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2022-04-30
Impennata di arresti cardiaci nei giovani israeliani dopo il vaccino
Ansa
Alla faccia delle miocarditi da vaccino «rare e lievi», come scrivevano i cardiologi italiani lo scorso settembre. Un nuovo studio, condotto su dati israeliani, proietta ombre inquietanti sulle iniezioni anti Covid tra i più giovani. La ricerca - appena pubblicata su Nature - evidenzia un aumento di oltre il 25% di chiamate d’emergenza per arresti cardiaci e sindromi coronariche acute, in persone tra i 16 e i 40 anni e in concomitanza con le somministrazioni di prime e seconde dosi.
«Covarianza non è causazione», recita un vecchio adagio delle scienze statistiche. Bisogna tenerlo presente, perché gli scienziati di Boston e Tel Aviv non hanno potuto accertare se i pazienti assistiti avessero il Covid o si fossero sottoposti alla puntura a mRna. I risultati, comunque, alimentano i sospetti: l’incremento di gravi problemi cardiaci, registrato tra gennaio e giugno 2021 rispetto al 2019 e al 2020, è «significativamente associato ai tassi di prime e seconde dosi di vaccino» inoculate, ma non alle infezioni da coronavirus. Tra l’altro, persino in Israele, dove il fenomeno sarà stato accentuato dalla minore età media, a confronto con altre nazioni occidentali (30,4 anni contro i 46,5 italiani); dove i National emergency medical services (Esm) collezionano meticolosamente le informazioni sanitarie; persino lì, «alcuni dei casi potenzialmente rilevanti» potrebbero non esser stati «pienamente investigati». Pensate, allora, quanti ne avrà bucati il nostro lacunoso sistema di farmacovigilanza.
Veniamo ai dettagli. L’analisi uscita su Nature compara il periodo precedente alla comparsa del Sars-Cov-2 (gennaio 2019-febbraio 2020), i mesi di pandemia senza vaccini, da marzo a dicembre 2020 e quelli in cui l’avanzata del virus è corsa in parallelo con la campagna vaccinale (gennaio-giugno 2021). Cosa si riscontra? Un «aumento statisticamente significativo, di più del 25%», sia nelle chiamate d’emergenza per arresti cardiaci, sia in quelle per sindromi coronariche acute. L’incremento ha riguardato maschi e femmine tra 16 e 39 anni, benché, tra le seconde, sia stato ancor più consistente: +31,4% per arresti cardiaci, +40,8% per sindromi coronariche acute.
Osservando le cifre, ci si rende conto che «accresciuti tassi di vaccinazione nel rispettivo gruppo d’età sono associati ad accresciuti numeri nei conteggi settimanali delle chiamate per arresti cardiaci e sindromi coronariche acute». In sintesi: più iniezioni, più crisi di cuore. Invece, «il modello non ha individuato un’associazione statisticamente significativa tra i tassi d’infezione da Covid-19» e le telefonate ai soccorsi. La maggior frequenza di chiamate, da gennaio 2021, «segue strettamente alla somministrazione della seconda dose dei vaccini», mentre un ulteriore aumento, registrato da aprile di un anno fa, «sembra tenere dietro a un incremento delle vaccinazioni con singola dose ai guariti». È una scoperta da sventolare in faccia al governo dei migliori, che con l’apartheid del green pass si è accanito pure su chi aveva già sconfitto il virus. Ignorando le evidenze sull’efficacia dell’immunità naturale e, a quanto pare, esponendo la popolazione più giovane a effetti collaterali gravi.
Resterebbe da stabilire se gli eventi infausti, censiti in Israele, debbano essere interpretati come nuove manifestazioni avverse correlate alle vaccinazioni, o se si tratti degli strascichi delle già rilevate miocarditi e pericarditi. L’ipotesi formulata dallo studio di Nature è che l’incidenza di arresti cardiaci e sindromi coronariche acute sia «coerente con la nota relazione causale tra vaccini a mRna» e quelle patologie. Le miocarditi asintomatiche, ad esempio, provocano morti improvvise per arresto cardiaco nei giovani. Altre volte, vengono confuse proprio con le sindromi coronariche acute. Fatto sta che le chiamate d’emergenza sono state più per le donne che per gli uomini, sebbene le infiammazioni cardiache post vaccino risultino di solito più numerose tra questi ultimi. È il segnale di una sottodiagnosi delle miocarditi tra le ragazze? Può darsi.
Quel che è certo, è che un esame su una tale mole di dati (30.262 richieste di soccorso per arresti cardiaci e 60.398 per sindromi coronariche acute, di cui, rispettivamente, 945 e 3.945 negli under 40) dovrebbe indurre le autorità a una riflessione. Tecnicamente, si parla di policy implications. L’articolo ne suggerisce un paio.
