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2019-05-08
La Cina ha firmato un assegno da 81 miliardi a Maduro. Ora non vuole perderli
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Innanzitutto troviamo la Russia che, in questa crisi, sta svolgendo un ruolo di primo piano nel contrasto all'iniziativa statunitense in favore di Juan Guaidò. Dai primi anni Duemila, a seguito dell'ascesa di Vladimir Putin, le relazioni tra Mosca e Caracas si sono notevolmente rafforzate. E questo per due ordini di ragione. In primis, il Cremlino ha considerato il Venezuela come parte di una strategia geopolitica di ampio respiro, con l'obiettivo di arginare l'influenza statunitense in America latina. In secondo luogo, Putin ha visto nello Stato sudamericano un'opportunità di business per numerose aziende statali e private russe (soprattutto nel settore energetico e degli armamenti). In quest'ottica, nei primi anni Duemila entrarono nel mercato venezuelano svariate società russe come Gazprom, Rosneft e Lukoil. Sempre in quel periodo, tra l'altro, Caracas divenne il principale acquirente di armi russe in seno all'emisfero occidentale. Il punto è che - con il passare del tempo - i legami economici tra i due Paesi si sono non poco affievoliti. Non soltanto perché le aziende russe hanno riscontrato una sempre più agguerrita concorrenza di quelle cinesi in loco. Ma anche perché - più in generale - il problematico contesto socioeconomico venezuelano alla lunga si è fatto sentire: un contesto notoriamente martoriato - soprattutto negli ultimi anni - da crisi economica, instabilità politica e corruzione dilagante. Tutto questo ha condotto a un progressivo allontanamento delle aziende russe dal territorio. E oggi l'unica grande società russa rimasta operante in Venezuela è Rosneft: colosso petrolifero che - non a caso - si occupa di svolgere un ruolo fondamentale nella strategia estera russa.
Negli ultimi anni, il Cremlino ha infatti deciso di spostare il focus su Caracas dall'economia alla politica. E, in questo senso, Rosneft incarna un'importanza profonda per Putin. Recentemente, la società ha dato 6,5 miliardi di dollari al Venezuela per la fornitura di quattro milioni di barili di petrolio al mese (un impegno cui Caracas sta tuttavia ottemperando con difficoltà). Inoltre, il colosso russo è entrato in svariate jointventure locali nel settore energetico. Senza poi trascurare che, nel 2017, sia riuscito ad ottenere una licenza di trent'anni per sviluppare dei giacimenti di gas, collocati al largo delle coste venezuelane. E' dunque chiaro che i legami intrecciati da Rosneft vadano di pari passo a un incremento dell'influenza politica del Cremlino sul territorio. Un'influenza che mira a costituire un blocco di Stati sudamericani in grado di arginare la presenza dello Zio Sam in America latina. Alla luce di tutto questo, si comprende allora l'estremo interesse mostrato da Putin a intervenire nelle complicate dinamiche della crisi venezuelana. L'instabilità politica locale rappresenta infatti un rischio significativo per gli affari di Rosneft. Senza poi dimenticare ulteriori difficoltà dovute al fatto che il Ceo della società, Igor Sechin, sia stato colpito dalle sanzioni statunitensi l'anno scorso. In questo quadro, un altro fattore rivelante risiede nel grado di indebitamento che Caracas ha contratto negli anni con Mosca: attualmente il Venezuela ha un debito di circa 6 miliardi di dollari con la Russia. Ecco perché Putin ha tutto l'interesse geopolitico ed economico a mantenere in piedi il regime di Maduro: in caso di stravolgimenti non solo infatti aumenterebbe l'instabilità politica ma un eventuale cambio della guardia ai vertici del potere venezuelano potrebbe mettere a rischio i fondamenti economici dell'influenza russa nella regione.
Ma Mosca non è l'unica a dover tutelare i propri interessi nell'area venezuelana. La Cina si sta infatti comportando allo stesso modo. Anche in questo caso, c'è innanzitutto una questione di carattere geopolitico. Da tempo ormai, Pechino ha trovato nell'America Latina un'area per cercare di incrementare la propria influenza in chiave principalmente (ma non esclusivamente) antistatunitense. E, in quest'ottica, il Venezuela riveste un'importanza significativa per la Repubblica Popolare. La Cina rappresenta attualmente non a caso il principale creditore di Caracas: tra il 2007 e il 2017, le banche statali cinesi hanno erogato prestiti al Venezuela dal valore totale di 62,2 miliardi di dollari. Inoltre, tra il 2005 e il 2015, le aziende di Pechino hanno investito nel Paese oltre 19 miliardi. Una cifra significativa che tuttavia ha subìto un deciso taglio nel biennio tra il 2016 e il 2018, quando la Cina si è limitata a investire in loco appena 1,8 miliardi: un parziale cambio di rotta, dettato - molto probabilmente - da due fattori: la crescente instabilità politica venezuelana e la convinzione che il regime di Caracas possa riscontrare non poca difficoltà a onorare i suoi ingenti debiti. Del resto, è proprio la necessità di far fronte a questi duri impegni ad aver aggravato ulteriormente la crisi economica in cui versa il Venezuela: si pensi che - nel 2016 - le riserve della banca centrale si fossero più che dimezzate rispetto a cinque anni prima (passando da 30 a 11,9 miliardi di dollari). Tutto questo, senza dimenticare che l'indebitamento venezuelano con Pechino si aggiri attorno ai 23 miliardi di dollari.
