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2022-04-30
Impennata di arresti cardiaci nei giovani israeliani dopo il vaccino
Ansa
Alla faccia delle miocarditi da vaccino «rare e lievi», come scrivevano i cardiologi italiani lo scorso settembre. Un nuovo studio, condotto su dati israeliani, proietta ombre inquietanti sulle iniezioni anti Covid tra i più giovani. La ricerca - appena pubblicata su Nature - evidenzia un aumento di oltre il 25% di chiamate d’emergenza per arresti cardiaci e sindromi coronariche acute, in persone tra i 16 e i 40 anni e in concomitanza con le somministrazioni di prime e seconde dosi.
«Covarianza non è causazione», recita un vecchio adagio delle scienze statistiche. Bisogna tenerlo presente, perché gli scienziati di Boston e Tel Aviv non hanno potuto accertare se i pazienti assistiti avessero il Covid o si fossero sottoposti alla puntura a mRna. I risultati, comunque, alimentano i sospetti: l’incremento di gravi problemi cardiaci, registrato tra gennaio e giugno 2021 rispetto al 2019 e al 2020, è «significativamente associato ai tassi di prime e seconde dosi di vaccino» inoculate, ma non alle infezioni da coronavirus. Tra l’altro, persino in Israele, dove il fenomeno sarà stato accentuato dalla minore età media, a confronto con altre nazioni occidentali (30,4 anni contro i 46,5 italiani); dove i National emergency medical services (Esm) collezionano meticolosamente le informazioni sanitarie; persino lì, «alcuni dei casi potenzialmente rilevanti» potrebbero non esser stati «pienamente investigati». Pensate, allora, quanti ne avrà bucati il nostro lacunoso sistema di farmacovigilanza.
Veniamo ai dettagli. L’analisi uscita su Nature compara il periodo precedente alla comparsa del Sars-Cov-2 (gennaio 2019-febbraio 2020), i mesi di pandemia senza vaccini, da marzo a dicembre 2020 e quelli in cui l’avanzata del virus è corsa in parallelo con la campagna vaccinale (gennaio-giugno 2021). Cosa si riscontra? Un «aumento statisticamente significativo, di più del 25%», sia nelle chiamate d’emergenza per arresti cardiaci, sia in quelle per sindromi coronariche acute. L’incremento ha riguardato maschi e femmine tra 16 e 39 anni, benché, tra le seconde, sia stato ancor più consistente: +31,4% per arresti cardiaci, +40,8% per sindromi coronariche acute.
Osservando le cifre, ci si rende conto che «accresciuti tassi di vaccinazione nel rispettivo gruppo d’età sono associati ad accresciuti numeri nei conteggi settimanali delle chiamate per arresti cardiaci e sindromi coronariche acute». In sintesi: più iniezioni, più crisi di cuore. Invece, «il modello non ha individuato un’associazione statisticamente significativa tra i tassi d’infezione da Covid-19» e le telefonate ai soccorsi. La maggior frequenza di chiamate, da gennaio 2021, «segue strettamente alla somministrazione della seconda dose dei vaccini», mentre un ulteriore aumento, registrato da aprile di un anno fa, «sembra tenere dietro a un incremento delle vaccinazioni con singola dose ai guariti». È una scoperta da sventolare in faccia al governo dei migliori, che con l’apartheid del green pass si è accanito pure su chi aveva già sconfitto il virus. Ignorando le evidenze sull’efficacia dell’immunità naturale e, a quanto pare, esponendo la popolazione più giovane a effetti collaterali gravi.
Resterebbe da stabilire se gli eventi infausti, censiti in Israele, debbano essere interpretati come nuove manifestazioni avverse correlate alle vaccinazioni, o se si tratti degli strascichi delle già rilevate miocarditi e pericarditi. L’ipotesi formulata dallo studio di Nature è che l’incidenza di arresti cardiaci e sindromi coronariche acute sia «coerente con la nota relazione causale tra vaccini a mRna» e quelle patologie. Le miocarditi asintomatiche, ad esempio, provocano morti improvvise per arresto cardiaco nei giovani. Altre volte, vengono confuse proprio con le sindromi coronariche acute. Fatto sta che le chiamate d’emergenza sono state più per le donne che per gli uomini, sebbene le infiammazioni cardiache post vaccino risultino di solito più numerose tra questi ultimi. È il segnale di una sottodiagnosi delle miocarditi tra le ragazze? Può darsi.