Primo elemento: i «programmi di sorveglianza sui potenziali effetti collaterali dei vaccini e sugli esiti delle infezioni da Covid-19» dovrebbero incorporare le informazioni raccolte dai centri d’emergenza, per individuare prontamente eventuali tendenze allarmanti e indagarne le cause.
Seconda e ancora più rilevante raccomandazione: «È essenziale accrescere la consapevolezza, tra i pazienti e i clinici, riguardo ai sintomi», come i dolori al petto e la dispnea, che sono indici di sofferenze al cuore, al fine di «assicurare che il potenziale danno sia minimizzato». Un compito «particolarmente importante nella popolazione più giovane». Il contrario di ciò che è stato fatto nel nostro Paese, martellato dal proselitismo e dal telemarketing sanitario. Come se somministrare un vaccino equivalesse a vendere un folletto. Non ci illudano la parziale tregua nelle restrizioni e la sospensione del certificato verde - del suo impiego, mica della validità del codice a barre. Se in autunno ripartirà il tran tran sulle dosi a tappeto, dovremo pretendere prudenza e verità. Non propaganda.
Infarti e malori tra i ciclisti: «Mascherine e isolamento hanno indebolito le difese»
È emergenza nel mondo del ciclismo. Tutti gli anni, in particolare in questo periodo, le gare sono costellate da un gran numero di assenze. Ma quello a cui stiamo assistendo nel 2022 va ben oltre la normale routine di uno sport all’aperto. L’esorbitante cifra di ciclisti fermi non è dovuta solo al Covid. La maggior parte degli atleti è ferma a causa di influenze bronchiali o miocarditi. I comunicati stampa delle squadre parlano di una serie di patologie che comprendono tracheobronchiti, bronchiti influenzali, fino alle infezioni delle alte vie respiratorie, e sembra che i soggetti colpiti da queste forme influenzali fatichino a recuperare in tempi brevi. La risposta più plausibile, al momento, fornitaci da medici delle squadre e staff è che dopo essere stati imbavagliati per due anni con le mascherine, fra lockdown, distanziamenti e isolamenti, il corpo degli atleti non fosse più abituato ai virus in circolazione e il ritorno a una normale socialità pre-Covid, praticamente in tutta Europa tranne in Italia, è stato complice.
Tra Parigi e Nizza c’è stato un vero e proprio esodo. Alla partenza della quinta tappa, 18 atleti non sono partiti e 13 di loro lamentavano i sintomi del raffreddore. Secondo gli organizzatori non sono stati presenti casi di coronavirus tra di loro. Il punto spinoso è che le condizioni precarie degli atleti potrebbero influenzare tutto il gruppo, poiché, se i ciclisti sani sono pochi, si rischia di sovraccaricarli.
Anche alla Milano-Sanremo le defezioni sono state tante. Il campione uscente, Jasper Stuyven, si è dovuto ritirare per un malanno preso durante la Parigi-Nizza. Pesanti anche le assenze di Sonny Colbrelli, Julian Alaphilippe, Davide Ballerini, Oliver Naesen e John Degenkolb che hanno dovuto alzare bandiera bianca a pochi giorni dalla gara, mentre Wout Van Aert, che sulla carta nelle Fiandre sarebbe stato il corridore da battere, ha contratto il Covid ed è rimasto allettato.
Il fatto di cronaca che ha allarmato maggiormente opinione pubblica e mondo del ciclismo è stato sicuramente l’arresto cardiaco di Sonny Colbrelli che sulle strade del Giro della Catalogna, il 21 marzo, si è accasciato per terra subito dopo il traguardo.
Anche le dichiarazioni di Peter Sagan e Vincenzo Nibali non hanno lasciato tranquilli gli appassionati. Sagan, ex campione del mondo, non è ancora tornato nella sua condizione migliore, con la nuova squadra TotalEnergies. È stato colpito dal Covid a gennaio e poi da febbre e mal di gola a marzo. I ritiri per lui sono stati numerosi: ha abbandonato la Tirreno Adriatico dopo due tappe e ha saltato il Giro delle Fiandre. Parlando con La Gazzetta dello Sport ha poi ammesso: «Ho male alle gambe e spossatezza. Non sto bene, mi sento sempre stanco e adesso bisogna capire il perché». Preoccupante. Neanche la diciottesima stagione di Nibali da professionista è cominciata nel migliore dei modi.