Certo, il petrolio resta comunque un collante nelle relazioni tra i due Paesi: si pensi soltanto che, nel 2018, Caracas ha ceduto ai cinesi il 9,9% della compagnia petrolifera Sinovensa, di cui la China National Petroleum corporation possiede già il 40%. Ciononostante Pechino sta diventando sempre più preoccupata della situazione venezuelana. Caracas ha da tempo problemi di produzione petrolifera e questo non fa che aumentare i timori cinesi. Il Venezuela deve impegnare molto più petrolio di quanto previsto per onorare i debiti: elemento, questo, che riduce il volume di oro nero disponibile per gli acquirenti che pagano in contanti. Senza poi considerare che, se il Venezuela non riesce a reperire i quantitativi di petrolio necessari, i creditori si ritrovano costretti a negoziare una ristrutturazione dei debiti. È proprio questa, del resto, la grande paura della Repubblica Popolare: al di là della perdita di influenza geopolitica nello scacchiere sudamericano, Pechino teme che un cambio di regime a Caracas possa mettere seriamente a repentaglio gli ingenti crediti che vanta con il Venezuela. Un simile rischio ha quindi condotto Xi Jinping a schierarsi dalla parte di Maduro, determinando una convergenza parziale con la Russia.
Le connessioni internazionali del Venezuela non si fermano comunque qui. Un altro importante partner risulta infatti l'Iran, che notoriamente del Cremlino è il principale alleato mediorientale. L'avvicinamento tra Caracas e Teheran - entrambi membri dell'Opec - è iniziato con l'ascesa al potere di Hugo Chavez nel 1999: un avvicinamento dettato in primo luogo dalla comune volontà di contrastare Washington. Da allora, i legami diplomatici, politici ed economici tra i due Paesi si sono progressivamente intensificati. E la situazione con Maduro non è cambiata. Basti pensare che, a giugno del 2015, Venezuela e Iran hanno siglato una serie di trattati nel settore economico, finanziario, tecnologico e scientifico. Senza poi trascurare che i due Paesi siano legati anche da una cooperazione in ambito militare: è dal 2012 che la forza Quds gestisce programmi di addestramento per truppe venezuelane. Quella stessa forza Quds che - ricordiamolo - è un'unità speciale appartenente alle Guardie della rivoluzione iraniane: organo militare che Washington ha recentemente inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche, assestando in questo modo un duro colpo indirettamente anche a Caracas.
Ma non è tutto. Perché i collegamenti con l'Iran non viaggerebbero soltanto attraverso canali ufficiali. Il Venezuela risulta infatti particolarmente legato a Hezbollah: organizzazione paramilitare libanese, finanziata dalla Repubblica Islamica. Non solo i suoi miliziani partecipano alle attività di addestramento dei soldati venezuelani. Ma l'attuale ministro dell'Industria di Maduro, Tareck El Aissami, è altamente sospettato di intrattenere legami con l'organizzazione. Infine non va dimenticato che Hezbollah risulterebbe particolarmente attiva nel traffico di droga verso gli Stati Uniti. E, in questo senso, utilizzerebbe il Venezuela tra i propri canali privilegiati. A dimostrarlo è stata qualche anno fa la Drug enforcement administration che - come rivelato da Politico - non poté tuttavia intervenire, a causa dello stop dell'allora presidente americano Barack Obama, al fine di non compromettere la distensione dei rapporti con Teheran alla vigilia della firma del trattato sul nucleare del 2015. Non sarà forse un caso che lo stesso Tareck El Aissimi sia stato accusato tra l'altro di traffico di droga.
Gli interessi geopolitici, economici ed energetici che ruotano attorno a Caracas sono numerosi. Per questa ragione, Russia, Cina e Iran puntellano il regime di Maduro. E intanto gli sbocchi della crisi venezuelana restano avvolti nell'incertezza.
La dottrina Monroe fu enunciata per la prima volta nel 1823
Il recente riacuirsi della crisi venezuelana ha prodotto nuove tensioni geopolitiche tra Stati Uniti e Russia. In particolare, la settimana scorsa, il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ha intimato a Washington di non invocare la dottrina Monroe. Una dichiarazione forte, che ha voluto mirare al cuore di uno dei pilastri fondamentali della politica estera statunitense.