Quel che è certo, è che un esame su una tale mole di dati (30.262 richieste di soccorso per arresti cardiaci e 60.398 per sindromi coronariche acute, di cui, rispettivamente, 945 e 3.945 negli under 40) dovrebbe indurre le autorità a una riflessione. Tecnicamente, si parla di policy implications. L’articolo ne suggerisce un paio.
Primo elemento: i «programmi di sorveglianza sui potenziali effetti collaterali dei vaccini e sugli esiti delle infezioni da Covid-19» dovrebbero incorporare le informazioni raccolte dai centri d’emergenza, per individuare prontamente eventuali tendenze allarmanti e indagarne le cause.
Seconda e ancora più rilevante raccomandazione: «È essenziale accrescere la consapevolezza, tra i pazienti e i clinici, riguardo ai sintomi», come i dolori al petto e la dispnea, che sono indici di sofferenze al cuore, al fine di «assicurare che il potenziale danno sia minimizzato». Un compito «particolarmente importante nella popolazione più giovane». Il contrario di ciò che è stato fatto nel nostro Paese, martellato dal proselitismo e dal telemarketing sanitario. Come se somministrare un vaccino equivalesse a vendere un folletto. Non ci illudano la parziale tregua nelle restrizioni e la sospensione del certificato verde - del suo impiego, mica della validità del codice a barre. Se in autunno ripartirà il tran tran sulle dosi a tappeto, dovremo pretendere prudenza e verità. Non propaganda.
Infarti e malori tra i ciclisti: «Mascherine e isolamento hanno indebolito le difese»
È emergenza nel mondo del ciclismo. Tutti gli anni, in particolare in questo periodo, le gare sono costellate da un gran numero di assenze. Ma quello a cui stiamo assistendo nel 2022 va ben oltre la normale routine di uno sport all’aperto. L’esorbitante cifra di ciclisti fermi non è dovuta solo al Covid. La maggior parte degli atleti è ferma a causa di influenze bronchiali o miocarditi. I comunicati stampa delle squadre parlano di una serie di patologie che comprendono tracheobronchiti, bronchiti influenzali, fino alle infezioni delle alte vie respiratorie, e sembra che i soggetti colpiti da queste forme influenzali fatichino a recuperare in tempi brevi. La risposta più plausibile, al momento, fornitaci da medici delle squadre e staff è che dopo essere stati imbavagliati per due anni con le mascherine, fra lockdown, distanziamenti e isolamenti, il corpo degli atleti non fosse più abituato ai virus in circolazione e il ritorno a una normale socialità pre-Covid, praticamente in tutta Europa tranne in Italia, è stato complice.
Tra Parigi e Nizza c’è stato un vero e proprio esodo. Alla partenza della quinta tappa, 18 atleti non sono partiti e 13 di loro lamentavano i sintomi del raffreddore. Secondo gli organizzatori non sono stati presenti casi di coronavirus tra di loro. Il punto spinoso è che le condizioni precarie degli atleti potrebbero influenzare tutto il gruppo, poiché, se i ciclisti sani sono pochi, si rischia di sovraccaricarli.
Anche alla Milano-Sanremo le defezioni sono state tante. Il campione uscente, Jasper Stuyven, si è dovuto ritirare per un malanno preso durante la Parigi-Nizza. Pesanti anche le assenze di Sonny Colbrelli, Julian Alaphilippe, Davide Ballerini, Oliver Naesen e John Degenkolb che hanno dovuto alzare bandiera bianca a pochi giorni dalla gara, mentre Wout Van Aert, che sulla carta nelle Fiandre sarebbe stato il corridore da battere, ha contratto il Covid ed è rimasto allettato.
Il fatto di cronaca che ha allarmato maggiormente opinione pubblica e mondo del ciclismo è stato sicuramente l’arresto cardiaco di Sonny Colbrelli che sulle strade del Giro della Catalogna, il 21 marzo, si è accasciato per terra subito dopo il traguardo.
Anche le dichiarazioni di Peter Sagan e Vincenzo Nibali non hanno lasciato tranquilli gli appassionati. Sagan, ex campione del mondo, non è ancora tornato nella sua condizione migliore, con la nuova squadra TotalEnergies. È stato colpito dal Covid a gennaio e poi da febbre e mal di gola a marzo. I ritiri per lui sono stati numerosi: ha abbandonato la Tirreno Adriatico dopo due tappe e ha saltato il Giro delle Fiandre. Parlando con La Gazzetta dello Sport ha poi ammesso: «Ho male alle gambe e spossatezza. Non sto bene, mi sento sempre stanco e adesso bisogna capire il perché». Preoccupante. Neanche la diciottesima stagione di Nibali da professionista è cominciata nel migliore dei modi.
