Alessandro Rosina, docente di demografia all’Università Cattolica di Milano, ha da poco pubblicato il libro Storia demografica d’Italia. Crescita, crisi e sfide con Roberto Impicciatore (Carocci editore). Un paese passato dal «baby boom» del secolo scorso all’emergenza delle poche nascite.
Quanto pesa l’aspetto economico e quanto quello culturale sulla bassa natalità?
«Se quando arriva un figlio la coppia riesce ad affrontare positivamente l’impatto sull’organizzazione familiare (senza dover rinunciare al lavoro di uno dei due) e i costi (senza esporsi troppo al rischio impoverimento), più facilmente tenderà a prendere in considerazione la possibilità di averne un altro. È il realizzarsi di tali condizioni che più manca nel nostro paese rispetto agli altri con cui ci confrontiamo».
Che ci dice questo confronto?
«Quello che fa la differenza tra l’Italia e il resto d’Europa non è il numero medio di figli desiderato (attorno a 2, come evidenziano i dati Istat ed Eurostat), ma quello effettivamente realizzato, in Italia pari a 1,25. Le coppie italiane rinunciano maggiormente a realizzare gli obiettivi familiari desiderati».
Cosa determina tale rinuncia?
«La carenza di politiche solide ed efficaci va a rafforzare l’idea che avere un figlio non è considerato un bene collettivo su cui tutta la società investe, ma soprattutto un costo privato a carico dei genitori. La combinazione tra basso valore collettivo assegnato a tale scelta e contesto generale di incertezza non porta a smettere di desiderare di avere un figlio ma, piuttosto, a lasciare sospesa la decisione. Intanto però il tempo passa e diventa implicitamente una rinuncia».
Perché c’è poco interesse verso le misure a sostegno della natalità?
«Alla base ci sono due idee implicite discutibili. La prima è che favorire i desideri di realizzazione in ambito familiare, delle condizioni di felicità e benessere che possono derivare dalla libera scelta di avere un figlio e vederlo crescere, non sia importante e tantomeno un obiettivo rilevante per le politiche pubbliche. La seconda è che basti la popolazione matura per garantire uno sviluppo sostenibile, mentre la scarsa presenza delle nuove generazioni non sia un problema, magari anzi un vantaggio. Un incubo dal quale le nuove generazioni possono sottrarsi emigrando in paesi che offrono più spazi e opportunità».
C’entra il nichilismo da cui sembra essere avvolta la società?
«Solo per una parte minoritaria della popolazione. Nella gran parte dei casi, più che di rifiuto di generare una vita si tratta di rinuncia. Anche nel confronto con gli altri paesi, non è maggiore in Italia la quota di chi nega il valore di tale scelta, ma più spesso ci si confronta con una scelta debole con politiche deboli a sostegno della sua piena realizzazione. Non si sceglie di nascere, ma si sceglie di essere genitori. Chiedersi cosa stia alla base della scelta di avere un figlio, quale significato individuale e collettivo le viene attribuito, è quindi una domanda che va a porsi al centro della questione di quale società si vuole costruire, con quali prospettive e quali valori di riferimento. È la scelta centrale di questo secolo».
Perché lo scenario demografico italiano odierno è disastroso? Cosa rischiamo?
«Quando il tasso di fecondità rimane posizionato attorno a 2, la popolazione smette di crescere, o diminuisce lentamente. Se invece tale indicatore scende repentinamente e rimane a lungo sensibilmente sotto tale livello, come è il caso dell’Italia, si determina un’alterazione strutturale con forti ripercussioni negative sul fronte sociale ed economico».
In che termini?
«La denatalità erode progressivamente la componente attiva del sistema economico e sociale, a fronte di un accentuato aumento della componente più matura. Se, inoltre, le risorse sono sempre più assorbite dalla crescente popolazione anziana, tendono a scendere gli investimenti verso le generazioni più giovani, vincolando lo sviluppo competitivo del paese. Va considerato che la denatalità tende ad autoalimentarsi, innescando un processo di avvitamento continuo verso il basso: le poche nascite passate riducono la popolazione oggi nell’età in cui si forma una propria famiglia. Più si aspetta, quindi, più diventa difficile uscire da tale spirale negativa e invertire la tendenza. Secondo le stime Ocse, siamo il paese che maggiormente rischia di trovarsi a metà secolo con un rapporto di 1 a 1 tra popolazione in pensione e lavoratori. Uno scenario del tutto insostenibile. Ci sarà un momento in cui non potremo più fingere di poter riuscire a farcela. A un certo punto bisognerà semplicemente ammettere di essere entrati in una fase di irreversibile declino e non rimarrà altro che gestirne i costi sociali».