Il trentasettenne ha disputato appena 12 giorni di gara, metà del solito. A febbraio si è ammalato di Covid e curandosi a casa non erano stati riscontrati particolari problemi. Racconta al Corriere della Sera: «A contagio concluso, dopo essere risalito in bici, il tracollo; una notte sono stato così male che ho detto a mia moglie di chiamare l’ambulanza. Deliravo. I problemi alle vie respiratorie sono durati giorni e giorni. Mi sentivo uno straccio». E abbozza come spiegazione alle tante defezioni: «Credo che molti di noi abbiano sottovalutato l’infezione cercando di recuperare troppo in fretta, non a caso tanti colleghi sono fuori uso».
Come si evince, la tensione nel mondo delle corse è alta, soprattutto perché le domande che emergono dalla cronaca sono svariate e confuse e di risposte ufficiali nemmeno l’ombra. L’Uae team Emirates ci ha risposto che le defezioni sono sì dovute a incidenti o lesioni, ma possono essere spiegate da un mix di immunità ridotta per aver indossato, per due anni consecutivi, la mascherina e il ritorno a una vita sociale quasi a pieno regime.
Joost De Maeseneer, medico responsabile dell’Intermarché-Wanty-Gobert World Team è stato piuttosto deciso in merito al minor numero di presenti sulla linea di partenza, escludendo categoricamente che i problemi possano essere dovuti al Long Covid o ai vaccini. Piuttosto, è convinto siano dovuto al fatto che veniamo da «periodi in cui siamo stati isolati, in cui abbiamo avuto costantemente in volto la mascherina, e in cui non ci siamo mai ammalati di malattie diverse dal Covid. Ora, dopo tutto questo tempo gli atleti vanno ad allenarsi al freddo e torna preponderante il virus dell’influenza. Non abbiamo le difese immunitarie per questo, e questa è la ragione».
L’Uci, Unione ciclistica internazionale, organo mondiale di governo del ciclismo sportivo, è l’unico ente in grado di avere una panoramica completa, poiché tutte le squadre lo aggiornano in merito alla situazione clinica dei singoli atleti. Ci si immagina quindi che non appena elaborati i dati si potranno fornire risposte adeguate, ancora non pervenute. Intanto, che questi due anni abbiano contribuito a una inibizione del nostro sistema immunitario è l’ipotesi principale, come del resto sta succedendo, con ogni probabilità, nei casi di epatite nei bambini, più sviluppati in Inghilterra che in Italia, ad oggi.
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Lo studio su «Nature» mostra la correlazione tra iniezioni e malattie cardiovascolari. Aumentate di oltre il 25% le chiamate d’emergenza per la fascia 16-39 anni in seguito all’avvio della campagna d’inoculazione.Infarti e malori tra i ciclisti: «Mascherine e isolamento hanno indebolito le difese». Boom anche di influenze e miocarditi. L’Uci raccoglie le segnalazioni ma non fornisce dati. Il dottor Joost De Maeseneer: «Sistema immunitario fiaccato da due anni di restrizioni».Lo speciale comprende due articoli.Alla faccia delle miocarditi da vaccino «rare e lievi», come scrivevano i cardiologi italiani lo scorso settembre. Un nuovo studio, condotto su dati israeliani, proietta ombre inquietanti sulle iniezioni anti Covid tra i più giovani. La ricerca - appena pubblicata su Nature - evidenzia un aumento di oltre il 25% di chiamate d’emergenza per arresti cardiaci e sindromi coronariche acute, in persone tra i 16 e i 40 anni e in concomitanza con le somministrazioni di prime e seconde dosi. «Covarianza non è causazione», recita un vecchio adagio delle scienze statistiche. Bisogna tenerlo presente, perché gli scienziati di Boston e Tel Aviv non hanno potuto accertare se i pazienti assistiti avessero il Covid o si fossero sottoposti alla puntura a mRna. I risultati, comunque, alimentano i sospetti: l’incremento di gravi problemi cardiaci, registrato tra gennaio e giugno 2021 rispetto al 2019 e al 2020, è «significativamente associato ai tassi di prime e seconde dosi di vaccino» inoculate, ma non alle infezioni da coronavirus. Tra l’altro, persino in Israele, dove il fenomeno sarà stato accentuato dalla minore età media, a confronto con altre nazioni occidentali (30,4 anni contro i 46,5 italiani); dove i National emergency medical services (Esm) collezionano meticolosamente le informazioni sanitarie; persino lì, «alcuni dei casi potenzialmente rilevanti» potrebbero non esser stati «pienamente investigati». Pensate, allora, quanti ne avrà bucati il nostro lacunoso sistema di