Ideata dall'allora segretario di Stato John Quincy Adams, questa dottrina venne enunciata per la prima volta nel 1823 dal presidente americano James Monroe. Il contesto internazionale dell'epoca era non poco tumultuoso: l'Europa era stata recentemente funestata dalle guerre napoleoniche, mentre le potenze del Vecchio continente avevano creato un sistema di alleanze militari che destava più di una preoccupazione dalle parti di Washington. In questo senso, la dottrina stabiliva due principi fondamentali. In primo luogo, veniva sancito che il continente americano non dovesse più essere oggetto di nuove colonizzazioni da parte europea. In secondo luogo, gli Stati Uniti si impegnavano a chiamarsi fuori da dispute e guerre che fossero scoppiate nel Vecchio continente. L'intento della dottrina Monroe fu quindi di natura principalmente isolazionista: determinando una sorta di separazione tra gli emisferi, Washington tendeva a liberarsi da interferenze politiche esterne e a concentrarsi contemporaneamente sulla colonizzazione dell'Ovest. Del resto, fu proprio in questo senso tendenzialmente isolazionista che la dottrina venne adottata nel corso di tutto l'Ottocento, consentendo agli Stati Uniti di iniziare ad estendere parzialmente la propria influenza nell'area sudamericana.
Una decisiva svolta avvenne nel 1904, quando l'allora presidente americano Theodore Roosevelt emendò la dottrina, inserendo il cosiddetto Corollario Roosevelt, secondo cui gli Stati Uniti avrebbero avuto il diritto di intervenire attivamente in America Latina in caso di illeciti frequenti e cronici da parte di uno Stato sudamericano. Tale reinterpretazione della dottrina divenne una giustificazione ad impiegare la forza per ottenere benefici economici da nazioni che non fossero state in grado di onorare i propri debiti con Washington o con i Paesi europei. Da una parte, Roosevelt impediva alle potenze del Vecchio Continente di intervenire direttamente in America latina per esigere eventuali pagamenti dovuti, ritagliandosi il ruolo di garante dell'ordine nel proprio emisfero. Dall'altra, Washington riusciva a rafforzare la propria influenza economica e geopolitica in Sud America. Da isolazionista e difensiva, la dottrina Monroe assumeva in tal modo un carattere proattivo e interventista. Non a caso, il corollario suscitò non poche proteste da parte di svariate nazioni latinoamericane (a partire dall'Argentina).
Un nuovo cambio di rotta avvenne nel 1933, quando Franklin Delano Roosevelt inaugurò la cosiddetta Politica del buon vicinato: l'idea era quello di evitare di interferire nelle dinamiche dell'America Latina, con l'obiettivo di migliorare i rapporti e - conseguentemente - aprire nuove opportunità commerciali in loco per gli Stati Uniti. Tuttavia la diffidenza sudamericana rimase relativamente intatta.
Con l'inizio della Guerra Fredda, ci fu una ripresa in grande stile dalla dottrina Monroe, diretta - questa volta - a contrastare l'espandersi dell'influenza sovietica in America latina. In questo senso, il segretario di Stato americano, John Foster Dulles, invocò la dottrina nel 1954, denunciando il comunismo sovietico in Guatemala e gettando così le basi per il golpe contro il governo di Jacobo Arbenz Guzmán quello stesso anno. Nel 1962, fu il presidente John Kennedy a citare la dottrina Monroe nel pieno della crisi dei missili cubani. E, sempre in questa logica, l'amministrazione Nixon mise in piedi l'Operazione Condor: un poderoso piano con l'obiettivo di combattere l'influenza comunista nel Sudamerica. Piano che - notoriamente - culminò nel golpe cileno del 1973 contro Salvador Allende. La dottrina Monroe è stata poi anche alla base della politica adottata, negli anni '80, dagli Stati Uniti in Nicaragua: l'amministrazione Reagan finanziò infatti i contras nella loro azione guerrigliera contro il governo sandinista, asceso al potere nel 1979.
Con la fine della Guerra Fredda, le invocazioni esplicite della dottrina Monroe sono diminuite. E gli Stati Uniti hanno teso a intensificare i propri legami con l'America Latina prevalentemente attraverso il canale commerciale. Nel 1994, Bill Clinton ratificò il Nafta: un trattato internazionale di libero scambio tra Stati Uniti, Messico e Canada. Inoltre, sempre in quel periodo, Clinton sostenne il ritorno di Jean-Bertrand Aristide ad Haiti, dopo che un colpo di Stato militare lo aveva costretto all'esilio. Anche George W. Bush strinse svariati accordi commerciali con Cile, Perù e Repubblica Dominicana. Lo stesso Barack Obama coinvolse Cile, Messico e Perù nella Trans Pacific Partnership. Senza dimenticare che, nel 2013, l'allora segretario di Stato, John Kerry, dichiarò pubblicamente la fine della dottrina Monroe.