L’Istat non esclude un ritorno a 500.000 nascite all’anno: è davvero possibile?
«Le nascite in Italia sono scese da oltre 550.000 nel 2010 a 420.000 nel 2019. La pandemia ha contribuito a farle scendere ulteriormente sotto 400.000. Si potrà risalire a 500.000 solo se l’inversione inizia subito e viene sostenuta in modo solido. Per riuscirci la media di 1,25 figli per donna dovrebbe salire fino a 1,65 nel 2037, un livello comunque sotto la Francia, attualmente attorno a 1,8. Difficile ma non impossibile. La Germania è passata da 1,33 nel 2006 a 1,6 nel 2016. La Svezia è salita da circa 1,5 nel 1999 a oltre 1,9 nel 2009».
Che cosa bisogna fare?
«Dobbiamo mettere in campo tutte le risorse e la capacità di implementazione necessarie, ma anche favorire un consenso condiviso su risultati attesi e desiderati. Bisogna combinare politiche familiari con condizioni che portano al rialzo anche occupazione giovanile, partecipazione femminile al mercato del lavoro, immigrazione di qualità in grado di rinsaldare la forza lavoro nel breve periodo. Tutto un paese, non solo la politica, deve muoversi nella stessa direzione».
Che cosa pensa del Family act?
«Con il Family act l’Italia è finalmente passata da politiche familiari costituite da un insieme di misure frammentate ed estemporanee, quindi spesso anche inique e inefficienti, a un pacchetto coerente e integrato. Al di là dei singoli contenuti - che possono essere rivisti e migliorati - la combinazione tra impostazione sistemica e consenso ampio oltre gli schieramenti politici, costituisce una novità importante. Oltre all’impianto serve ora soprattutto una realizzazione piena, urgente ed efficace».
Quali politiche familiari potrebbero aiutare lo sviluppo demografico?
«Serve la migliore combinazione tra l’uso delle risorse di Next generation Eu, l’attuazione delle misure integrate previste nel Family act, un clima del paese che torni a essere incoraggiante verso le scelte del presente che impegnano positivamente verso il futuro».
L’Italia ha il record di Neet, cioè giovani che non studiano e non lavorano: sono il 30% nella fascia 25-34 anni.
«È la conseguenza di limiti e fragilità italiane nella transizione scuola-lavoro e nella transizione, in generale, alla vita adulta. Tale condizione porta a una lunga dipendenza dalla famiglia di origine e quindi a posticipare i tempi per conquistare una propria autonomia e formare una propria famiglia. Non è un caso che i giovani italiani siano quelli in Europa che presentano l’età media più avanzata di arrivo del primo figlio. Su questo fronte le carenze riguardano le politiche abitative e le politiche attive del lavoro. Rispetto ai coetanei degli altri paesi è molto più comune dover ricorrere all’aiuto dei genitori per sostenere i costi di una abitazione e trovare lavoro affidandosi a conoscenze e segnalazioni più che ai canali formali dei servizi per l’impiego. Vanno rafforzati i percorsi di formazione professionale e l’apprendistato. Servono, in generale, soprattutto politiche che si rivolgano direttamente ai giovani come cittadini attivi e responsabilizzati. Il messaggio che deve arrivare ai giovani è che se studi e ti formi bene, potrai contare su strumenti efficaci che ti aiutano a trovare la collocazione in cui poter dare il meglio di te».
Il reddito di cittadinanza ha contribuito? Lo abolirebbe?
«Senza efficaci politiche attive del lavoro, è più uno strumento di protezione dal rischio di povertà che di promozione sociale. Di per sé non risolleva i giovani dalla condizione di Neet, ma li trasforma da dipendenti dai genitori a dipendenti dallo Stato. Più che abolirlo, va senz’altro migliorato».