farmacovigilanza. Veniamo ai dettagli. L’analisi uscita su Nature compara il periodo precedente alla comparsa del Sars-Cov-2 (gennaio 2019-febbraio 2020), i mesi di pandemia senza vaccini, da marzo a dicembre 2020 e quelli in cui l’avanzata del virus è corsa in parallelo con la campagna vaccinale (gennaio-giugno 2021). Cosa si riscontra? Un «aumento statisticamente significativo, di più del 25%», sia nelle chiamate d’emergenza per arresti cardiaci, sia in quelle per sindromi coronariche acute. L’incremento ha riguardato maschi e femmine tra 16 e 39 anni, benché, tra le seconde, sia stato ancor più consistente: +31,4% per arresti cardiaci, +40,8% per sindromi coronariche acute. Osservando le cifre, ci si rende conto che «accresciuti tassi di vaccinazione nel rispettivo gruppo d’età sono associati ad accresciuti numeri nei conteggi settimanali delle chiamate per arresti cardiaci e sindromi coronariche acute». In sintesi: più iniezioni, più crisi di cuore. Invece, «il modello non ha individuato un’associazione statisticamente significativa tra i tassi d’infezione da Covid-19» e le telefonate ai soccorsi. La maggior frequenza di chiamate, da gennaio 2021, «segue strettamente alla somministrazione della seconda dose dei vaccini», mentre un ulteriore aumento, registrato da aprile di un anno fa, «sembra tenere dietro a un incremento delle vaccinazioni con singola dose ai guariti». È una scoperta da sventolare in faccia al governo dei migliori, che con l’apartheid del green pass si è accanito pure su chi aveva già sconfitto il virus. Ignorando le evidenze sull’efficacia dell’immunità naturale e, a quanto pare, esponendo la popolazione più giovane a effetti collaterali gravi. Resterebbe da stabilire se gli eventi infausti, censiti in Israele, debbano essere interpretati come nuove manifestazioni avverse correlate alle vaccinazioni, o se si tratti degli strascichi delle già rilevate miocarditi e pericarditi. L’ipotesi formulata dallo studio di Nature è che l’incidenza di arresti cardiaci e sindromi coronariche acute sia «coerente con la nota relazione causale tra vaccini a mRna» e quelle patologie. Le miocarditi asintomatiche, ad esempio, provocano morti improvvise per arresto cardiaco nei giovani. Altre volte, vengono confuse proprio con le sindromi coronariche acute. Fatto sta che le chiamate d’emergenza sono state più per le donne che per gli uomini, sebbene le infiammazioni cardiache post vaccino risultino di solito più numerose tra questi ultimi. È il segnale di una sottodiagnosi delle miocarditi tra le ragazze? Può darsi. Quel che è certo, è che un esame su una tale mole di dati (30.262 richieste di soccorso per arresti cardiaci e 60.398 per sindromi coronariche acute, di cui, rispettivamente, 945 e 3.945 negli under 40) dovrebbe indurre le autorità a una riflessione. Tecnicamente, si parla di policy implications. L’articolo ne suggerisce un paio. Primo elemento: i «programmi di sorveglianza sui potenziali effetti collaterali dei vaccini e sugli esiti delle infezioni da Covid-19» dovrebbero incorporare le informazioni raccolte dai centri d’emergenza, per individuare prontamente eventuali tendenze allarmanti e indagarne le cause. Seconda e ancora più rilevante raccomandazione: «È essenziale accrescere la consapevolezza, tra i pazienti e i clinici, riguardo ai sintomi», come i dolori al petto e la dispnea, che sono indici di sofferenze al cuore, al fine di «assicurare che il potenziale danno sia minimizzato». Un compito «particolarmente importante nella popolazione più giovane». Il contrario di ciò che è stato fatto nel nostro Paese, martellato dal proselitismo e dal telemarketing sanitario. Come se somministrare un vaccino equivalesse a vendere un folletto. Non ci illudano la parziale tregua nelle restrizioni e la sospensione del certificato verde - del suo impiego, mica della validità del codice a barre. Se in autunno ripartirà il tran tran sulle dosi a tappeto, dovremo pretendere prudenza e verità. 