E Trump? Nei primi due anni della sua presidenza, non è che il magnate newyorchese si sia granché occupato del Sudamerica. Se si fa eccezione per la polemica con il Messico e per la questione della carovana dei migranti honduregni, Trump non ha mai considerato quest'area una priorità dal punto di vista politico. Le cose sembrano cambiate nel 2019, con l'esplodere della crisi venezuelana. Crisi che ha portato, nelle scorse settimane, il National security advisor, John Bolton, a invocare nuovamente la dottrina Monroe: non solo per giustificare l'attivismo statunitense contro Nicolas Maduro ma anche per criticare il sostegno russo al regime di Caracas. In questo senso, si comprendono le recenti dichiarazioni di Lavrov.
Per il momento, la situazione appare piuttosto fluida. Se certi settori dell'amministrazione americana sulla questione venezuelana si stanno rivelando particolarmente interventisti (dallo stesso Bolton al Dipartimento di Stato), Donald Trump sembra invece collocato su posizioni più sfumate. Pur avendo dato appoggio politico a Juan Guaidò, l'attuale presidente americano non sembra granché disposto a farsi coinvolgere troppo dal dossier venezuelano. Un atteggiamento che potrebbe avere ragioni differenti: dal voler evitare di restare impanato in uno scenario ricco di incognite al cercare di tenere in piedi un dialogo con Vladimir Putin. In questo senso, parrebbe che le tensioni tra Trump e Bolton sarebbero significativamente aumentate negli ultimi giorni. Il futuro della dottrina Monroe non è quindi esattamente chiaro al momento. E l'esito della crisi venezuelana potrebbe dirci molto a tal proposito.
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La guerra civile sta mettendo in evidenza le profonde connessioni economiche e commerciali tra il Venezuela e i suoi principali alleati che, non a caso, hanno scelto di sostenere il regime. E Pechino, così come Mosca, sta cercando di tutelarsi.Nuove tensioni geopolitiche tra Stati Uniti e Russia: settimana scorsa, il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ha intimato a Washington di non invocare la dottrina Monroe.Lo speciale contiene due articoli.Innanzitutto troviamo la Russia che, in questa crisi, sta svolgendo un ruolo di primo piano nel contrasto all'iniziativa statunitense in favore di Juan Guaidò. Dai primi anni Duemila, a seguito dell'ascesa di Vladimir Putin, le relazioni tra Mosca e Caracas si sono notevolmente rafforzate. E questo per due ordini di ragione. In primis, il Cremlino ha considerato il Venezuela come parte di una strategia geopolitica di ampio respiro, con l'obiettivo di arginare l'influenza statunitense in America latina. In secondo luogo, Putin ha visto nello Stato sudamericano un'opportunità di business per numerose aziende statali e private russe (soprattutto nel settore energetico e degli armamenti). In quest'ottica, nei primi anni Duemila entrarono nel mercato venezuelano svariate società russe come Gazprom, Rosneft e Lukoil. Sempre in quel periodo, tra l'altro, Caracas divenne il principale acquirente di armi russe in seno all'emisfero occidentale. Il punto è che - con il passare del tempo - i legami economici tra i due Paesi si sono non poco affievoliti. Non soltanto perché le aziende russe hanno riscontrato una sempre più agguerrita concorrenza di quelle cinesi in loco. Ma anche perché - più in generale - il problematico contesto socioeconomico venezuelano alla lunga si è fatto sentire: un contesto notoriamente martoriato - soprattutto negli ultimi anni - da crisi economica, instabilità politica e corruzione dilagante. Tutto questo ha condotto a un progressivo allontanamento delle aziende russe dal territorio. E oggi l'unica grande società russa rimasta operante in Venezuela è Rosneft: colosso petrolifero che - non a caso - si occupa di svolgere un ruolo fondamentale nella strategia estera russa.Negli ultimi anni, il Cremlino ha infatti deciso di spostare il focus su Caracas dall'economia alla politica. E, in questo senso, Rosneft incarna un'importanza profonda per Putin. Recentemente, la società ha dato 6,5 miliardi di dollari al Venezuela per la fornitura di quattro milioni di barili di petrolio al mese (un impegno cui Caracas sta tuttavia ottemperando con difficoltà). Inoltre, il colosso russo è entrato in svariate jointventure locali nel settore energetico. Senza poi trascurare che, nel 2017, sia riuscito ad ottenere una licenza di trent'anni per sviluppare dei giacimenti di gas, collocati al largo delle coste venezuelane. E' dunque chiaro che i legami intrecciati da Rosneft vadano di pari passo a un incremento dell'influenza politica del Cremlino sul territorio. Un'influenza che mira a costituire un blocco di Stati sudamericani in grado di arginare la presenza dello Zio Sam in America latina. Alla luce di tutto questo, si comprende allora l'estremo interesse