Nel suo ultimo libro lei mostra che spesso momenti critici come le pandemie sono stati seguiti da tendenze demografiche positive. Che lezione possiamo apprendere dalla storia demografica dell’Italia?
«Nel passato, compreso il periodo del miracolo economico del secondo dopoguerra, benessere e sviluppo erano alimentati da un’ampia base demografica che dava spinta e dinamismo alla forza lavoro e solidità al sistema sociale. Oggi, in modo del tutto inedito, quelle condizioni non ci sono più. Va trovato un modo nuovo di garantire sostenibilità sociale e produzione di benessere non solo con una popolazione anziana in aumento, ma soprattutto con una diminuzione strutturale della popolazione in età lavorativa. Nella politica e nel dibattito pubblico non c’è ancora la consapevolezza di essere entrati in questa fase nuova».
Lei invita a guardare non al passato, ma al futuro.
«Non abbiamo alternative. Va colta la discontinuità della pandemia per superare i limiti del passato e per iniziare una fase di sviluppo su basi nuove. I margini per farlo ci sono se si rimettono al centro i progetti di vita delle persone e la loro inclusione attiva e qualificata nei processi che generano benessere. Se dopo la seconda guerra mondiale l’Italia è ripartita dalla ricostruzione materiale delle infrastrutture distrutte (edifici, ponti, rete di comunicazione, impianti), oggi serve uno sforzo analogo che parta però dal rafforzamento e rinnovo dell’infrastruttura sociale. Il successo delle politiche in tale direzione lo si vedrà dalla misura in cui natalità, occupazione femminile e giovanile, riusciranno a crescere in modo integrato e inclusivo».
Giovanni Scifoni è attore, regista e autore. È uno dei personaggi più amati di Doc - Nelle tue mani. Ha recitato in Una pallottola nel cuore, Squadra antimafia, Mio figlio, La meglio gioventù. I suoi video #Santodelgiorno sono diventati virali sui social e ha scritto Senza offendere nessuno, chi non si schiera è perduto per Mondadori.
Giovanni, le dico subito che questa intervista non comincerà presentandola come un cattolico super praticante, come ho visto fare da altri colleghi.
«È una definizione priva di senso che mi infastidisce moltissimo».
Ah sì?
«Ma certo. Non esiste la super pratica. A parte che mi fa sorridere che se uno va messa deve dire cattolico praticante, non basta cattolico, come se esistessero vari gradi. Cattolico non significa che tu vada a messa, poi c’è il cattolico praticante che va a messa ogni tanto e c’è il cattolico super praticante che va a messa tutte le domeniche. Buffo, perché invece quando dice che sei buddista devi solo dire che pratichi».
Ha avuto una carriera brillante, ma la sua popolarità è esplosa sul Web. Come se lo spiega?
«È nato un po’ per caso. Non è che mi sono messo lì a strutturare un programma. Ho iniziato a fare questi video sul santo del giorno e mi divertivo. All’inizio non mi si filava nessuno quando li facevo da solo, poi ho cominciato a coinvolgere mia moglie e i miei figli e sono diventato famoso».
Diventare famosi parlando dei santi oggi è un paradosso. Com’è stato possibile?
«Certamente ci sono degli argomenti più appetibili e argomenti meno. Se parli di politica o di temi sensibili come i diritti civili sei più appetibile, poi ci sono i temi che attraggono le persone in assoluto. Ci sono questioni cruciali che hanno a che vedere con l’essere umano da sempre e non sono contingenti alla contemporaneità e da sempre sono nell’immaginario di chiunque. Bisogna solo trovare il modo di veicolarli e renderli universali».
E perché ha cominciato con questi video?
«Semplicemente perché la questione mi stava a cuore. Penso che la figura del santo riesca più di altre figure a raccontare le miserie e gli splendori dell’essere umano; mi sembrava una categoria umana che potesse essere presa non a esempio ma a pretesto. Queste storie del santo che racconto sul Web non raccontano tanto la vita del santo, prendo a esempio un piccolissimo esempio di quella vita o quella predicazione per poi raccontare altro. Alla fine, racconto le dinamiche in famiglia, la miseria umana, la difficoltà nel mettere a posto casa».