Il trentasettenne ha disputato appena 12 giorni di gara, metà del solito. A febbraio si è ammalato di Covid e curandosi a casa non erano stati riscontrati particolari problemi. Racconta al Corriere della Sera: «A contagio concluso, dopo essere risalito in bici, il tracollo; una notte sono stato così male che ho detto a mia moglie di chiamare l’ambulanza. Deliravo. I problemi alle vie respiratorie sono durati giorni e giorni. Mi sentivo uno straccio». E abbozza come spiegazione alle tante defezioni: «Credo che molti di noi abbiano sottovalutato l’infezione cercando di recuperare troppo in fretta, non a caso tanti colleghi sono fuori uso».
Come si evince, la tensione nel mondo delle corse è alta, soprattutto perché le domande che emergono dalla cronaca sono svariate e confuse e di risposte ufficiali nemmeno l’ombra. L’Uae team Emirates ci ha risposto che le defezioni sono sì dovute a incidenti o lesioni, ma possono essere spiegate da un mix di immunità ridotta per aver indossato, per due anni consecutivi, la mascherina e il ritorno a una vita sociale quasi a pieno regime.
Joost De Maeseneer, medico responsabile dell’Intermarché-Wanty-Gobert World Team è stato piuttosto deciso in merito al minor numero di presenti sulla linea di partenza, escludendo categoricamente che i problemi possano essere dovuti al Long Covid o ai vaccini. Piuttosto, è convinto siano dovuto al fatto che veniamo da «periodi in cui siamo stati isolati, in cui abbiamo avuto costantemente in volto la mascherina, e in cui non ci siamo mai ammalati di malattie diverse dal Covid. Ora, dopo tutto questo tempo gli atleti vanno ad allenarsi al freddo e torna preponderante il virus dell’influenza. Non abbiamo le difese immunitarie per questo, e questa è la ragione».
L’Uci, Unione ciclistica internazionale, organo mondiale di governo del ciclismo sportivo, è l’unico ente in grado di avere una panoramica completa, poiché tutte le squadre lo aggiornano in merito alla situazione clinica dei singoli atleti. Ci si immagina quindi che non appena elaborati i dati si potranno fornire risposte adeguate, ancora non pervenute. Intanto, che questi due anni abbiano contribuito a una inibizione del nostro sistema immunitario è l’ipotesi principale, come del resto sta succedendo, con ogni probabilità, nei casi di epatite nei bambini, più sviluppati in Inghilterra che in Italia, ad oggi.
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Lo studio su «Nature» mostra la correlazione tra iniezioni e malattie cardiovascolari. Aumentate di oltre il 25% le chiamate d’emergenza per la fascia 16-39 anni in seguito all’avvio della campagna d’inoculazione.Infarti e malori tra i ciclisti: «Mascherine e isolamento hanno indebolito le difese». Boom anche di influenze e miocarditi. L’Uci raccoglie le segnalazioni ma non fornisce dati. Il dottor Joost De Maeseneer: «Sistema immunitario fiaccato da due anni di restrizioni».Lo speciale comprende due articoli.Alla faccia delle miocarditi da vaccino «rare e lievi», come scrivevano i cardiologi italiani lo scorso settembre. Un nuovo studio, condotto su dati israeliani, proietta ombre inquietanti sulle iniezioni anti Covid tra i più giovani. La ricerca - appena pubblicata su Nature - evidenzia un aumento di oltre il 25% di chiamate d’emergenza per arresti cardiaci e sindromi coronariche acute, in persone tra i 16 e i 40 anni e in concomitanza con le somministrazioni di prime e seconde dosi. «Covarianza non è causazione», recita un vecchio adagio delle scienze statistiche. Bisogna tenerlo presente, perché gli scienziati di Boston e Tel Aviv non hanno potuto accertare se i pazienti assistiti avessero il Covid o si fossero sottoposti alla puntura a mRna. I risultati, comunque, alimentano i sospetti: l’incremento di gravi problemi cardiaci, registrato tra gennaio e giugno 2021 rispetto al 2019 e al 2020, è «significativamente associato ai tassi di prime e seconde dosi di vaccino» inoculate, ma non alle infezioni da coronavirus. Tra l’altro, persino in Israele, dove il fenomeno sarà stato accentuato dalla minore età media, a confronto con altre nazioni occidentali (30,4 anni contro i 46,5 italiani); dove i National emergency medical services (Esm) collezionano meticolosamente le informazioni sanitarie; persino lì, «alcuni dei casi potenzialmente rilevanti» potrebbero non esser stati «pienamente investigati». Pensate, allora, quanti ne avrà bucati il nostro lacunoso sistema di