mostrato da Putin a intervenire nelle complicate dinamiche della crisi venezuelana. L'instabilità politica locale rappresenta infatti un rischio significativo per gli affari di Rosneft. Senza poi dimenticare ulteriori difficoltà dovute al fatto che il Ceo della società, Igor Sechin, sia stato colpito dalle sanzioni statunitensi l'anno scorso. In questo quadro, un altro fattore rivelante risiede nel grado di indebitamento che Caracas ha contratto negli anni con Mosca: attualmente il Venezuela ha un debito di circa 6 miliardi di dollari con la Russia. Ecco perché Putin ha tutto l'interesse geopolitico ed economico a mantenere in piedi il regime di Maduro: in caso di stravolgimenti non solo infatti aumenterebbe l'instabilità politica ma un eventuale cambio della guardia ai vertici del potere venezuelano potrebbe mettere a rischio i fondamenti economici dell'influenza russa nella regione.Ma Mosca non è l'unica a dover tutelare i propri interessi nell'area venezuelana. La Cina si sta infatti comportando allo stesso modo. Anche in questo caso, c'è innanzitutto una questione di carattere geopolitico. Da tempo ormai, Pechino ha trovato nell'America Latina un'area per cercare di incrementare la propria influenza in chiave principalmente (ma non esclusivamente) antistatunitense. E, in quest'ottica, il Venezuela riveste un'importanza significativa per la Repubblica Popolare. La Cina rappresenta attualmente non a caso il principale creditore di Caracas: tra il 2007 e il 2017, le banche statali cinesi hanno erogato prestiti al Venezuela dal valore totale di 62,2 miliardi di dollari. Inoltre, tra il 2005 e il 2015, le aziende di Pechino hanno investito nel Paese oltre 19 miliardi. Una cifra significativa che tuttavia ha subìto un deciso taglio nel biennio tra il 2016 e il 2018, quando la Cina si è limitata a investire in loco appena 1,8 miliardi: un parziale cambio di rotta, dettato - molto probabilmente - da due fattori: la crescente instabilità politica venezuelana e la convinzione che il regime di Caracas possa riscontrare non poca difficoltà a onorare i suoi ingenti debiti. Del resto, è proprio la necessità di far fronte a questi duri impegni ad aver aggravato ulteriormente la crisi economica in cui versa il Venezuela: si pensi che - nel 2016 - le riserve della banca centrale si fossero più che dimezzate rispetto a cinque anni prima (passando da 30 a 11,9 miliardi di dollari). Tutto questo, senza dimenticare che l'indebitamento venezuelano con Pechino si aggiri attorno ai 23 miliardi di dollari.Certo, il petrolio resta comunque un collante nelle relazioni tra i due Paesi: si pensi soltanto che, nel 2018, Caracas ha ceduto ai cinesi il 9,9% della compagnia petrolifera Sinovensa, di cui la China National Petroleum corporation possiede già il 40%. Ciononostante Pechino sta diventando sempre più preoccupata della situazione venezuelana. Caracas ha da tempo problemi di produzione petrolifera e questo non fa che aumentare i timori cinesi. Il Venezuela deve impegnare molto più petrolio di quanto previsto per onorare i debiti: elemento, questo, che riduce il volume di oro nero disponibile per gli acquirenti che pagano in contanti. Senza poi considerare che, se il Venezuela non riesce a reperire i quantitativi di petrolio necessari, i creditori si ritrovano costretti a negoziare una ristrutturazione dei debiti. È proprio questa, del resto, la grande paura della Repubblica Popolare: al di là della perdita di influenza geopolitica nello scacchiere sudamericano, Pechino teme che un cambio di regime a Caracas possa mettere seriamente a repentaglio gli ingenti crediti che vanta con il Venezuela. Un simile rischio ha quindi condotto Xi Jinping a schierarsi dalla parte di Maduro, determinando una convergenza parziale con la Russia.Le connessioni internazionali del Venezuela non si fermano comunque qui. Un altro importante partner risulta infatti l'Iran, che notoriamente del Cremlino è il principale alleato mediorientale. L'avvicinamento tra Caracas e Teheran - entrambi membri dell'Opec - è iniziato con l'ascesa al potere di Hugo Chavez nel 1999: un avvicinamento dettato in primo luogo dalla comune volontà di contrastare Washington. Da allora, i legami diplomatici, politici ed economici tra i due Paesi si sono progressivamente intensificati. E la situazione con Maduro non è cambiata. Basti pensare che, a giugno del 2015, Venezuela e Iran hanno siglato una serie di trattati nel settore economico, finanziario, tecnologico e scientifico. Senza poi trascurare che i due Paesi siano legati anche da una cooperazione in ambito militare: è dal 2012 che la forza Quds gestisce programmi di addestramento per truppe venezuelane. Quella stessa forza Quds che - ricordiamolo - è un'unità speciale appartenente alle Guardie della rivoluzione iraniane: organo militare che Washington ha recentemente inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche, assestando in questo modo un duro colpo indirettamente anche a Caracas.Ma non è tutto. Perché i collegamenti con l'Iran non viaggerebbero soltanto attraverso canali ufficiali. Il Venezuela risulta infatti particolarmente legato a Hezbollah: organizzazione paramilitare libanese, finanziata dalla Repubblica Islamica. Non solo i suoi miliziani partecipano alle attività di addestramento dei soldati venezuelani. Ma l'attuale ministro dell'Industria di Maduro, Tareck El Aissami, è altamente sospettato di intrattenere legami con l'organizzazione. Infine non va dimenticato che Hezbollah risulterebbe particolarmente attiva nel traffico di droga verso gli Stati Uniti. E, in questo senso, utilizzerebbe il Venezuela tra i propri canali privilegiati. A dimostrarlo è stata qualche anno fa la Drug enforcement administration che - come rivelato da Politico - non poté tuttavia intervenire, a causa dello stop dell'allora presidente americano Barack Obama, al fine di non compromettere la distensione dei rapporti con Teheran alla vigilia della firma del trattato sul nucleare del 2015. Non sarà forse un caso che lo stesso Tareck El Aissimi sia stato accusato tra l'altro di traffico di droga.Gli interessi geopolitici, economici ed energetici che ruotano attorno a Caracas sono numerosi. Per questa ragione, Russia, Cina e Iran puntellano il regime di Maduro. E intanto gli sbocchi della crisi venezuelana restano avvolti nell'incertezza.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-vero-interesse-economico-della-cina-sul-venezuela-2636527118.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-dottrina-monroe-fu-enunciata-per-la-prima-volta-nel-1823" data-post-id="2636527118" data-published-at="1765350452" data-use-pagination="False"> La dottrina Monroe fu enunciata per la prima volta nel 1823 Il recente riacuirsi della crisi venezuelana ha prodotto nuove tensioni geopolitiche tra Stati Uniti e Russia. In particolare, la settimana scorsa, il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ha intimato a Washington di non invocare la dottrina Monroe. Una dichiarazione forte, che ha voluto mirare al cuore di uno dei pilastri fondamentali della politica estera statunitense.Ideata dall'allora segretario di Stato John Quincy Adams, questa dottrina venne enunciata per la prima volta nel 1823 dal presidente americano James Monroe. Il contesto internazionale dell'epoca era non poco tumultuoso: l'Europa era stata recentemente funestata dalle guerre napoleoniche, mentre le potenze del Vecchio continente avevano creato un sistema di alleanze militari che destava più di una preoccupazione dalle parti di Washington. In questo senso, la dottrina stabiliva due principi fondamentali. In primo luogo, veniva sancito che il continente americano non dovesse più essere oggetto di nuove colonizzazioni da parte europea. In secondo luogo, gli Stati Uniti si impegnavano a chiamarsi fuori da dispute e guerre che fossero scoppiate nel Vecchio continente. L'intento della dottrina Monroe fu quindi di natura principalmente isolazionista: determinando una sorta di separazione tra gli emisferi, Washington tendeva a liberarsi da interferenze politiche esterne e a concentrarsi contemporaneamente sulla colonizzazione dell'Ovest. Del resto, fu proprio in questo senso tendenzialmente isolazionista che la dottrina venne adottata nel corso di tutto l'Ottocento, consentendo agli Stati Uniti di iniziare ad estendere parzialmente la propria influenza nell'area sudamericana.Una decisiva svolta avvenne nel 1904, quando l'allora presidente americano Theodore Roosevelt emendò la dottrina, inserendo il cosiddetto Corollario Roosevelt, secondo cui gli Stati Uniti avrebbero avuto il diritto di intervenire attivamente in America Latina in caso di illeciti frequenti e cronici da parte di uno Stato sudamericano. Tale reinterpretazione della dottrina divenne una giustificazione ad impiegare la forza per ottenere benefici economici da nazioni che non fossero state in grado di onorare i propri debiti con Washington o con i Paesi europei. Da una parte, Roosevelt impediva alle potenze del Vecchio Continente di intervenire direttamente in America latina per esigere eventuali pagamenti dovuti, ritagliandosi il ruolo di garante dell'ordine nel proprio emisfero. Dall'altra, Washington riusciva a rafforzare la propria influenza economica e geopolitica in Sud America. Da isolazionista e difensiva, la dottrina Monroe assumeva in tal modo un carattere proattivo e interventista. Non a caso, il corollario suscitò non poche proteste da parte di svariate nazioni latinoamericane (a partire dall'Argentina).Un nuovo cambio di rotta avvenne nel 1933, quando Franklin Delano Roosevelt inaugurò la cosiddetta Politica del buon vicinato: l'idea era quello di evitare di interferire nelle dinamiche