Non ha paura di strumentalizzare la fede?
«Bisogna vedere quanto ti metti in discussione. Chi fa politica con il rosario in mano non si mette in discussione, è un meccanismo di captatio benevolentiae che è diverso. Mentre ci sono tantissimi politici che pregano nel silenzio della loro stanza senza farne una bandiera. Ne abbiamo avuti tanti come Giorgio La Pira. Perché abbiamo avuto ben chiaro che il rosario in mano ai comizi era una strumentalizzazione religiosa? Perché abbiamo visto nella persona l’utilizzo di un elemento caro a una fascia elettorale per acquistare voti».
E invece i suoi video sui santi?
«È un’altra cosa utilizzare i temi religiosi per interrogarsi. Semplicemente prendo questioni sacre per porre interrogativi che possono portare anche alla negazione del sacro. Da quando ho 30 anni racconto storie che hanno a che fare con il sacro, ma non per convincere qualcuno che io sia cattolico o per convertire qualcuno, ma perché secondo me il Vangelo e le storie raccontate nel Vangelo sono quelle che meglio di altre riescono, nel mio modo di comunicare, a raccontare i personaggi che ho per la testa».
In che senso?
«Quando racconto un personaggio per me è essenziale che si chieda se Dio esista o no. È fondamentale perché è una domanda importante, che un personaggio non può non farsi. Lo faccio anche per spirito di imitazione dei grandi del passato: Manzoni, Dostoevskij, Tolstoj, a cui faccio riferimento umilmente nel mio piccolo cercando di usare loro come maestri. Mi piacciono e loro non raccontavano, pur essendo autori credenti, un mondo dove Dio esiste, ma dove i personaggi si interrogano se Dio esista o no».
Il mondo oggi è molto polarizzato. C’è ancora uno spazio libero di riflessione?
«No. La polarizzazione oggi è tutto, soprattutto nei social media, che l’hanno acuita. Oggi apriamo il nostro smartphone, andiamo sui social e subito abbiamo una visione chiarissima della posizione che prendono su certi temi le persone che seguiamo. L’algoritmo aiuta gli utenti dei social a individuare chi la pensa come te e questo, come si dice, tante volte ha aumentato il fenomeno delle echo chamber. Questo ha portato di conseguenza a un modo di pensare sempre più autoriferito e ognuno è portato a dire ciò che la propria fan base si aspetta che diciamo. Purtroppo è così».
Con la risata non è possibile?
«No, non tanto con quella, ma mettendo in conto la possibilità di tradire il proprio pubblico, solo così è possibile una riflessione seria. Tutto quello che diciamo nei social e nei media, gli intellettuali, le persone che hanno una voce ascoltata, tutti abbiamo una base di fan i quali si aspettano che prendiamo una certa posizione su certi argomenti. Ci si aspetta che Fedez dica certe cose su certe questioni, così come ci si aspetta che Sgarbi dica certe cose su altri. Questo vanifica ogni tipo di riflessione perché i creatori di contenuti sono costretti a dire ciò che la fan base vuole sentirsi dire. Per rendere possibile un dialogo reale è necessario rompere il patto di fiducia con la propria fan base, come faceva costantemente Pasolini, i cui lettori erano sempre incazzati. Questo è il modo di comunicare, non ce n’è un altro».
Ha un intellettuale di riferimento? Ne esistono ancora?
«Ci sono persone che dicono cose che mi stimolano, ma intellettuali a cui fare riferimento non ce ne sono. Intellettuali come Simone Weil o Pier Paolo Pasolini oggi non ce ne sono. Alcuni dicono cose interessanti, come Umberto Galimberti, ma intellettuali no. Anche perché c’è talmente tanta roba sui social che è difficile anche capire di chi sia un pensiero. Il pensiero circola talmente tanto, i concetti circolano talmente tanto che è anche difficile stabilire se un’idea sia originaria di un creatore o presa da altri. Una riflessione politica o sociale diventa patrimonio del social media, non di una persona».
Cosa chiede al nuovo governo sulla situazione dei teatri?
