebbe potuto anche in questa occasione scegliere un'altra strada che avrebbe avuto risultato analogo: chiedere la distribuzione alle società controllate (Eni ed Enel) di un dividendo straordinario come aiuto ai problemi di finanza pubblica che il caro energia sta provocando.
Quella scelta sarebbe andata a beneficio di tutti gli azionisti dei due colossi e le quotazioni di sicuro non ne avrebbero risentito. Ma ovviamente sarebbero restati fuori tutti i gruppi privati che sicuramente hanno prosperato sui rincari di gas e petrolio. Quella del governo dunque è una scelta etica, non di efficacia: si vuole punire profitti che evidentemente nella sua testa non avrebbero dovuto essere realizzati. È giusto? Brandendo slogan apparirà così, ma nella realtà mica tanto. Primo perché la filosofia utilizzata per l'operazione è fra le più contrarie al libero mercato: viene considerato immorale fare utili con il proprio business, quando invece questo è uno scopo ovvio delle società per azioni.
Secondo perché allora lo Stato che oggi prende dovrebbe dare agli stessi soggetti quando i prezzi delle materie prime dovessero crollare, e ci si infilerebbe in una spirale pericolosa. Terzo motivo perché le leggi morali sono sempre scritte con i piedi e questa non sembra sfuggire alla tradizione. Diventano poi inapplicabili perché è difficile stabilire il loro perimetro e distinguere fra crescita di fatturato e utili dovuta a ragioni di mercato (ad esempio conquistando altri Paesi e clienti) e quella dovuta alla presunta speculazione su gas e petrolio. Pioveranno ricorsi di sicuro e se li si perde anche il contributo da 200 euro potrebbe diventare un bel problema di finanza pubblica.
Edoardo Mercadante con il suo fondo londinese Parvus ci riprova. Per la seconda volta, sempre su banche e in Italia. Dopo l’investimento in Ubi, dove era arrivato a detenere oltre l’8% e che ha finito per consegnare i titoli a metà del 2020 nell’Opa di Intesa sulla banca bergamasca-bresciana, ora eccolo spuntare quasi a sorpresa dal 6 maggio nell’azionariato di UniCredit, con una quota del 5,059% di Unicredit attraverso il fondo Parvus Asset Management.
Nei giorni precedenti la comunicazione alla Consob del 16 maggio, l’hedge fund si era già portato al 5,2%, anche grazie a un contratto di prestito titoli sullo 0,89% del capitale, partecipazione poi limata definitivamente al 5,059%. Di fatto Parvus con i suoi fondi diventa il secondo socio forte di UniCredit, la public company per eccellenza tra le banche italiane. E come nel caso di Ubi, dove aveva rastrellato titoli fino a divenire il secondo socio forte dopo Silchester, anche per UniCredit fioccano gli interrogativi.
GLI INTERROGATIVI
Chi è Mercadante? Si muove come un normale investitore alla ricerca di rendimenti o punta ad altro? C’è qualcuno dietro di lui? Domande che erano emerse con forza nel caso di Ubi, dove molti pensavano che dietro a Mercadante, finanziere franco-italiano, 55enne ex Merril Lynch e fondatore di Parvus asset management Ltd nel lontano 2004, ci fossero alcuni soci forti delle compagini bergamasca-bresciana che si erano opposti all’operazione di acquisizione della terza banca italiana da parte di Intesa.
Spuntarono esposti e anche un fascicolo presso la Procura di Milano. Finì tutto in una bolla di sapone. I soci forti, riottosi alla conquista di Ubi, consegnarono i titoli a Intesa e con loro anche la quota di oltre l’8% gestita da Parvus. Pensare a un possibile scalatore è pura fantafinanza. UniCredit per le dimensioni, oltre 21 miliardi di capitalizzazione, non è facilmente aggredibile.
La quota di Parvus vale poco più di 1 miliardo. Mercadante nelle scarne dichiarazioni rilasciate ai tempi di Ubi e ora di UniCredit sostiene di essere un fondo che opera su strategie long only e di individuare titoli che ritiene sottovalutati per portare a casa plusvalenze. Del resto la presenza di Parvus in UniCredit non data dai primi di maggio, quando dalle comunicazioni Consob diffuse l’altro ieri, è emersa la quota di poco più del 5% raggiunta il 6 maggio scorso.
Parvus era già nel capitale della banca di Piazza Gae Aulenti da anni. Nell’assemblea di UniCredit del dicembre 2017, con Mustier da poco alla guida della banca, Parvus compare con una quota piccola, di meno di 20 milioni di titoli della banca (poco meno dell’1%) posseduto da suoi due fondi, il Parvus euro Absolute opportunities e il Parvus euro opportunities master fund. Quote da puro investitore finanziario. Posizione che crescerà a piccole dosi. Nell’ultima assemblea a guida Orcel dell’8 aprile scorso la quota nei fondi Parvus raddoppia a 40 milioni di azioni, cui si aggiungono altri 10 milioni di titoli in capo a un altro fondo di Parvus, l’Armadillo fund, fondo della scuderia londinese di Mercadante ma domiciliato alle Cayman.