dell'America Latina, con l'obiettivo di migliorare i rapporti e - conseguentemente - aprire nuove opportunità commerciali in loco per gli Stati Uniti. Tuttavia la diffidenza sudamericana rimase relativamente intatta.Con l'inizio della Guerra Fredda, ci fu una ripresa in grande stile dalla dottrina Monroe, diretta - questa volta - a contrastare l'espandersi dell'influenza sovietica in America latina. In questo senso, il segretario di Stato americano, John Foster Dulles, invocò la dottrina nel 1954, denunciando il comunismo sovietico in Guatemala e gettando così le basi per il golpe contro il governo di Jacobo Arbenz Guzmán quello stesso anno. Nel 1962, fu il presidente John Kennedy a citare la dottrina Monroe nel pieno della crisi dei missili cubani. E, sempre in questa logica, l'amministrazione Nixon mise in piedi l'Operazione Condor: un poderoso piano con l'obiettivo di combattere l'influenza comunista nel Sudamerica. Piano che - notoriamente - culminò nel golpe cileno del 1973 contro Salvador Allende. La dottrina Monroe è stata poi anche alla base della politica adottata, negli anni '80, dagli Stati Uniti in Nicaragua: l'amministrazione Reagan finanziò infatti i contras nella loro azione guerrigliera contro il governo sandinista, asceso al potere nel 1979.Con la fine della Guerra Fredda, le invocazioni esplicite della dottrina Monroe sono diminuite. E gli Stati Uniti hanno teso a intensificare i propri legami con l'America Latina prevalentemente attraverso il canale commerciale. Nel 1994, Bill Clinton ratificò il Nafta: un trattato internazionale di libero scambio tra Stati Uniti, Messico e Canada. Inoltre, sempre in quel periodo, Clinton sostenne il ritorno di Jean-Bertrand Aristide ad Haiti, dopo che un colpo di Stato militare lo aveva costretto all'esilio. Anche George W. Bush strinse svariati accordi commerciali con Cile, Perù e Repubblica Dominicana. Lo stesso Barack Obama coinvolse Cile, Messico e Perù nella Trans Pacific Partnership. Senza dimenticare che, nel 2013, l'allora segretario di Stato, John Kerry, dichiarò pubblicamente la fine della dottrina Monroe.E Trump? Nei primi due anni della sua presidenza, non è che il magnate newyorchese si sia granché occupato del Sudamerica. Se si fa eccezione per la polemica con il Messico e per la questione della carovana dei migranti honduregni, Trump non ha mai considerato quest'area una priorità dal punto di vista politico. Le cose sembrano cambiate nel 2019, con l'esplodere della crisi venezuelana. Crisi che ha portato, nelle scorse settimane, il National security advisor, John Bolton, a invocare nuovamente la dottrina Monroe: non solo per giustificare l'attivismo statunitense contro Nicolas Maduro ma anche per criticare il sostegno russo al regime di Caracas. In questo senso, si comprendono le recenti dichiarazioni di Lavrov.Per il momento, la situazione appare piuttosto fluida. Se certi settori dell'amministrazione americana sulla questione venezuelana si stanno rivelando particolarmente interventisti (dallo stesso Bolton al Dipartimento di Stato), Donald Trump sembra invece collocato su posizioni più sfumate. Pur avendo dato appoggio politico a Juan Guaidò, l'attuale presidente americano non sembra granché disposto a farsi coinvolgere troppo dal dossier venezuelano. Un atteggiamento che potrebbe avere ragioni differenti: dal voler evitare di restare impanato in uno scenario ricco di incognite al cercare di tenere in piedi un dialogo con Vladimir Putin. In questo senso, parrebbe che le tensioni tra Trump e Bolton sarebbero significativamente aumentate negli ultimi giorni. Il futuro della dottrina Monroe non è quindi esattamente chiaro al momento. E l'esito della crisi venezuelana potrebbe dirci molto a tal proposito.
Romano Prodi (Ansa)
Emmanuel Macron secondo i sondaggi non va oltre l’11% dei consensi in Francia dove da mesi di fatto non c’è un governo, Keir Starmer in Gran Bretagna è definito un premier zombie e anche Friedrich Merz a Berlino non se la passa benissimo: l’opinione pubblica guarda sempre più a destra verso Afd. Se ne sono accorti tutti tranne Romano Prodi, con al seguito Mario Monti, che ieri ha trovato modo di dire che l’Europa per rilanciarsi deve ripartire dall’asse franco-tedesco. Sta di fatto che Zelensky è il più traballante di tutti e Donald Trump lo ha brutalmente incalzato dicendo che da troppo tempo in Ucraina non si vota, gli unici due capi di governo o di Stato che stanno saldi ai loro posti li ha trovati a Roma: Giorgia Meloni e Leone XIV. È una notazione che viene spontanea ascoltando Trump sferzare i leader europei e il presidente ucraino: «Stanno usando la guerra per non indire le elezioni, ma penso che il popolo ucraino dovrebbe avere questa scelta. E forse vincerebbe Zelensky. Non so chi vincerebbe. Parlano di democrazia, ma si arriva a un punto in cui non è più una democrazia».
