2020-09-12
Il virus? Macché. All’Eurogruppo ritorna sul tavolo la riforma del Mes
Mentre mancano ancora le linee guida per il Recovery fund, l'Europa spinge per il nuovo trappolone e blandisce Roberto Gualtieri.Il no del paradiso fiscale: «Preferiamo un'imposta globale decisa dall'Ocse» .Lo speciale contiene due articoliNon c'era da attendersi alcuna decisione rilevante dall'Eurogruppo di ieri a Berlino. Per due motivi: il primo è che si tratta di un organo informale che non decide nulla, ma in cui si raggiungono intese politiche senza alcun valore giuridico. Il secondo è che dopo ben due mesi per mettere a punto i prestiti del Sure e del Mes agli Stati e della Bei alle imprese - i cui soldi non si sono ancora visti - all'Eurogruppo avevano bisogno di fare il punto della situazione per capire cosa fare in futuro. E il programma non promette nulla di buono.Partiamo dal meno peggio. Cosa ne sarà delle regole del Patto di stabilità, sospese a marzo per la pandemia? Su questo, a partire dal neo presidente Pascal Donohoe per finire al commissario Paolo Gentiloni e al direttore generale del Mes Klaus Regling, sono tutti d'accordo: si rischia di imporre troppo presto il ritorno a quelle regole, come purtroppo accadde nel 2012, danneggiando gravemente il nostro Paese. Quelle regole devono restare sospese, liberando quindi da vincoli la legge di bilancio per il 2021 e (quasi certamente) 2022. Anche perché le recenti previsioni economiche della Bce, richiamate da Christine Lagarde, parlano di un recupero del livello di Pil ante crisi non prima della fine del 2022 e di un rimbalzo dell'economia durante il secondo semestre 2020 che comincia a perdere slancio. Allora tutti puntano, come sottolineato dal ministro Francese Bruno Le Maire, su una rapida implementazione del Recovery fund, caratterizzata però da divisioni e incertezze. Da un lato, tutti attendono le famose linee guida della Commissione per capire quali progetti saranno ammissibili all'interno delle linee guida definite a luglio. Senza tale aiuto, la discussione informale tra governi e Commissione, che durerà almeno fino a dicembre, non può nemmeno partire. Checché ne dicano a Roma. Dall'altro lato, per indebitarsi e quindi prestare soldi agli Stati, la Commissione ha bisogno di entrate certe. E qui si scoperchia il vaso di Pandora. Non dimentichiamo che Donohoe è irlandese e il suo Paese ospita la sede fiscale della Apple che recentemente la Corte di giustizia Ue ha assolto dal pagamento di 14 miliardi inizialmente dovuti per il regime fiscale di favore assimilato ad aiuto di Stato. Il presidente ha ammesso che il tema è divisivo, pur ritenendo necessario un cambio di passo nel regime fiscale di questi giganti del digitale. Le Maire è stato però chiaro: o si raggiunge un accordo in sede Ocse entro fine anno, oppure la Ue partirà da sola con la digital tax. È appena il caso di notare che anche il Lussemburgo, altro Paese con regime fiscale favorevole, si è messo di traverso rispetto a questa ipotesi. Se queste sono le premesse, su cui peraltro si litiga da anni, consiglieremmo al ministro Roberto Gualtieri l'uso di aggettivi più modesti rispetto all'«ambizioso», sfoderato ieri a proposito del piano per la ripresa.Proprio a Gualtieri ha fatto più volte un inusuale riferimento Donohoe, quando un giornalista gli ha chiesto chiarimenti sull'iter di approvazione della riforma del Mes. Il comportamento del titolare del Mef è stato definito «esemplare, per come ha rappresentato gli interessi dei suoi cittadini e del suo governo». Potremmo sbagliarci, ma a noi è sembrato un «salvate il soldato Gualtieri». Infatti, la riforma del Mes - su cui a dicembre 2019, prima che la crisi da Covid fermasse tutto, era già stata raggiunta un'intesa in linea di principio - è ormai cosa fatta e anche il francese Le Maire ha parlato di firmarla a novembre. C'è quindi da agevolare il passaggio politico che si preannuncia ostacolato dall'opposizione del M5s, e dipingere Gualtieri come un eroe nazionale potrebbe contribuire alla causa. Due fatti sostengono questa interpretazione. Primo, la stampa internazionale ha cominciato un «prudente pressing», additando l'Italia come unico ostacolo sulla strada dell'approvazione. Secondo, la mistificazione in corso sulla natura di questa riforma che viene fatta coincidere esclusivamente con il varo, sperabilmente anticipato, del cosiddetto paracadute del Mes a favore del fondo di risoluzione unico (Srf). In pratica, a partire da gennaio 2024, se un dissesto bancario assorbisse per intero la disponibilità del Srf (versate dalle banche fino a raggiungere 55 miliardi per quella data), allora potrebbe chiedere al Mes un prestito fino a 68 miliardi. Peccato che tali somme sono comunque irrilevanti rispetto alle dimensioni delle grandi banche (Commerzbank ha attivi per 460 miliardi, Unicredit circa il doppio) e le piccole banche non potranno beneficiarne. Ma purtroppo mettono in secondo piano che la riforma del Mes contiene anche la famosa linea di credito a sorveglianza rafforzata, sentiero perfetto per condurre l'Italia definitivamente sotto la Troika.A completare il quadro, l'Eurogruppo riprenderà il lavoro interrotto a dicembre sul completamento dell'Unione bancaria con l'introduzione della garanzia comune sui depositi bancari. Un altro tema su cui a dicembre lo scontro era stato acceso, con la proposta tedesca, che prevede una penalizzazione per i titoli di Stato detenuti dalle banche, contestata perfino da Gualtieri. Citando un famoso romanzo: Niente di nuovo sul fronte occidentale.