2023-06-09
Il vertice Onu per il clima (e persino le sue mail) in mano al petroliere arabo
Sultan Al Jaber (Getty images)
Il capo della compagnia emiratina presiede anche la Cop28 e secondo il «Guardian» suggerisce le risposte da dare ai media che stanno indagando per il conflitto di interessi.Ve lo immaginate il macellaio che sponsorizza le diete vegane? La multinazionale del tabacco che mette su una campagna antifumo? È più o meno di questo che parliamo, a proposito di Sultan Al Jaber, il ministro dell’Industria degli Emirati Arabi Uniti, nonché presidente della Cop28, la blasonata conferenza Onu sui cambiamenti climatici, che si svolgerà a Dubai dal 30 novembre al 12 dicembre prossimi. Dettaglio rilevante: l’inviato speciale per il climate change del Paese del Golfo, incaricato di fare gli onori di casa, è anche l’amministratore del gruppo Adnoc. Cioè, la compagnia petrolifera nazionale. Avete capito: il burattinaio del vertice sull’ambiente è un politico che fa affari con i combustibili fossili. Quelli che dovremmo eliminare, per completare la transizione ecologica e tener fede alle promesse sottoscritte a Parigi nel 2015: evitare che la temperatura del pianeta salga di più di un grado e mezzo entro il 2050. Certo, Al Jaber sa di non potersi muovere con la stessa disinvoltura di cui godevano, ai tempi dell’oligopolio, le Sette sorelle. Così, l’ingegnere chimico con laurea in California si è messo anche alla guida della compagnia di Stato che si occupa di energie rinnovabili. Per di più, la sua nomina a numero uno della Cop28, arrivata a gennaio di quest’anno, ha goduto di prestigiosi sostenitori: è stata difesa dal delegato americano John Kerry, convinto che «gli Emirati si siano impegnati nella transizione», oltre che dal vicepresidente della Commissione europea, Frans Timmermans. Secondo l’ecotalebano olandese, addirittura, il rappresentante emirato «si trova in una posizione ideale per svolgere un ruolo chiave in questa grande, grande transizione». Fatto sta che, al netto delle importanti manifestazioni di fiducia, l’uomo di Abu Dhabi ha attirato svariate critiche. Persino dall’ex segretario esecutivo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, Christiana Figueres. Ed è proprio in seguito alle sue clamorose rimostranze (la diplomatica costaricana ha denunciato un approccio «pericoloso»), che il Guardian ha scoperto un dettaglio succoso. Uno di quei momenti-verità capaci di smascherare l’ipocrisia verde che si cela dietro il maxi summit per l’ambiente: almeno fino a lunedì scorso, Adnoc aveva facoltà di consultare la posta elettronica che arrivava nella casella della Cop28. Non solo: il team al lavoro sul vertice climatico ha interpellato il gruppo petrolifero, quando il quotidiano britannico ha chiesto commenti sulle contestazioni della Figueres. I giornalisti inglesi si sono insospettiti perché, nel testo di replica della Cop28, hanno letto la dicitura: «Classificazione Adnoc: interna». Hanno preteso chiarimenti e si sono sentiti rispondere che il personale «ha cercato input da diversi esperti della materia riguardo le emissioni, inclusa Adnoc». Tuttavia, i funzionari hanno negato di aver condiviso i server con la società di Al Jaber. Il Guardian non si è fidato e ha commissionato all’Università di Cambridge un’analisi tecnica delle intestazioni delle email. Risultato: dalla catena dei messaggi, è stato possibile desumere che i server di Adnoc «erano coinvolti sia nell’invio, sia nella ricezione» della posta dagli uffici della Cop28. Questi ultimi, colti in fallo, hanno provato a buttare la palla in tribuna. Avevamo «trasferito i nostri dati dal precedente host a quello della nostra organizzazione», hanno spiegato, specificando che il processo dovrebbe essersi concluso lunedì scorso. Tutto risolto? I conflitti d’interessi del ministro petroliere, che va a parlare di transizione ecologica, rimangono. Ma almeno, le mail sulla lotta al climate change non le leggerà il colosso dei barili. Quello del politico di Abu Dhabi, ad ogni modo, non è l’unico paradosso verde che si è consumato nell’area del Golfo Persico. Ricordate l’inverecondo Mondiale in Qatar? Nei mesi che hanno preceduto la kermesse calcistica di dicembre 2022, erano infuriate le polemiche per l’imbarazzo dei padroni del pallone: campioni dei diritti Lgbt in Occidente, zitti con l’opulenta monarchia islamica. Era sembrato un indigeribile gesto di arroganza anche quello compiuto da Al Thani: durante la premiazione dell’Argentina, poco prima che Lionel Messi alzasse la coppa, l’emiro gli aveva messo addosso una mantellina tipica del vestiario locale. Ma almeno - si diceva - il Mondiale era stato ecosostenibile. «Neutrale» dal punto di vista delle emissioni di CO2, vantava la Fifa. Ebbene: a quanto pare, questa della World cup ambientalista era una bufala. Lo ha certificato l’ente svizzero che verifica la veridicità delle comunicazioni commerciali, dando seguito alle lagnanze di Berna e di altri quattro Paesi (Regno Unito, Olanda, Francia, Belgio) contro la Federazione. Stando alla sentenza della commissione, le cui raccomandazioni non sono vincolanti e contro la quale, comunque, la Fifa ricorrerà, non sono state fornite prove della neutralità climatica del Mondiale. E non è finita: Gianni Infantino e soci non hanno dimostrato di aver già compensato, come andavano raccontando, oltre tre milioni di tonnellate di anidride carbonica emesse, né hanno illustrato piani per futuri interventi. Alla faccia dell’ecologia. È facile bagnare le campagne di marketing in un brodino verde. O nero. Come il petrolio.
Roberto Occhiuto (Imagoeconomica)
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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