
Da Benedetta Pilato al post sulle malattie di Noah Lyles, ai Giochi spopola la crociata contro la logica «tossica» del successo. Fare pace con i propri limiti è auspicabile. Però nello sport, a scuola e nella vita, le debolezze non sono un alibi.Non dobbiamo essere sempre perfetti. L’importante non è vincere ma partecipare. Ammettere le proprie debolezze è più salutare che nasconderle. È più dignitoso riconoscere un limite che fingersi indistruttibili. Sì. Vero. Ma adesso che abbiamo capito di dover venire a patti con il nostro essere umani, per favore, andateci piano con l’elogio della fragilità.Le Olimpiadi, ai cui annali di solito rimangono le medaglie, stavolta sono diventate una vetrina per la retorica della mediocrità. Tpi, testata in voga tra i giovanissimi, ha messo insieme un po’ di episodi sugli atleti della generazione Z, la quale «rifiuta il modello tossico del successo a tutti i costi».C’è la diciannovenne Benedetta Pilato, che ha mancato il bronzo per un solo centesimo, però ha definito quello della gara «il giorno più bello della mia vita». C’è Filippo Macchi, di 22 anni, che si è dovuto accontentare dell’argento nel fioretto per un errore arbitrale, ma si è detto comunque «felice», «un ragazzo fortunato». C’è Francesca Fangio, ventottenne, eliminata ai 200 metri rana, «contenta» per essersi «goduta questa atmosfera strepitosa». Esempi commendevoli. Bei messaggi di maturità. Certo, è bizzarro che, quando a ritirarsi in lacrime dal match è stata Angela Carini, suonata da Imane Khelif, la lode delle fragilità si sia trasformata in un coro d’insulti. Gettare la spugna è diventata la sceneggiata della pugile napoletana, la figuraccia della solita Italietta codarda. Non il coraggio della resa, bensì l’ignominia della fuga. Qualcuno si è impegnato pure a ricostruire il curriculum delle precedenti - vere o presunte - simulazioni: ci ha provato, su Instagram, Alice Martinelli delle Iene, ripubblicando il video di un infortunio alla caviglia durante un incontro, che le sembrava sospetto. La ciliegina sulla torta del pensiero debole l’hanno fatta mettere a Noah Lyles, oro nei 100 metri piani, che dopo la vittoria ha scritto su X: «Soffro di asma, allergie, dislessia, Add, ansia e depressione. Ma ti dirò che ciò che hai non definisce ciò che puoi diventare. Perché non tu!». Ieri, La Stampa, ha giustamente interpretato quel commento come lo sforzo di dimostrare che «la mia malattia», «la mia disabilità», «il mio dolore», «la mia infanzia difficile [...] sono parte di ciò che siamo, ma non ci rappresentano né ci identificano». Un principio sacrosanto, ancorché lontano dall’omelia del quotidiano torinese contro la «tossicità del risultato a ogni costo». Siamo all’ennesimo contrordine: dopo un triennio di pistolotti sulla resilienza, ora va di moda proclamarsi un Medioman. Il punto è che, a furia di additare le deviazioni «tossiche» dei comportamenti e delle convenzioni, abbiamo incentivato i ragazzi a sfruttarle come pretesto. La società del capitalismo globale è lacerata da una contraddizione. Da un lato, il sistema pretende di abituare i giovani alla logica dell’homo homini lupus. È il modello dell’«uno su mille ce la fa», nel quale - lo aveva denunciato il filosofo Michael Sandel ne La tirannia del merito - sbagliare, o magari non godere del vantaggio di origini privilegiate, diviene una colpa da castigare, anziché una sperequazione da eliminare. Intanto, però, le manie woke, le migliori alleate di un potere economico che prospera sull’assenza di spine dorsali, spingono i ragazzi a ritagliarsi il ruolo di vittime, di fragili incurabili, incapaci di affrontare la realtà, indotti a percepire le normali difficoltà della vita quali ostacoli insormontabili, ingiustizie che altri - lo Stato, i contribuenti, le maggioranze etniche e sessuali - devono correggere. È un po’ la strategia delineata da Nikki Hiltz, l’atleta «fluid» di Parigi 2024, «convinta che la vulnerabilità e la visibilità siano essenziali per creare cambiamento sociale e accettazione». Esibisci un animo cagionevole e assicurati di metterlo sotto i riflettori. L’inevitabile complemento del compiacimento per la sconfitta, poi, è la medicalizzazione, ovvero la psicologizzazione delle esperienze quotidiane. Una deriva che diagnosticò precocemente il sociologo Frank Furedi, in un saggio molto acuto del 2000. L’ideologia delle insicurezze non condiziona soltanto lo sport. Più pericolosa è la colonizzazione delle scuole: i compiti stancano, le interrogazioni sfibrano, i voti umiliano, le ambizioni familiari angosciano. Aveva spopolato, l’anno scorso, l’arringa della studentessa Emma Ruzzon all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Padova: «Celebrate eccellenze straordinarie», accusava, «facendoci credere che siano ordinarie. Sentiamo il peso di aspettative asfissianti». Licei e atenei sono già molto meno severi e selettivi. Non rispetto agli anni Cinquanta; anche a paragone di una ventina d’anni fa. Si può vivere in uno stato d’ansia perenne, se - dati 2024- il 99,8% dei candidati supera gli esami di Stato? Eppure, così forte è il pregiudizio, che un recente studio italiano, dedicato a misurare gli accessi in pronto soccorso di bambini e adolescenti dopo il Covid, anziché gli strascichi di due anni di socializzazione perduta, ha messo sul banco degli imputati proprio gli affanni scolastici. Gli autori dell’articolo, pubblicato su Jama network open, notando che i ricoveri aumentavano durante i mesi di lezione, ne hanno dedotto che si debba «rendere la scuola meno stressante per gli adolescenti più fragili». Eccolo, il cortocircuito. Fragile è bello. E deve godere della corsia preferenziale. Così, tra i banchi e alle prove universitarie, si vanno moltiplicando i certificati che attestano patologie dell’apprendimento e del comportamento: è la medicalizzazione dell’istruzione, deplorata, lunedì, da un intelligente pezzo del Domani.Un conto è insegnare a un figlio che esiste il fallimento, che esso non è definitivo e che dalle cadute ci si può rialzare; un conto è abituarlo a crogiolarsi negli insuccessi, fino a privarlo di ogni risorsa interiore. Perché i fatti, dicono gli inglesi, sono stubborn, ostinati. La realtà non concede sconti. Nessun certificato esenta dalla vita.
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