Quindi ancora ad aprile scorso Parvus nel complesso aveva racimolato 50 milioni di azioni UniCredit, una quota intorno al 2,5% e quindi ancora sottotraccia nelle comunicazioni al mercato. Poi evidentemente ecco lo strappo con gli acquisti del 6 maggio che hanno portato Mercadante a divenire il secondo socio forte di UniCredit rendendo visibile la sua posizione. Gli ultimi acquisti sono stati fatti con il titolo ai suoi minimi di poco più di 8 euro, dopo lo choc dell’esposizione di UniCredit in Russia che ha portato tra l’altro a una svalutazione di bilancio di oltre 1,3 miliardi nei conti del primo trimestre.
LA GALOPPATA
Evidentemente Mercadante confida che la cura di Andrea Orcel, pulito il bilancio dalle scorie russe, possa dare slancio al titolo. In effetti UniCredit dopo la galoppata pre-guerra che aveva portato il titolo a quota 15 euro, ha subito più di altri il contraccolpo della guerra in Ucraina. Ma l’avvio proprio oggi dell’atteso buy back da 1,6 miliardi, la politica dei dividendi da 16 miliardi nei prossimi 4 anni promessi da Orcel e il recupero dei ricavi messi già a segno dal banchiere romano nel primo anno alla guida di UniCredit, fanno sperare in un re-rating del titolo. Per ora però la posizione costruita da Parvus nel tempo è ancora in rosso, vista la caduta del titolo UniCredit di oltre il 40% negli ultimi 5 anni.
È plausibile che i primi pacchetti acquisiti già prima del 2017 siano in carico a prezzi ben più alti degli attuali corsi di Borsa. Già ma come opera in genere Parvus? Di solito costruisce le sue posizioni con derivati, tramite equity swap che gli danno posizioni lunghe sui titoli. L’ha fatto con Ubi ad esempio. In Ubi la sua scommessa l’ha vinta sicuramente regalando ai suoi investitori una sonora plusvalenza.
Per UniCredit occorrerà aspettare per rivedere il titolo ai livelli pre-guerra. Dati su performance, risultati, masse in gestione sono difficili da reperire. Per Parvus, come per tutti gli hedge fund, i rendiconti sono forniti solo ai clienti. Secondo la ricostruzione di alcuni siti finanziari inglesi Parvus sarebbe accreditata di 4,5 miliardi di sterline di masse gestite tra i suoi fondi.
HEDGE FUND
La sede londinese è in 7 Clifford Street, dove Mercadante condivide l’indirizzo con un altro gestore di hedge fund, ben conosciuto nel mondo della finanza Oltremanica. Quel Chris Hohn fondatore tra le altre cose del The Children Investment fund e noto per le sue iniziative caritatevoli. Una passione che condivide con Mercadante che compare come Trustee nella CrEdo Foundation, un ente benefico attivo sulle povertà in genere. L’ultimo rendiconto consultabile del 2019 ha visto donazioni per 93mila sterline, di cui 86mila devolute in iniziative benefiche.
L’anno prima le donazioni furono di 106mila sterline. Spesi in beneficienza solo 53 mila con un utile di importo analogo. Mercadante con i suoi fondi è particolarmente attivo nei paesi nordici e anglosassoni. Ha battagliato come investitore attivista sul titolo delle scommesse sportive William Hill e si è opposto come azionista di G4s con il 3,7% alla conquista della danese Iss. La stampa irlandese di recente l’ha accreditato come azionista con meno del 3% della compagnia aerea Ryanair. Anche in questo caso evidentemente Mercadante si attende un ritorno alla piena redditività della compagnia aerea dopo gli sconquassi del Covid, che ridarebbe forza in Borsa al titolo.
Quanto alla sua società di gestione che annovera una dozzina di fondi pare che le cose non vadano affatto male. Secondo la banca dati di S&P Global Market Intelligence, la sua Parvest Asset Management Europe Ltd avrebbe avuto ricavi nel 2020 per 86 milioni di sterline con utili netti per 47 milioni. Negli ultimi 6 anni ha incrementato di tre volte i ricavi da commissioni di gestione con un utile passato da 18 milioni del 2015 ai 47 milioni del 2020.
Il sogno della serie A è ancora vivo, ma per adesso il Monza di Silvio Berlusconi e Adriano Galliani deve fare i conti con il bilancio in rosso del 2021 che segue quelli negativi degli anni passati.
Copre Fininvest, certo, intanto però, nelle scorse settimane, l’assemblea degli azionisti - come ricostruito da Radiocor - ha preso atto di un esercizio 2021 che ha registrato un passivo di 31,2 milioni. Come negli anni scorsi il rosso verrà ripianato integralmente mediante «parziale utilizzo per pari importo della voce versamenti in conto capitale presente nel patrimonio netto», in pratica con i capitali che Fininvest aveva messo preventivamente a disposizione del club.