«Bisogna aiutare in qualche modo i teatri privati che hanno avuto una botta mostruosa in questa pandemia, quelli pubblici un pochino si sono salvati. Per esempio, oggi faccio fatica a trovare i tecnici di luce e suono perché moltissimi hanno cambiato lavoro. Sarebbe necessario un aiuto al teatro privato, ma aiuti anche che si evidenzino in facilitazioni per far andare il pubblico a teatro. Più che dare soldi ai teatri, magari aiutare il pubblico ad andare a teatro, generando modelli virtuosi per cui la gente possa più facilmente sedersi in platea. I teatri pubblici sono generalmente più tutelati per le loro programmazioni».
Ha portato in teatro uno spettacolo chiamato Dio è contento quando godo. Cosa vuol dire?
«Non è che lo dico solo io eh, lo dice anche il Papa. Non so se Francesco sia venuto a vedere il mio spettacolo di nascosto, non credo. Ma ha fatto molti riferimenti e sono molto contento, perché mi ha fatto un grande spot (ride, ndr). Ha detto molto spesso che il sesso è dono di Dio: ne sono convinto. Nelle Lettere di Berlicche di Lewis, un diavolo dice che non si può tentare l’uomo con il piacere perché l’ha inventato Dio. Il piacere è roba di Dio. Il peccato è il casino che combini per ottenere piacere. Ma Dio è contento quando godiamo, è meno contento quando facciamo casini. Tutto il male che viene fatto è per ottenere piacere. Il sesso è una cosa bellissima, non è il sesso il problema: è cosa sei disposto a fare per ottenerlo».
Di cosa parla il suo nuovo spettacolo?
«Si chiama Beginning, spero che lo scrittore inglese che viene a vedere la prima domani non ci faccia causa, perché sicuramente saremmo stati un po’ più cafoni di come si immaginava, ma magari sarà contento. È un testo che appartiene all’iperrealismo estremo, la quarta parete diventa enorme e lo spettatore guarda due persone che si parlano in modo intimo senza nessuna battuta a effetto o a intreccio narrativo. Racconta la dinamica fondamentale del nostro tempo, la crisi dei quarantenni nei confronti dell’amore e del sesso».
Si spieghi meglio.
«I quarantenni oggi hanno il grandissimo problema che non si fidano più di nessuno. Se non sei già sistemato, non ti fidi più e senti la terra che ti scappa sotto i piedi. Quando arrivano i 40 anni inizi a pensare che l’amore è una grandissima fregatura e che nessuno ti può voler bene, perché fai un po’ schifo. E noi raccontiamo questo, ma con grandissima misericordia».
L’aneddoto più divertente che le è capitato in carriera?
«L’aneddotica si divide in due categorie: quelle che dici a tavola con gli attori e quelli che puoi raccontare ai giornalisti».
E cosa può raccontarmi?
«Il povero Luigi Maria Burruano, persona splendida a cui volevo veramente tantissimo bene, aveva questo problemino che ogni tanto beveva, parecchio. Ci trovavamo nella piazza di Trieste che ha questo molo bellissimo e lungo quasi un chilometro. Facevamo questa scena molto struggente in cui Luigi vedeva il fantasma di una ragazza e lo rincorreva sul molo. L’inquadratura era un campo molto lungo in cui si vedeva Luigi che rincorreva il fantasma lungo il molo. Era una giornata no, e a forza di correre sparisce dall’inquadratura».
Sparisce?
«Era finito in acqua, poverino. Era inverno, è cascato sugli scogli del mare ghiacciato. Una tragedia in realtà, ma non riuscivamo a smettere di ridere. Il set è il luogo infame in cui si diventa persone peggiori. Noi tutti giù a ridere di questo pover’uomo che s’era fatto malissimo».
In Qatar si rispettano tutte le religioni, ma ci si dimentica di quella cristiana
Il Paese è al diciottesimo posto tra quelli in cui i cristiani sono più perseguitati. E mentre la Fifa presta attenzione a non offendere musulmani, chi si interessa alle altre minoranze?