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-virus-macche-alleurogruppo-ritorna-sul-tavolo-la-riforma-del-mes-2647600412.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-lussemburgo-contro-la-web-tax-mette-a-rischio-tutti-gli-aiuti-dellue" data-post-id="2647600412" data-published-at="1599894906" data-use-pagination="False"> Il Lussemburgo contro la Web tax mette a rischio tutti gli aiuti dell’Ue «Se nel medio lungo periodo la Ue sarà la sola ad avere messo in piedi una digital tax, sarebbe un detrimento per la competitività dell'Unione. La preferenza del Lussemburgo è avere una tassa a livello Ocse, cioè globale. Siamo pronti a pensare a una tassa a livello europeo se ci sarà una clausola di decadenza». Queste le parole del ministro dell'Economia lussemburghese, Pierre Gramegna, durante l'Ecofin informale di ieri a Berlino. E dunque il Lussemburgo inizia già a mettere le mani avanti su un'ipotetica discussione in merito alla Web tax made in Ue che potrebbe partire l'anno prossimo, nel caso in cui l'Ocse non riuscisse a trovare una soluzione globale. Le affermazioni di Gramegna non stupiscono però più di tanto dato che il Lussemburgo, insieme a Olanda e Irlanda, negli ultimi due anni hanno continuato a ostacolare i vari sforzi dell'Ue di portare a termine il progetto di una digital tax europea. La missione si è rivelata talmente complicata che a fine 2019 la Commissione decise di lasciare il compito all'Ocse, che entro la fine dell'anno dovrebbe riuscire a dar vita a delle linee guida sulla tassazione dei giganti del Web. Si sta però facendo strada sempre più prepotentemente la sensazione che nemmeno l'Ocse sia in grado di portare a termine il compito. D'altra parte al tavolo delle trattative internazionali sono seduti anche gli Stati Uniti che fin da principio si sono mostrati contrari a questa tassazione, perché andrebbe a penalizzare i suoi colossi del Web. E dunque, «se non è possibile avere un consenso all'Ocse alla fine di quest'anno, dovremmo proporre una soluzione europea all'inizio del 2021«, ha detto il ministro francese dell'Economia, Bruno Le Maire (Parigi dal luglio 2019 ha già una sua personale digital tax). La questione della tassa sui colossi del Web risulta essere ancora più importante se la si inserisce all'interno dell'ottica del Recovery fund che cuba 750 miliardi di euro e dovrebbe andare ad aiutare le economie degli Stati membri più colpite dal Covid-19. Il problema è che una parte del capitale dovrà essere finanziato tramite l'uso delle risorse proprie dell'Unione europea, che comprendono una serie di nuove tasse a livello europeo come la Web tax, la plastic tax e la carbon tax. Risorse che saranno difficili da reperire dato che per la loro realizzazione ci dovrà essere l'unanimità tra tutti gli Stati membri. Obiettivo mai raggiunto in questi anni sulle questioni fiscali che spingevano verso un obiettivo di tassazione unitaria. L' ultima conferma è arrivata proprio ieri dalle dichiarazioni rilasciate dal ministro dell'economia del Lussemburgo. Per il momento Irlanda e Olanda non si sono ancora esposte, ma a fine 2019 non hanno avuto nessun problema a respingere la nascita di una Web tax europea. E dunque, partendo da questo scenario, ci sono due possibili soluzioni. Da una parte la Commissione decide di applicare l'articolo 116 del Trattato sul funzionamento dell'Ue, per arginare i paradisi fiscali all'interno dell'Unione e dare il via alle varie riforme fiscali con una maggioranza qualificata. In questo caso il Recovery fund avrebbe a disposizione i fondi legati alle nuove tasse europee. Dall'altro, nel caso in cui non si riuscissero a recuperare le risorse collegate alla fiscalità Ue, si dovranno reperire altri capitali. Una soluzione, secondo fonti europee, vedrebbe il Recovery fund con risorse di finanziamento diverse. E questi potrebbero proprio essere i contributi degli Stati membri. Si potrebbe dunque pensare a un aumento della contribuzione da parte dei vari Paesi, inclusa l'Italia che è il terzo contributore netto al bilancio dell'Ue, per cercare di tamponare il mancato introito legato alla nuova fiscalità europea.
Roberto Occhiuto (Imagoeconomica)
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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