Va ricordato che il 2021 è stato un altro annus horribilis per tutto il calcio europeo dal punto di vista dei conti e anche in Italia, dalle big alla serie cadetta, le perdite accumulate sono rilevanti. La holding della famiglia Berlusconi aveva comprato il Monza nell’autunno 2018 sborsando 2,9 milioni di euro e - grazie a importanti investimenti sulle varie campagne acquisti (compresa l'ultima), sul centro sportivo di Monzello e sul nuovo stadio - ha rilanciato il club portandolo prima in Serie B e, ormai da due anni, in lotta serrata per la promozione in Serie A.
Del resto, il sogno è «un derby Milan-Monza», come ha sempre detto l’amministratore delegato Adriano Galliani, per 30 anni dirigente del club rossonero. Il rovescio della medaglia della veloce crescita del club è il conto economico, aggravato - come per tutte le squadre di calcio - dal Covid, che ha penalizzato sia il 2021 (-31,2 milioni) sia il 2020, in cui la perdita è stata di 26,7 milioni. Contando l’investimento iniziale (2,9 milioni), il passivo del 2018 (1,68 milioni) e quello del 2019 (9,25 milioni), Fininvest ha così speso complessivamente 71,7 milioni per il Monza.
Intanto incombe il campo. Stasera il club controllato da Fininvest giocherà in un derby tutto lombardo con il Brescia la semifinale di andata dei playoff di Serie B con in palio la promozione.
Una linea di credito a breve termine da 250 milioni con la garanzia Sace prevista dal decreto liquidità, la cosiddetta Garanzia Italia, per Acciaierie d’Italia. Inizialmente, doveva essere una linea ben più consistente: 750 milioni, da un pool di tre banche.
Però, spiega una fonte bancaria, le altre due banche coinvolte hanno ritenuto che «non ci fossero le condizioni» per il loro intervento. La nuova iniezione di liquidità, dopo la cartolarizzazione di crediti da 1,5 miliardi realizzata con Morgan Stanley nel marzo scorso, si è resa necessaria per garantire l’operatività degli stabilimenti, mentre le tensioni con fornitori e appaltatori del gruppo restano elevate.
I FORNITORI
Nel fine settimana la Peyrani Sud, azienda della logistica che si occupa dello sbarco e movimentazione delle materie prime per l’impianto di Taranto nel porto della città pugliese, ha comunicato la decisione di fermare i lavori per conto di Acciaierie d’Italia per via dello scaduto accumulato, che ammonterebbe a 10 milioni di euro. Acciaierie d’Italia, dal canto suo, ha replicato definendo illegittima la decisione di Peyrani e sottolineando come stesse già valutando «con cautela» l’estensione del contratto, in relazione ai gravi incidenti registrati.
SCHEMA COVID
Lo schema di Garanzia Italia, inizialmente previsto per il Covid, è una soluzione d’emergenza, spiegano le fonti interpellate. A soccorrere l’ex Ilva dovrebbe arrivare anche il decreto Aiuti, atteso per ieri in Gazzetta Ufficiale e nuovamente slittato a oggi. Nel decreto, una norma apposita prevede la possibilità di avere la garanzia Sace, in forma diversa dalle per quelle imprese che operano in settori strategici - com’è certamente l’acciaio - in seguito alla guerra in Ucraina.
NO AL DISSEQUESTRO
Per l’ex Ilva ieri è arrivato anche il parere negativo della procura sul dissequestro dell’area a caldo dello stabilimento tarantino. La domanda era stata presentata il 30 marzo scorso dai legali dei commissari di Ilva in Amministrazione straordinaria alla Corte d'Assise che ha emesso la sentenza di primo grado del processo Ambiente Svenduto. Il dissequestro degli impianti è una delle condizioni sospensive dell'accordo di investimento siglato il 10 dicembre 2020 tra Arcelor Mittal Holding Srl, Arcelor Mittal Sa e Invitalia.
Gli impianti furono sequestrati nel 2012 e fu poi concessa la facoltà d'uso. Secondo i commissari straordinari di Ilva in As - tutt'ora proprietaria degli impianti - è cambiato lo scenario delle emissioni rispetto a dieci anni fa grazie ai lavori ambientali e ci sono i presupposti per revocare il sequestro. Di diverso avviso è la Procura. La decisione finale spetta alla Corte d'Assise.
Gli impianti furono sequestrati il 26 luglio 2012 in base a un'ordinanza che firmata dal gip Todisco nell'ambito dell'inchiesta per associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all'avvelenamento di sostanze alimentari e alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro.
All'azienda fu poi concessa la facoltà d'uso. La Corte d'Assise di Taranto che ha ricevuto l'istanza è la stessa che l'1 giugno 2021 ha pronunciato la sentenza (ma le motivazioni non sono state ancora depositate) del processo «Ambiente Svenduto» infliggendo 26 condanne (tra dirigenti della fabbrica, manager e politici) per 270 anni di carcere e disponendo la confisca degli impianti dell'area a caldo.