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I comunicati stampa delle squadre parlano di una serie di patologie che comprendono tracheobronchiti, bronchiti influenzali, fino alle infezioni delle alte vie respiratorie, e sembra che i soggetti colpiti da queste forme influenzali fatichino a recuperare in tempi brevi. La risposta più plausibile, al momento, fornitaci da medici delle squadre e staff è che dopo essere stati imbavagliati per due anni con le mascherine, fra lockdown, distanziamenti e isolamenti, il corpo degli atleti non fosse più abituato ai virus in circolazione e il ritorno a una normale socialità pre-Covid, praticamente in tutta Europa tranne in Italia, è stato complice. Tra Parigi e Nizza c’è stato un vero e proprio esodo. Alla partenza della quinta tappa, 18 atleti non sono partiti e 13 di loro lamentavano i sintomi del raffreddore. Secondo gli organizzatori non sono stati presenti casi di coronavirus tra di loro. Il punto spinoso è che le condizioni precarie degli atleti potrebbero influenzare tutto il gruppo, poiché, se i ciclisti sani sono pochi, si rischia di sovraccaricarli. Anche alla Milano-Sanremo le defezioni sono state tante. Il campione uscente, Jasper Stuyven, si è dovuto ritirare per un malanno preso durante la Parigi-Nizza. Pesanti anche le assenze di Sonny Colbrelli, Julian Alaphilippe, Davide Ballerini, Oliver Naesen e John Degenkolb che hanno dovuto alzare bandiera bianca a pochi giorni dalla gara, mentre Wout Van Aert, che sulla carta nelle Fiandre sarebbe stato il corridore da battere, ha contratto il Covid ed è rimasto allettato. Il fatto di cronaca che ha allarmato maggiormente opinione pubblica e mondo del ciclismo è stato sicuramente l’arresto cardiaco di Sonny Colbrelli che sulle strade del Giro della Catalogna, il 21 marzo, si è accasciato per terra subito dopo il traguardo. Anche le dichiarazioni di Peter Sagan e Vincenzo Nibali non hanno lasciato tranquilli gli appassionati. Sagan, ex campione del mondo, non è ancora tornato nella sua condizione migliore, con la nuova squadra TotalEnergies. È stato colpito dal Covid a gennaio e poi da febbre e mal di gola a marzo. I ritiri per lui sono stati numerosi: ha abbandonato la Tirreno Adriatico dopo due tappe e ha saltato il Giro delle Fiandre. Parlando con La Gazzetta dello Sport ha poi ammesso: «Ho male alle gambe e spossatezza. Non sto bene, mi sento sempre stanco e adesso bisogna capire il perché». Preoccupante. Neanche la diciottesima stagione di Nibali da professionista è cominciata nel migliore dei modi. Il trentasettenne ha disputato appena 12 giorni di gara, metà del solito. A febbraio si è ammalato di Covid e curandosi a casa non erano stati riscontrati particolari problemi. Racconta al Corriere della Sera: «A contagio concluso, dopo essere risalito in bici, il tracollo; una notte sono stato così male che ho detto a mia moglie di chiamare l’ambulanza. Deliravo. I problemi alle vie respiratorie sono durati giorni e giorni. Mi sentivo uno straccio». E abbozza come spiegazione alle tante defezioni: «Credo che molti di noi abbiano sottovalutato l’infezione cercando di recuperare troppo in fretta, non a caso tanti colleghi sono fuori uso». Come si evince, la tensione nel mondo delle corse è alta, soprattutto perché le domande che emergono dalla cronaca sono svariate e confuse e di risposte ufficiali nemmeno l’ombra. L’Uae team Emirates ci ha risposto che le defezioni sono sì dovute a incidenti o lesioni, ma possono essere spiegate da un mix di immunità ridotta per aver indossato, per due anni consecutivi, la mascherina e il ritorno a una vita sociale quasi a pieno regime. Joost De Maeseneer, medico responsabile dell’Intermarché-Wanty-Gobert World Team è stato piuttosto deciso in merito al minor numero di presenti sulla linea di partenza, escludendo categoricamente che i problemi possano essere dovuti al Long Covid o ai vaccini. Piuttosto, è convinto siano dovuto al fatto che veniamo da «periodi in cui siamo stati isolati, in cui abbiamo avuto costantemente in volto la mascherina, e in cui non ci siamo mai ammalati di malattie diverse dal Covid. Ora, dopo tutto questo tempo gli atleti vanno ad allenarsi al freddo e torna preponderante il virus dell’influenza. Non abbiamo le difese immunitarie per questo, e questa è la ragione». L’Uci, Unione ciclistica internazionale, organo mondiale di governo del ciclismo sportivo, è l’unico ente in grado di avere una panoramica completa, poiché tutte le squadre lo aggiornano in merito alla situazione clinica dei singoli atleti. Ci si immagina quindi che non appena elaborati i dati si potranno fornire risposte adeguate, ancora non pervenute. Intanto, che questi due anni abbiano contribuito a una inibizione del nostro sistema immunitario è l’ipotesi principale, come del resto sta succedendo, con ogni probabilità, nei casi di epatite nei bambini, più sviluppati in Inghilterra che in Italia, ad oggi.