farmacovigilanza. Veniamo ai dettagli. L’analisi uscita su Nature compara il periodo precedente alla comparsa del Sars-Cov-2 (gennaio 2019-febbraio 2020), i mesi di pandemia senza vaccini, da marzo a dicembre 2020 e quelli in cui l’avanzata del virus è corsa in parallelo con la campagna vaccinale (gennaio-giugno 2021). Cosa si riscontra? Un «aumento statisticamente significativo, di più del 25%», sia nelle chiamate d’emergenza per arresti cardiaci, sia in quelle per sindromi coronariche acute. L’incremento ha riguardato maschi e femmine tra 16 e 39 anni, benché, tra le seconde, sia stato ancor più consistente: +31,4% per arresti cardiaci, +40,8% per sindromi coronariche acute. Osservando le cifre, ci si rende conto che «accresciuti tassi di vaccinazione nel rispettivo gruppo d’età sono associati ad accresciuti numeri nei conteggi settimanali delle chiamate per arresti cardiaci e sindromi coronariche acute». In sintesi: più iniezioni, più crisi di cuore. Invece, «il modello non ha individuato un’associazione statisticamente significativa tra i tassi d’infezione da Covid-19» e le telefonate ai soccorsi. La maggior frequenza di chiamate, da gennaio 2021, «segue strettamente alla somministrazione della seconda dose dei vaccini», mentre un ulteriore aumento, registrato da aprile di un anno fa, «sembra tenere dietro a un incremento delle vaccinazioni con singola dose ai guariti». È una scoperta da sventolare in faccia al governo dei migliori, che con l’apartheid del green pass si è accanito pure su chi aveva già sconfitto il virus. Ignorando le evidenze sull’efficacia dell’immunità naturale e, a quanto pare, esponendo la popolazione più giovane a effetti collaterali gravi. Resterebbe da stabilire se gli eventi infausti, censiti in Israele, debbano essere interpretati come nuove manifestazioni avverse correlate alle vaccinazioni, o se si tratti degli strascichi delle già rilevate miocarditi e pericarditi. L’ipotesi formulata dallo studio di Nature è che l’incidenza di arresti cardiaci e sindromi coronariche acute sia «coerente con la nota relazione causale tra vaccini a mRna» e quelle patologie. Le miocarditi asintomatiche, ad esempio, provocano morti improvvise per arresto cardiaco nei giovani. Altre volte, vengono confuse proprio con le sindromi coronariche acute. Fatto sta che le chiamate d’emergenza sono state più per le donne che per gli uomini, sebbene le infiammazioni cardiache post vaccino risultino di solito più numerose tra questi ultimi. È il segnale di una sottodiagnosi delle miocarditi tra le ragazze? Può darsi. Quel che è certo, è che un esame su una tale mole di dati (30.262 richieste di soccorso per arresti cardiaci e 60.398 per sindromi coronariche acute, di cui, rispettivamente, 945 e 3.945 negli under 40) dovrebbe indurre le autorità a una riflessione. Tecnicamente, si parla di policy implications. L’articolo ne suggerisce un paio. Primo elemento: i «programmi di sorveglianza sui potenziali effetti collaterali dei vaccini e sugli esiti delle infezioni da Covid-19» dovrebbero incorporare le informazioni raccolte dai centri d’emergenza, per individuare prontamente eventuali tendenze allarmanti e indagarne le cause. Seconda e ancora più rilevante raccomandazione: «È essenziale accrescere la consapevolezza, tra i pazienti e i clinici, riguardo ai sintomi», come i dolori al petto e la dispnea, che sono indici di sofferenze al cuore, al fine di «assicurare che il potenziale danno sia minimizzato». Un compito «particolarmente importante nella popolazione più giovane». Il contrario di ciò che è stato fatto nel nostro Paese, martellato dal proselitismo e dal telemarketing sanitario. Come se somministrare un vaccino equivalesse a vendere un folletto. Non ci illudano la parziale tregua nelle restrizioni e la sospensione del certificato verde - del suo impiego, mica della validità del codice a barre. Se in autunno ripartirà il tran tran sulle dosi a tappeto, dovremo pretendere prudenza e verità. 