«Oggi mi sento qatarino. Oggi mi sento arabo. Oggi mi sento africano. Oggi mi sento gay. Oggi mi sento un lavoratore migrante». La frase di Gianni Infantino, presidente Fifa, ormai è arcinota, un po’ perché ha fatto il giro del web un po’ per l’incoerenza di Infantino stesso che pochi giorni prima si era invece pronunciato dicendo «concentratevi sul calcio», come a dire «lasciate perdere le polemiche sugli oltre 6.500 lavoratori che hanno perso la vita per costruire cattedrali nel deserto e lasciate perdere i diritti negati in Qatar».
Al netto di questo, nell’esternazione di Infantino e nelle proteste di media e social, una classe non è mai rappresentata: i cristiani. Si è scatenato un putiferio per l’imposizione delle birre analcoliche durante le partite. E giustamente. Chi se la guarda una partita in curva senza birra? Ma non una parola è stata spesa per i cristiani in Qatar. Perché anche i cristiani sono una minoranza, ma non essendo il cristianesimo così di moda, raccontare le loro persecuzioni lascia il tempo che trova.
Non lo dicono pericolose suggestioni conservatrici: ne parla la World Watch List di Open doors che ogni anno offre uno sguardo sui 50 luoghi del mondo in cui costa di più essere cristiani. Nel mondo i cristiani perseguitati sono 360 milioni. In un solo anno il Qatar ha fatto un balzo in avanti di undici posizioni nella classifica, diventando, nel 2022, il diciottesimo Paese per i cristiani perseguitati nel mondo. Si potrebbe obiettare che 20 anni fa i governanti del Qatar hanno persino donato ai cristiani un appezzamento di terreno. Vero, ma questo è rimasto l’unico terreno destinato alla costruzione di chiese e la legge del Qatar limita il culto pubblico per le fedi non islamiche. Al momento ben 90 chiese domestiche non registrate, a cui è stato vietato il culto, stanno ancora aspettando il permesso dal governo. I cristiani in Qatar sono 372.000 su una popolazione di circa 2,9 milioni. I simboli religiosi non possono essere chiaramente esposti e i convertiti dall’islam al cristianesimo rischiano sul serio: l’apostasia è punibile con la morte. Nei casi migliori si rischiano controllo della polizia, intimidazioni, perdita di lavoro, esclusione dalla società o perdita della custodia dei propri figli. Inoltre, il Codice penale evidenzia un’altra serie di altri reati, come l'errata interpretazione del Corano, l'offesa all'Islam o l'insulto ai profeti.
Sempre Open doors riporta una frase allucinante di un cittadino qatarino che racconta cosa accadrebbe se un nativo si convertisse: «Se ha dieci anni, suo padre gli mostrerà dei versetti del Corano. Se ha 20 anni, un cugino lo ucciderà o la famiglia assumerà qualcun altro per ucciderlo».
Un report del think thank Henry Jackson Society testimonia come i giovani qatarini vengano educati con il risentimento e il rifiuto per cristiani ed ebrei. La narrativa a scuola si concentra sugli attacchi del cristianesimo all’islam nella storia, partendo dalle crociate, seguite dall’opera missionaria e più recentemente dall’assalto democratico-secolare da parte dell’Occidente. Questi tentativi di distruggere la religione musulmana sono inoltre aggravati dall’aver concesso pari diritti alle donne.
Non stupirà allora che la Fifa abbia proibito di indossare costumi crociati perché reputato offensivo per i musulmani. Da anni i tifosi dell'Inghilterra sostengono la squadra vestendo i panni di San Giorgio, il santo patrono spesso raffigurato come un cavaliere crociato a cavallo. Due uomini travestiti come il santo, si sono presentati allo stadio per vedere la partita Inghilterra-Iran. Hanno dichiarato di aver ricevuto l'ordine di togliersi le cotte di maglia e gli scudi di San Giorgio fuori dalla prima partita dell'Inghilterra contro l'Iran e portati via dalla sicurezza è stato chiesto loro se fossero degli assassini di musulmani. I due inglesi, che vivono a Doha da diversi anni, hanno addirittura dichiarato di temere rappresaglie da parte delle autorità del Qatar.
Sapete se per caso la nazionale tedesca si coprirà la bocca anche per i cristiani?





