2020-06-05
Immuni parte male: pochi utenti ed è inutile
Donato Fasano/Getty Images
Il ministro Paola Pisano e il commissario Domenico Arcuri fanno festa per il milione e mezzo di persone che l'hanno scaricata, una cifra effimera. L'applicazione non va su alcuni telefoni e manca il coordinamento con i tamponi. Il virologo Andrea Crisanti: «L'impatto è troppo basso».ll giallo dell'App siciliana «doppione» ideata dall'ex sponsor di Matteo Renzi. Polemiche contro la Regione che nega tutto: «Il sistema lo gestisce la Protezione civile».Lo speciale comprende due articoli. Proprio nei giorni in cui un'applicazione per il tracciamento sarebbe stata più che mai necessaria, data la fine del lockdown in tutta Italia, Immuni continua a creare problemi e a non servire di fatto a nulla. In particolare per un motivo evidente: c'è una totale mancanza di coordinamento tra la app e i tamponi per trovare i cittadini positivi al covid 19. Non solo. Al netto delle polemiche sulle icone, tra mamme con figlio e papà al lavoro e viceversa, continua a mancare una regia tra Regioni e stato centrale, tanto che diversi governatori si sono già messi di traverso o hanno deciso di fare in autonomia. Il ministro per l'Innovazione, Paola Pisano, e il commissario Domenico Arcuri si dicono entusiasti del fatto che 1 milione e mezzo di cittadini italiani l'hanno scaricata. Ma entrambi dimenticano di dire che per un'applicazione di questo tipo, utilizzata in una fase di emergenza sanitaria, i download sono davvero molto pochi: il progetto di farla scaricare da 25 milioni di italiani resta al momento solo sulla carta. Basti pensare che in Regione Lombardia, con una popolazione di 10 milioni di abitanti, gli ultimi dati sui download di Allerta Lom sono appena superiori a 1 milione di persone. Aspetto sottolineato anche da Andrea Crisanti: «L'app Immuni così come è concepita e con i livelli di identificazione dei casi penso che abbia un impatto molto basso. Per avere un impatto dovrebbe essere scaricata dal 90% degli italiani» ha dichiarato alla trasmissione Agorà il direttore di Microbiologia e virologia all'università di Padova.Per di più nelle ultime ore si è scoperto che Immuni non funziona su tutti i telefoni di Huawei e del suo brand collegato Honor. E questo non vale solo sui modelli più recenti, sprovvisti dei servizi di Google a causa dei divieti Usa, ma anche su quelli precedenti, tra i più diffusi in Italia. In pratica diversi utenti lamentano in queste ore di non riuscire a scaricarla, tanto che su alcuni dispositivi è scomparsa per permettere un nuovo aggiornamento. Era la fine di febbraio quanto sul tavolo del ministro Pisano iniziavano ad arrivare le prime proposte di applicazione. Poi è stata formata una task force con 57 persone. Quindi è stata scelta l'applicazione contro cui si era schierato un gruppo di esperti. Alla fine la app è arrivata, ma solo da ieri è partita la sperimentazione in quattro Regioni, Puglia, Abruzzo, Marche e Liguria. Pisano ha fatto sapere che la prova durerà per una settimana. «Se scaricherò l'app Immuni? A queste condizioni no, a noi Regioni ci mette in grossa difficoltà», ha ribadito anche ieri il governatore del Veneto, Luca Zaia. «Io non contesto il tema della tracciabilità, ma Immuni ha un paio di problemi. Il primo è il trattamento dei dati, è un fatto di privacy, e il secondo è che non è possibile avere una gestione del dato dialogando direttamente col cittadino. Arriverà un Sms al cittadino e noi Regioni non sappiamo nulla di questi messaggi che verranno inviati: se si presenterà dal suo medico di base, se ometterà di presentarsi, se avrà paura di una quarantena, se avrà paura del fatto che verranno alla luce alcuni suoi contatti. Risulta difficile gestire la sanità pubblica pensando che l'intelligenza artificiale dialogherà con i cittadini». Zaia coglie uno dei punti più controversi dell'applicazione. Nessuno ha ancora capito che tipo di notifica arriverà sui cellulari né quali saranno i consigli da dare ai cittadini nelle singole Regioni, dal momento che ognuna ha una sua gestione sanitaria. Anche la Sicilia di Nello Musumeci ha deciso di fare da sola, lanciando la app «Sicilia sicura» per i turisti. Musumeci sostiene che non ci sarà conflitto con Immuni, ma è evidente che le due applicazioni potrebbero confliggere. Oltre quindi a un problema pratico di utilizzo, rimangono poi sempre sullo sfondo le criticità legate alla privacy. Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Esteri e deputato M5s, diceva ieri che Immuni è più sicura di Instagram o Facebook. Eppure, come già raccontato dalla Verità, il fatto che i dati siano salvati su server in Italia non danno rassicurazioni. Perché nella filiera coordinata da Sogei (la partecipata che si occupa dei server e del cloud) è stato scelto pure un partner estero, ovvero l'azienda statunitense Akamai. Il tema della privacy intorno alle app di tracciamento è oggetto di discussione in tutto il mondo. Soprattutto in Cina, dove la città di Hangzhou, circa 10 milioni di residenti, ha deciso di aggiornare la precedente app di tracciamento proponendo un sistema che dà ai cittadini un punteggio giornaliero basato sulle loro abitudini come i passi fatti, l'alcool consumato e la quantità di sonno che hanno trascorso. Insomma è il sistema del social credit system che permette di dare una classifica alle persone, studiando tutte le loro abitudini quotidiane e etichettandolo secondo un codice sanitario. Si parla da tempo anche di un «punteggio di salute di gruppo» per le aziende, che terrebbero così traccia del comportamento generale dei loro dipendenti. Questo sistema consente da un lato di essere premiati, ma anche puniti, sia negli spostamenti sia nella propria vita privata. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/immuni-parte-male-pochi-utenti-ed-e-inutile-2646153728.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ll-giallo-dellapp-siciliana-doppione-ideata-dallex-sponsor-di-renzi" data-post-id="2646153728" data-published-at="1591297839" data-use-pagination="False"> ll giallo dell’App siciliana «doppione» ideata dall’ex sponsor di Renzi C'è una parente siciliana di Immuni attorno alla quale, come nel caso dell'app nazionale, paiono intrecciarsi impresa e politica. Parliamo di Sicilia sicura, scaricabile da ieri da chiunque arriva nell'isola. In caso di febbre, l'app potrà essere usata per richiedere un intervento del personale sanitario. Di per sé, un'idea utilissima. Ma secondo alcune testate locali, come Messina oggi, a sviluppare il sistema è stata la Dedalus, società italiana la cui holding è presieduta da Giorgio Moretti, vecchia conoscenza di Matteo Renzi. Che però, alla Verità, dice di saperne «zero al cubo»: «Non mi occupo dell'Italia». Moretti ha finanziato l'ex premier («una o due cene elettorali», minimizza lui), è stato presidente a titolo gratuito della municipalizzata dei rifiuti fiorentini, quindi della Q-Thermo, che doveva realizzare l'inceneritore in città e fu indagato per gestione illecita di rifiuti e violazione delle norme sulla loro tracciabilità («archiviato e assolto», precisa). Da bravo imprenditore, comunque, ha trovato sponde anche al di fuori del Giglio magico. E a novembre 2019, dopo la «mossa del cavallo», è finito tra i main partner della ricerca svolta dalla Casaleggio associati sulle «imprese intelligenti». In Sicilia, su questa vicenda, sta scoppiando un finimondo. Per i detrattori, l'app era parte di un'iniziativa regionale di telemedicina, ribattezzata TeleCovid, approvata a inizio maggio e finanziata attingendo a una vecchia sovvenzione da 91 milioni di euro, che fu deliberata dall'ex ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, a favore dell'Irccs neurolesi messinese. Il progetto, per complessivi tre milioni e mezzo, prevede la distribuzione di kit per il monitoraggio di elettrocardiogramma e saturazione, che inviano i dati alla centrale operativa dell'istituto, il quale si serve di tecnologie messe a disposizione appunto da Dedalus. Il caos è esploso perché la project manager, Alessia Bramanti, è la figlia del direttore scientifico dello stesso Irccs Pulejo, Placido Bramanti, assunta dalla Dedalus a gennaio. Per questo motivo, ieri la Uil del capoluogo siculo ha presentato un esposto in Procura, alla Corte dei conti e all'Anac, chiedendo chiarimenti al presidente Nello Musumeci e all'assessore alla Salute, Ruggero Razza. Quest'ultimo, invero, afferma che l'app «Sicilia sicura verrà adoperata per monitorare i flussi turistici nell'isola» e che «non esiste alcuna correlazione» con TeleCovid. Ma negli allegati spediti dal Pulejo all'assessore, si parlava di una «webapp dedicata» e si menzionava la Dedalus. Sul cui sito campeggiano le infografiche inserite nella proposta trasmessa a maggio dal centro Pulejo a Razza. Sulla Sicilia, l'assessore assicurava che l'app «costerà non più di 30-40.000 euro», ma che il decreto, che concedeva all'Irccs 801.000 euro della Regione per l'acquisto di varie strumentazioni informatiche, «autorizza l'eventuale spesa di una somma che non sarà effettivamente erogata, in quanto legata a esigenze di un'emergenza che non c'è più». Quindi, i soldi per il Bonino Pulejo ci sono, anche se non servono. E la webapp impiegato dall'istituto non è Sicilia sicura, i cui dati, ci riferiscono dalla Regione, saranno gestiti dalla Protezione civile in due sedi, una in Sicilia centrale e una in Sicilia orientale. A coordinare la struttura legata al registro elettronico dedicato ai turisti sarà Guido Bertolaso, da poco sbarcato sull'isola. È un'Ansa del 2 giugno a infittire il giallo. «Da domani», cioè mercoledì 3, si legge, «chi arriverà in Sicilia avrà la possibilità di scaricare l'app Sicilia sicura». «A gestire i dati [...] è l'Irccs Bonino Pulejo di Messina». L'agenzia riporta pure alcuni virgolettati della Bramanti, che parla di «dati che ci arrivano», con riferimento a una struttura di «telemedicina», evidentemente accessibile a residenti e turisti. Perché la project manager parla di Sicilia sicura, se con quell'app non c'entra nulla? Forse, al di là del presunto conflitto d'interessi, la vicenda imbarazza politicamente la giunta. Il presidente ha appena incassato l'appoggio di cinque ex grillini, tra cui Elena Pagana, fidanzata di Razza. Del quale i cronisti locali ci dicono: «È per Musumeci quello che Giancarlo Giorgetti è per Matteo Salvini». Non a caso, persino da Italia viva è arrivato qualche segnale distensivo: nel giorno in cui i renziani si astenevano dal voto in giunta del Senato sul caso Open Arms ed eleggevano con il centrodestra la presidente della commissione d'inchiesta sul Covid in Lombardia, il gruppo di Iv a Palazzo dei Normanni non partecipava al voto sulla mozione di censura nei confronti dell'assessore al Lavoro Antonio Scavone. L'arrivo di Bertolaso (gradito alla destra come al Bullo), il mistero sull'app e sul ruolo dell'azienda grillorenziana: la Sicilia è un laboratorio di larghe intese?
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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