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I comunicati stampa delle squadre parlano di una serie di patologie che comprendono tracheobronchiti, bronchiti influenzali, fino alle infezioni delle alte vie respiratorie, e sembra che i soggetti colpiti da queste forme influenzali fatichino a recuperare in tempi brevi. La risposta più plausibile, al momento, fornitaci da medici delle squadre e staff è che dopo essere stati imbavagliati per due anni con le mascherine, fra lockdown, distanziamenti e isolamenti, il corpo degli atleti non fosse più abituato ai virus in circolazione e il ritorno a una normale socialità pre-Covid, praticamente in tutta Europa tranne in Italia, è stato complice. Tra Parigi e Nizza c’è stato un vero e proprio esodo. Alla partenza della quinta tappa, 18 atleti non sono partiti e 13 di loro lamentavano i sintomi del raffreddore. Secondo gli organizzatori non sono stati presenti casi di coronavirus tra di loro. Il punto spinoso è che le condizioni precarie degli atleti potrebbero influenzare tutto il gruppo, poiché, se i ciclisti sani sono pochi, si rischia di sovraccaricarli. Anche alla Milano-Sanremo le defezioni sono state tante. Il campione uscente, Jasper Stuyven, si è dovuto ritirare per un malanno preso durante la Parigi-Nizza. Pesanti anche le assenze di Sonny Colbrelli, Julian Alaphilippe, Davide Ballerini, Oliver Naesen e John Degenkolb che hanno dovuto alzare bandiera bianca a pochi giorni dalla gara, mentre Wout Van Aert, che sulla carta nelle Fiandre sarebbe stato il corridore da battere, ha contratto il Covid ed è rimasto allettato. Il fatto di cronaca che ha allarmato maggiormente opinione pubblica e mondo del ciclismo è stato sicuramente l’arresto cardiaco di Sonny Colbrelli che sulle strade del Giro della Catalogna, il 21 marzo, si è accasciato per terra subito dopo il traguardo. Anche le dichiarazioni di Peter Sagan e Vincenzo Nibali non hanno lasciato tranquilli gli appassionati. Sagan, ex campione del mondo, non è ancora tornato nella sua condizione migliore, con la nuova squadra TotalEnergies. È stato colpito dal Covid a gennaio e poi da febbre e mal di gola a marzo. I ritiri per lui sono stati numerosi: ha abbandonato la Tirreno Adriatico dopo due tappe e ha saltato il Giro delle Fiandre. Parlando con La Gazzetta dello Sport ha poi ammesso: «Ho male alle gambe e spossatezza. Non sto bene, mi sento sempre stanco e adesso bisogna capire il perché». Preoccupante. Neanche la diciottesima stagione di Nibali da professionista è cominciata nel migliore dei modi. Il trentasettenne ha disputato appena 12 giorni di gara, metà del solito. A febbraio si è ammalato di Covid e curandosi a casa non erano stati riscontrati particolari problemi. Racconta al Corriere della Sera: «A contagio concluso, dopo essere risalito in bici, il tracollo; una notte sono stato così male che ho detto a mia moglie di chiamare l’ambulanza. Deliravo. I problemi alle vie respiratorie sono durati giorni e giorni. Mi sentivo uno straccio». E abbozza come spiegazione alle tante defezioni: «Credo che molti di noi abbiano sottovalutato l’infezione cercando di recuperare troppo in fretta, non a caso tanti colleghi sono fuori uso». Come si evince, la tensione nel mondo delle corse è alta, soprattutto perché le domande che emergono dalla cronaca sono svariate e confuse e di risposte ufficiali nemmeno l’ombra. L’Uae team Emirates ci ha risposto che le defezioni sono sì dovute a incidenti o lesioni, ma possono essere spiegate da un mix di immunità ridotta per aver indossato, per due anni consecutivi, la mascherina e il ritorno a una vita sociale quasi a pieno regime. Joost De Maeseneer, medico responsabile dell’Intermarché-Wanty-Gobert World Team è stato piuttosto deciso in merito al minor numero di presenti sulla linea di partenza, escludendo categoricamente che i problemi possano essere dovuti al Long Covid o ai vaccini. Piuttosto, è convinto siano dovuto al fatto che veniamo da «periodi in cui siamo stati isolati, in cui abbiamo avuto costantemente in volto la mascherina, e in cui non ci siamo mai ammalati di malattie diverse dal Covid. Ora, dopo tutto questo tempo gli atleti vanno ad allenarsi al freddo e torna preponderante il virus dell’influenza. Non abbiamo le difese immunitarie per questo, e questa è la ragione». L’Uci, Unione ciclistica internazionale, organo mondiale di governo del ciclismo sportivo, è l’unico ente in grado di avere una panoramica completa, poiché tutte le squadre lo aggiornano in merito alla situazione clinica dei singoli atleti. Ci si immagina quindi che non appena elaborati i dati si potranno fornire risposte adeguate, ancora non pervenute. Intanto, che questi due anni abbiano contribuito a una inibizione del nostro sistema immunitario è l’ipotesi principale, come del resto sta succedendo, con ogni probabilità, nei casi di epatite nei bambini, più sviluppati in Inghilterra che in Italia, ad oggi.