(Apple Tv)
Non è affatto detto che sia così perché, dietro l’obiettivo di rovesciare le formule della fantascienza, si nasconde l’ambizione di una riflessione sul rapporto tra benessere collettivo e libertà individuale, tra felicità globale e identità personale. Il tutto proposto con grande cura formale, ottime musiche e qualche lungaggine autoriale. Possibili, lontani, riferimenti: Lost, per i prologhi spiazzanti e i flashback, Truman Show, per la solitudine e l’apparenza stranianti, Black Mirror, per la cornice distopica. Ma la mano dell’ideatore è inconfondibile.
Ci troviamo ad Albuquerque, la città del New Mexico già teatro dei precedenti plot di Gilligan, ma stavolta la vicenda è tutt’altra. Siamo in un futuro progredito e un certo rigore si è già radicato nella quotidianità. Per esempio, l’avviamento delle auto di ultima generazione è collegato alla prova di sobrietà del palloncino: se si è stati al pub, l’auto non parte. Individuato da un gruppo di astronomi, un virus Rna proveniente dallo spazio, trasmesso in laboratorio da un topo e contagiato tramite baci e alimenti, rende gli esseri umani felici, gentili e samaritani con il prossimo. Le persone agiscono come un’unica mente collettiva, ma non a causa di un’invasione aliena, tipo L’invasione degli ultracorpi, bensì per il fatto che «noi siamo noi», garantisce un politico che parla dalla Casa Bianca, anche se non è il presidente. «Gli scienziati hanno creato in laboratorio una specie di virus, più precisamente una colla mentale capace di tenerci legati tutti insieme». In questo mondo, non esiste il dolore, non si registrano reati, le prigioni sono vuote, le strade non sono mai congestionate, regna la pace. Tutto è perfetto e patinato, perché la contraddizione non esiste. Debellata, dietro una maschera suadente. La colla mentale dispone alla benevolenza e alla correttezza le persone. Che però non possono scegliere, ma agire solo in base a un «imperativo genetico». Soltanto 12 persone in tutto il Pianeta sono immuni al contagio. Ma mentre undici sembrano disposte a recepirlo, l’unica che si ribella è Carol Sturka (Reha Seehorn), una scrittrice di romanzi per casalinghe sentimentali. Cinica, diffidente, omosex e discretamente testarda, malgrado vicini, conoscenti e certi soccorritori ribadiscano le loro buone intenzioni - «vogliamo solo renderti felice» - lei non vuole assimilarsi ed essere rieducata dal virus dei buoni. I quali, ogni volta che lei respinge bruscamente le loro attenzioni, restano paralizzati in strane convulsioni, alimentando i suoi sensi di colpa. Il prezzo della libertà è una solitudine sterminata, addolcita dal fatto che, componendo un numero di telefono, può vedere esaudito ogni desiderio: cibi speciali, cene su terrazze panoramiche, giornate alle terme, Rolls Royce fiammanti. Quando si imbatte in qualche complicazione è immediatamente soccorsa da Zosia (Karolina Wydra), volto seducente della mente collettiva, o da un drone, tempestivo nel recapitarle a domicilio la più bizzarra delle richieste. A Carol è anche consentito di interagire con gli altri umani esenti dal contagio. Che però non condividono il suo progetto di ribellione alla felicità coatta: tocca a noi riparare il mondo. «Perché? La situazione sembra ideale, non ci sono guerre, viviamo tranquilli», ribatte un viveur che sfrutta ogni lusso e privilegio concesso dalla mente collettiva.
L’idea di questa serie risale a circa otto o nove anni fa, ha raccontato Gilligan in un’intervista. «In quel periodo io e Peter Gould (il suo principale collaboratore, ndr.) avevamo iniziato a lavorare a Better Call Saul e ci divertivamo parecchio. Durante le pause pranzo avevo l’abitudine di vagare nei dintorni dell’ufficio immaginando un personaggio maschile con cui tutti erano gentili. Tutti lo amavano e non importa quanto lui potesse essere scortese, tutti continuavano a trattarlo bene». Poi, nella ricerca del perché di questa inspiegabile gentilezza, la storia si è arricchita e al posto di un protagonista maschile si è imposta la figura della scrittrice interpretata da Reha Seehorn, già nel cast di Better Call Saul. Su di lei, a lungo sola in scena, si regge lo sviluppo del racconto. A un certo punto, provata dalla solitudine, ma senza voler smettere d’indagare anche perché incoraggiata dalle prime inquietanti scoperte, Carol cambia strategia, smorzando la sua ostilità…
Il titolo della serie deriva da «E pluribus unum», cioè «da molti, uno», antico motto degli Stati Uniti, proposto il 4 luglio 1776 per simboleggiare l’unione delle prime 13 colonie in una sola nazione. Gilligan ha trasferito la suggestione di quel motto a una dimensione esistenziale e filosofica, inscenando una sorta di apocalisse dolce per riflettere sulla problematica convivenza tra singolo e collettività. Per questo, in origine, Plur1bus era scritto con l’1 al posto della «i».