Sergio Mattarella (Ansa)
Si torna quindi all’originale, fedeli al manoscritto autografo del paroliere, che morì durante l’assedio di Roma per una ferita alla gamba. Lo certifica il documento oggi conservato al Museo del Risorgimento di Torino.
La svolta riguarderà soprattutto le cerimonie militari ufficiali. Lo Stato Maggiore della Difesa, in un documento datato 2 dicembre, ha infatti inviato l’ordine a tutte le forze armate: durante gli eventi istituzionali e le manifestazioni militari nelle quali verrà eseguito l’inno nella versione cantata - che parte con un «Allegro marziale» -, il grido in questione dovrà essere omesso. E viene raccomandata «la scrupolosa osservanza» a tutti i livelli, fino al più piccolo presidio territoriale, dalla Guardia di Finanza all’Esercito. Ovviamente nessuno farà una piega se allo stadio i tifosi o i calciatori della nazionale azzurra (discorso che vale per tutti gli sport) faranno uno strappo alla regola, anche se la strada ormai è tracciata.
Per confermare la bontà della decisione del Colle basta ricordare le indicazioni che il Maestro Riccardo Muti diede ai 3.000 coristi (professionisti e amatori, dai 4 agli 87 anni) radunati a Ravenna lo scorso giugno per l’evento dal titolo agostiniano «Cantare amantis est» (Cantare è proprio di chi ama). Proprio in quell’occasione, come avevamo raccontato su queste pagine, il grande direttore d’orchestra - che da decenni cerca di spazzare via dall’opera italiana le aggiunte postume, gli abbellimenti non richiesti e gli acuti non scritti dagli autori, ripulendo le partiture dalle «bieche prassi erroneamente chiamate tradizioni» - ordinò a un coro neonato ma allo stesso tempo immenso: «Il “sì” finale non si canta, nel manoscritto non c’è».
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Scott Bessent (Ansa)
Partiamo da Washington, dove il Pil non solo non rallenta, ma accelera. Nel terzo trimestre dell’anno, da luglio a settembre, l’economia americana è cresciuta del 4,3%. Non un decimale in più o in meno: un punto pieno sopra le attese, ferme a un modesto 3,3%. Un dato arrivato in ritardo, complice lo stop federale che ha paralizzato le attività pubbliche, ma che ha avuto l’effetto di una doccia fredda per gli analisti più pessimisti. Altro che frenata da dazi: rispetto al secondo trimestre, l’incremento è stato dell’1,1%. Altro che economia sotto anestesia. Una successo che spinge Scott Bessent, segretario del Tesoro, a fare pressioni sulla Fed perché tagli i tassi e riveda al ribasso dal 2% all’1,5% il tetto all’inflazione. Il motore della crescita? I consumi, tanto per cambiare. Gli americani hanno continuato a spendere come se i dazi fossero un concetto astratto da talk show. Nel terzo trimestre i consumi sono saliti del 3,5%, dopo il più 2,5% dei mesi precedenti. A spingere il Pil hanno contribuito anche le esportazioni e la spesa pubblica, in un mix poco ideologico e molto concreto. La morale è semplice: mentre la politica discute, l’economia va avanti. E spesso prende un’altra direzione.
E l’Europa? Doveva essere la prima vittima collaterale della guerra commerciale. Anche qui, però, i numeri si ostinano a non obbedire alle narrazioni. L’Italia, per esempio, a novembre ha visto rafforzarsi il saldo commerciale con i Paesi extra Ue, arrivato a più 6,9 miliardi di euro, contro i 5,3 miliardi dello stesso mese del 2024. Quanto agli Stati Uniti, l’export italiano registra sì un calo, ma limitato: meno 3%. Una flessione che somiglia più a un raffreddore stagionale che a una polmonite da dazi. Non esattamente lo scenario da catastrofe annunciata.
Anche la Bce, che per statuto non indulge in entusiasmi, ha dovuto prendere atto della resilienza dell’economia europea. Le nuove proiezioni parlano di una crescita dell’eurozona all’1,4% nel 2025, in rialzo rispetto all’1,2% stimato a settembre, e dell’1,2% nel 2026, contro l’1,0 precedente. Non è un boom, certo, ma nemmeno il deserto postbellico evocato dai più allarmisti. Soprattutto, è un segnale: l’Europa cresce nonostante tutto, e nonostante tutti. E poi c’è la Cina, che osserva il dibattito globale con il sorriso di chi incassa. Nei primi undici mesi del 2025 Pechino ha messo a segno un surplus commerciale record di oltre 1.000 miliardi di dollari, con esportazioni superiori ai 3.400 miliardi. Altro che isolamento: la fabbrica del mondo continua a macinare numeri, mentre l’Occidente discute se i dazi siano il male assoluto o solo un peccato veniale.
Alla fine, la lezione è sempre la stessa. I dazi fanno rumore, le previsioni pure. Ma l’economia parla a bassa voce e con i numeri. E spesso, come in questo caso, si diverte a smentire chi aveva già scritto il copione del disastro. Le cassandre restano senza applausi. Le statistiche, ancora una volta, si prendono la scena.
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Paolo Barletta, Ceo Arsenale S.p.a. (Ansa)
Il contributo di Simest è pari a 15 milioni e passa dalla Sezione Infrastrutture del Fondo 394/81, plafond in convenzione con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, dedicato alle imprese italiane impegnate in grandi commesse estere che valorizzano la filiera nazionale. In termini di struttura, il capitale sociale congiunto copre la componente di rischio industriale, mentre la componente del fondo saudita sostiene la rampa di avvio del progetto, riducendo il fabbisogno di capitale a carico dei partner italiani e rafforzando la bancabilità dell’iniziativa nel Paese ospitante, presentata come modello pubblico-privato nel segmento ferroviario di lusso.
L’intesa è inserita nella collaborazione Italia-Arabia Saudita, richiamando l’apertura della sede Simest a Riyadh e il Memorandum of Understanding tra Cdp, Simest e Jiacc. «Dream of the Desert» è indicato come progetto apripista di un modello pubblico-privato nel trasporto ferroviario di lusso.
«Dream of the Desert è un progetto simbolo per il nostro gruppo e per l’industria ferroviaria internazionale. Valorizza le Pmi italiane e costituisce un caso apripista di partnership pubblico-privata nel settore ferroviario di lusso. L’accordo siglato con Simest e le istituzioni saudite conferma come la collaborazione tra imprese e istituzioni possa creare valore duraturo e promuovere le eccellenze italiane nel mondo», commenta Paolo Barletta, amministratore delegato di Arsenale.
Regina Corradini D’Arienzo, amministratore delegato di Simest, aggiunge: «L’intesa sottoscritta con un primario attore industriale come Arsenale per la realizzazione di un progetto strategico per il Made in Italy, conferma il rafforzamento del ruolo di Simest a sostegno del tessuto produttivo italiano e delle sue filiere. Attraverso la prima operazione realizzata nell’ambito del Plafond di equity del fondo pubblico di Investimenti infrastrutturali», continua la numero uno del gruppo, «Simest interviene direttamente come socio per accrescere la competitività delle nostre imprese impegnate in progetti infrastrutturali ad alto valore aggiunto, favorendo al contempo l’espansione del Made in Italy in mercati strategici ad elevato potenziale di crescita, come quello saudita. Lo strumento, sviluppato da Simest sotto la regia del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e in collaborazione con Cassa depositi e prestiti, si inserisce pienamente nell’azione del Sistema Italia, che, sotto la regia della Farnesina, vede il coinvolgimento di Cdp, Simest, Ice e Sace. Un approccio integrato volto a garantire alle imprese italiane un supporto strutturato e complementare, dall’azione istituzionale a quella finanziaria, per affrontare con efficacia le principali sfide della competitività internazionale».
Sul piano industriale, Arsenale dichiara un treno interamente progettato, prodotto e allestito in Italia: gli hub Cpl (Brindisi) e Standgreen (Bergamo) operano con Cantieri ferroviari italiani (Cfi) come general contractor, coordinando una rete di Pmi (design, meccanica avanzata, ingegneria, lusso e hospitality). Per il committente estero, questa configurazione «turnkey (chiavi in mano, ndr.)» concentra in un unico soggetto il coordinamento di produzione, integrazione e allestimento; per l’ecosistema italiano, sposta volumi e valore aggiunto lungo la catena domestica, fino alla finitura degli interni ad alto contenuto di design.