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Emmanuel Macron (Ansa)
La sola istanza che ha una parvenza di rappresentanza è il Palamento europeo. Così il Mercosur, il mega accordo commerciale con Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, più annessi, che deve creare un’area di libero scambio da 700 milioni di persone che Ursula von der Leyen vuole a ogni costo per evitare che Javier Milei faccia totalmente rotta su Donald Trump, che il Brasile si leghi con la Cina e che l’Europa dimostri la sua totale ininfluenza, rischia di crollare e di portarsi dietro, novello Sansone, i filistei dell’eurocrazia.
Il Mercosur ieri ha fatto due passi indietro. Il Parlamento europeo con ampia maggioranza (431 voti a favore Pd in prima fila, 161 contrari e 70 astensioni, Ecr-Fratelli d’Italia fra questi, i lepenisti e la Lega hanno votato contro) ha messo la Commissione con le spalle al muro. Il Mercosur è accettabile solo se ci sono controlli stringenti sui requisiti ambientali, di benessere animale, di salubrità, di rispetto etico e di sicurezza alimentare dei prodotti importati (è la clausola di reciprocità), se c’è una clausola di salvaguardia sulle importazioni di prodotti sensibili tra cui pollame o carne bovina. Se l’import aumenta del 5% su una media triennale si torna ai dazi. Le indagini devono essere fatte al massimo in tre mesi e la sospensione delle agevolazioni deve essere immediata. Tutti argomenti che la Von der Leyen mai ha inserito nell’accordo. Ma sono comunque sotto il minimo sindacale richiesto da Polonia, Ungheria e Romania che sono contrarie da sempre e richiesto ora dalla Francia che ha detto: «Così com’è l’accordo non è accattabile».
Sono le stesse perplessità dell’Italia. Oggi la Commissione dovrebbe incontrare il Consiglio europeo per avviare la trattativa e andare, come vuole Von der Leyen, alla firma definitiva prima della fine dell’anno. La baronessa aveva già prenotato il volo per Rio per domani, ma l’hanno bloccata all’imbarco! Perché Parigi chiede la sospensione della trattativa. La ragione è che gli agricoltori francesi stanno bloccando il Paese: ieri le quattro principali autostrade sono state tenute in ostaggio da trattori che sono tornati a scaricare il letame sulle prefetture. Il primo ministro Sébastien Lecornu ha tenuto un vertice sul Mercosur incassando un no deciso da Jean-Luc Mélenchon, da Marine Le Pen ma anche dai repubblicani di Bruno Retailleau che è anche ministro dell’interno.
Domani, peraltro, a Bruxelles sono attesi almeno diecimila agricoltori- la Coldiretti è la prima a sostenere questa manifestazione - che con un migliaio di trattori assedieranno Bruxelles. L’Italia riflette, ma è invitata a fare minoranza di blocco dalla Polonia; la Francia vuole una mano per il rinvio. Certo che il Mercosur divide: la Coldiretti ha rimproverato il presidente di Federalimentare Paolo Mascarino che invece vuole l’accordo (anche l’Unione italiana vini spinge) di tradire la causa italiana. Chi invece vuole il Mercosur a ogni costo sono la Germania che deve vendere le auto che non smercia più (grazie al Green deal), la Danimarca che ha la presidenza di turno e vuole lucrare sull’import, l’Olanda che difende i suoi interessi commerciali e finanziari.
C’è un’evidente frattura tra l’Europa che fa agricoltura e quella che vuole usare l’agricoltura come merce di scambio. Le prossime ore potrebbero essere decisive non solo per l’accordo - comunque deve passare per la ratifica finale dall’Eurocamera - ma per i destini dell’Ue.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Questo allentamento delle norme consente che nuove auto con motore a combustione interna possano ancora essere immatricolate nell’Ue anche dopo il 2035. Non sono previste date successive in cui si arrivi al 100% di riduzione delle emissioni. Il presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha naturalmente magnificato il ripensamento della Commissione, affermando che «mentre la tecnologia trasforma rapidamente la mobilità e la geopolitica rimodella la competizione globale, l’Europa rimane in prima linea nella transizione globale verso un’economia pulita». Ursula 2025 sconfessa Ursula 2022, ma sono dettagli. A questo si aggiunge la dichiarazione del vicepresidente esecutivo Stéphane Séjourné, che ha definito il pacchetto «un’ancora di salvezza per l’industria automobilistica europea». Peccato che, in conferenza stampa, a nessuno sia venuto in mente di chiedere a Séjourné perché si sia arrivati alla necessità di un’ancora di salvezza per l’industria automobilistica europea. Ma sono altri dettagli.