Il prodotto sarà un treno di ultra lusso con itinerari da uno a due notti: partenza da Riyadh e collegamenti verso destinazioni iconiche del Regno, tra cui Alula (sito Unesco) e Hail, fino al confine con la Giordania. Gli interni sono firmati dall’architetto e interior designer Aline Asmar d’Amman, fondatore dello studio Culture in Architecture. La prima carrozza è stata consegnata a settembre 2025; l’avvio operativo è previsto per fine 2026, con prenotazioni aperte da novembre 2025.
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Matteo Hallissey (Ansa)
Il video è accompagnato da un post: «Abbiamo messo in atto», scrive l’ex perfetto sconosciuto Hallisey, «un flash mob pacifico pro Ucraina all’interno di un convegno filorusso organizzato dall’Anpi all’università Federico II di Napoli. Dopo aver atteso il termine dell’evento con Alessandro Di Battista e il professor D’Orsi e al momento delle domande, decine di studenti e attivisti pro Ucraina di +Europa, Ora!, Radicali, Liberi Oltre, Azione e della comunità ucraina hanno mostrato maglie e bandiere ucraine. È vergognoso che non ci sia stata data la possibilità di fare domande e che l’attivista che stava interloquendo con i relatori sia stato aggredito e spinto da un rappresentante dell’Anpi fino a rompere il microfono. Anch’io sono stato aggredito violentemente», aggiunge il giovane radicale, «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi sulla sua partecipazione alla sfilata di gala di Russia Today a Mosca due mesi fa. Chi rivendica la storia antifascista e partigiana non può non condannare queste azioni di fronte a una manifestazione pacifica».
Rivedendo più volte il video al Var, di aggressioni non ne abbiamo viste, a parte come detto qualche spinta, ma va detto pure che quando Hallissey scrive «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi», omette di precisare che quella domanda è stata posta al professore, ma in maniera tutt’altro che pacata: le urla del buon Matteo sono scolpite nel video da lui stesso, ripetiamo, pubblicato. Per quel che riguarda la rottura del microfono, le immagini, viste e riviste non chiariscono se il fallo c’è o no: si vede un giovane attivista che contende un microfono a D’Orsi, ma i frame non permettono di accertare se alla fine si sia rotto o sia rimasto intero.
Quello che è certo è che ieri sono piovuti nelle redazioni i soliti comunicati di solidarietà, non solo da parte di Azione, degli stessi Radicali e di Benedetto Della Vedova, ma anche del capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, che su X ha vergato un severo post: «Solidarietà a Matteo Hallissey, presidente dei Radicali italiani», ha scritto Bignami, «aggredito a un evento Anpi per aver provato a porre domande in un flash mob pacifico. Da chi ogni giorno impartisce lezioni di democrazia ma reagisce con violenza, non accettiamo lezioni». Non si comprende, come abbiamo detto, dove sia la violenza, perché per una volta bisogna pur mettere da parte il politically correct e l’ipocrisia dilagante e dire le cose come stanno: dal video emerge in maniera cristallina la natura provocatoria del flash mob pro Ucraina, e da quelle urla e da quegli atteggiamenti, per noi che abbiamo purtroppo l’abitudine a pensar male, anche se si fa peccato, fa capolino pure che magari l’obiettivo era proprio quello di scatenare una reazione violenta da parte dei partecipanti al convegno.
Non lo sapremo mai: quello che sappiamo è che i Radicali, sigla che nella politica italiana ha avuto un ruolo di primissimo piano per tante battaglie condotte in primis dal compianto Marco Pannella, sono ormai ridotti a praticare forme di puro macchiettismo politico, pur di ottenere un po’ di visibilità: ricorderete lo show di Riccardo Magi, deputato di +Europa, che vaga nell’aula di Montecitorio vestito da fantasma. A proposito di Magi: il congresso che lo scorso febbraio ha rieletto segretario di +Europa il deputato fantasma è stato caratterizzato da innumerevoli polemiche e altrettante ombre. Poche ore prima della chiusura del tesseramento, il 31 dicembre, dalla provincia di Napoli, in particolare da Giugliano e Afragola, arrivano la bellezza di 1.900 nuovi iscritti, praticamente un terzo dell’intera platea di tesserati, iscritti che poi si traducono in delegati che eleggono i vertici del partito. Una conversione di massa alla causa radicale degli abitanti di questi due popolosi comuni del Napoletano in sostanza stravolge gli equilibri congressuali. Tra accuse e controaccuse, un giovanissimo militante, alla fine dello stesso congresso, sconfigge nella corsa alla presidenza di +Europa uno storico esponente del partito come Benedetto Della Vedova. Si tratta proprio di Matteo Hallissey.
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