L’autorizzazione a proseguire con i motori a combustione (inclusi ibridi plug-in, mild hybrid e veicoli con autonomia estesa) è subordinata a condizioni stringenti, perché le emissioni di CO2 residue, quel 10%, dovranno essere compensate. I meccanismi di compensazione sono due: 1) utilizzo di e-fuel e biocarburanti fino a un massimo del 3%; 2) acciaio verde fino al 7% delle emissioni. Il commissario Wopke Hoekstra ha spiegato infatti che la flessibilità è concessa a patto che sia «compensata con acciaio a basse emissioni di carbonio e l’uso di combustibili sostenibili per abbattere le emissioni».
Mentre Bruxelles celebra questa minima flessibilità come una vittoria per l’industria, il mondo reale offre un quadro ben più drammatico. Ieri Volkswagen ha ufficialmente chiuso la sua prima fabbrica tedesca, la Gläserne Manufaktur di Dresda, che produceva esclusivamente veicoli elettrici (prima la e-Golf e poi la ID.3). Le ragioni? Il rallentamento delle vendite di auto elettriche. La fabbrica sarà riconvertita in un centro di innovazione, lasciando 230 dipendenti in attesa di ricollocamento. Dall’altra parte dell’Atlantico, la Ford Motor Co. ha annunciato che registrerà una svalutazione di 19,5 miliardi di dollari legata al suo business dei veicoli elettrici. L’azienda ha perso 13 miliardi nel suo settore Ev dal 2023, perdendo circa 50.000 dollari per ogni veicolo elettrico venduto l’anno scorso. Ford sta ora virando verso ibridi e veicoli a benzina, eliminando il pick-up elettrico F-150 Lightning.
La crisi dell’auto europea non si risolve certo con questa trovata dell’ultima ora. Nonostante gli sforzi e i supercrediti di CO2 per le piccole auto elettriche made in Eu, la domanda di veicoli elettrici è debole. Questa nuova apertura, ottenuta a fatica, non sarà sufficiente a salvare il settore automobilistico europeo di fronte alla concorrenza cinese e al disinteresse dei consumatori. Sarebbe stata più opportuna un’eliminazione radicale e definitiva dell’obbligo di zero emissioni per il 2035, abbracciando una vera neutralità tecnologica (che includa ad esempio i motori a combustione ad alta efficienza di cui parlava anche il cancelliere tedesco Friedrich Merz). «La Commissione oggi fa un passo avanti verso la razionalità, verso il mercato, verso i consumatori ma servirà tanto altro per salvare il settore. Soprattutto servirà una Commissione che non chiuda gli occhi davanti all’evidenza», ha affermato l’assessore allo Sviluppo economico di Regione Lombardia Guido Guidesi, anche presidente dell’Automotive Regions Alliance. La principale federazione automobilistica tedesca, la Vda, ha detto invece che la nuova linea di Bruxelles ha il merito di riconoscere «l’apertura tecnologica», ma è «piena di così tanti ostacoli che rischia di essere inefficace nella pratica». Resta il problema della leggerezza con cui a Bruxelles si passa dalla definizione di regole assurde e impraticabili al loro annacquamento, dopo che danni enormi sono stati fatti all’industria e all’economia. Peraltro, la correzione di rotta non è affatto un liberi tutti. La riduzione del 100% delle emissioni andrà comunque perseguita al 90% con le auto elettriche. «Abbiamo valutato che questa riduzione del 10% degli obiettivi di CO2, dal 100% al 90%, consentirà flessibilità al mercato e che circa il 30-35% delle auto al 2035 saranno non elettriche, ma con tecnologie diverse, come motori a combustione interna, ibridi plug-in o con range extender» ha detto il commissario europeo ai Trasporti Apostolos Tzizikostas in conferenza stampa. Può darsi che sarà così, ma il commissario greco si è dimenticato di dire che quasi certamente si tratterà di auto cinesi.
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(Totaleu)
Lo ha dichiarato l'europarlamentare di Fratelli d'Italia durante un'intervista a margine dell’evento «Con coraggio e libertà», dedicato alla figura del giornalista e reporter di guerra Almerigo Grilz.