Tornando sull’Europa a Politico il presidente americano ha confidato: «I leader europei parlano, ma non producono e la guerra continua all’infinito. Guidano Paesi decadenti, città come Londra o Parigi sono sovraccariche per via della massiccia e incontrollata immigrazione dal Medio Oriente e dall’Africa». Viene in mente un saggio di cinquant’ anni fa, lo scrisse Raymond Aron e si intitolava In difesa di un’Europa decadente. Ma ci sta che nessuno se ne ricordi. Trump per spiegare la decadenza se l’è presa col sindaco mussulmano di Londra Sadiq Khan, che «è un disastro», eletto solo perché «sono arrivate così tante persone immigrate che ora votano per lui». È il tema della perdita dell’identità europea. Che va fermata comunque, pena la perdita dell’Europa stessa. Per farlo Trump è pronto a sostenere candidati che abbiano la sua stessa visione anche a costo di crisi diplomatiche con chi oggi è al potere in Europa. Per spargere un altro po’ di sale sulle ferite di Bruxelles Donald Trump afferma: «Ho già appoggiato persone che molti europei non amano. Ho appoggiato Viktor Orbán». Quanto a Zelensky: «È come P.T. Barnum del circo: un showman in grado di vendere qualsiasi cosa in qualsiasi momento». A fronte di un attacco così forte ci si aspetta una reazione puntuta dell’Ue, invece nulla. Forse a palazzo Berlaymont non conoscono l’antico adagio: chi tace acconsente. Tocca così alla portavoce di Ursula von der Leyen, Paula Pinho abbozzare: «Mi asterrò dal commentare, se non per confermare che siamo molto soddisfatti e grati di avere leader eccellenti a partire dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, di cui siamo davvero orgogliosi, che può guidarci nelle molte sfide che il mondo deve affrontare». Su Zelensky ha replicato Anita Hipper portavoce della Commissione: «Questi sono tempi eccezionali, Zelensky è un leader democraticamente eletto». Poco d’altro. Kaja Kallas – alto rappresentante per la politica estera – commenta a mezza bocca: «Riguardo agli attacchi Usa contro strategia e modello europei dobbiamo dovremmo essere più sicuri di noi stessi». Prova a far finta di menar le mani Antonio Costa presidente del Consiglio europeo che dice: «Dobbiamo prendere atto delle accuse e agire di conseguenza». Che non si sa esattamente cosa voglia dire come le parole di Donald Tusk – premier polacco, l’ unico a replicare a Trump – che respinge al mittente le accuse americane. Per il resto è imbarazzato silenzio.
Rotto però in Italia da due reduci della grande Europa (a loro dire). Sono Romano Prodi e Mario Monti, premiati ieri dall’Ispi in tandem in via eccezionale. È stato Romano Prodi ad accusare Donald Trump di «disprezzare l’Europa» e a sostenere che «i recenti avvenimenti fanno capire che la nostra debolezza rende facile il compito di un presidente che sta voltando le spalle alla storia del suo stesso Paese, odia la democrazia e vede il futuro del mondo in un rapporto diretto tra oligarchi o dittatori o chiamateli poteri assoluti». Ovviamente i tempi belli erano quelli di quando lui era presidente della Commissione europea, poi quando la Francia ha deciso di bloccare la Costituzione l’Europa si è piano piano smarrita. «L’Europa in questi anni ha finito per odiare se stessa, succube di Orbán e dei suoi veti (ecco perché serve smontare l’unanimità, ndr), resa più fragile da debolezza del motore franco-tedesco che ha sempre retto l’Europa, tradizionalmente aiutato dall’Italia». Ma è dall’asse franco-tedesco che si deve ripartire. Non siamo su Scherzi a parte; lo pensa anche Mario Monti che ha svelato un segreto. Quando Prodi lo chiamò per rinnovargli l’incarico da commissario europeo lo convocò in un piccolo ristorante cinese. E questo spiega molto di Romano Prodi, delle sue predilezioni e forse anche del perché l’Europa è messa così e Trump la maltratta.
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Maurizio Sedita, Chief Commercial Officer del gruppo di telecomunicazioni Wind Tre
Sedita, Wind Tre è il primo operatore italiano – e tra i primi in Europa – a lanciare il 5G Standalone. Che cosa rappresenta questo passaggio e perché è così innovativo?
«Il 5G Standalone è una rete completamente autonoma dal 4G, pensata per offrire prestazioni garantite, sicurezza avanzata e soprattutto configurabilità dinamica. Non è una semplice evoluzione tecnologica: è un’infrastruttura progettata per abilitare applicazioni critiche, nelle quali la continuità del servizio è essenziale. Questa tecnologia ci permette di fornire alle imprese una sorta di corsia privilegiata, anche in contesti di massimo affollamento. Lo abbiamo dimostrato durante un grande evento sportivo con oltre 90.000 persone, creando una slice dedicata per la trasmissione video live in alta definizione. Il nostro vantaggio competitivo nasce da un network tra i più capillari in Italia, con oltre 21.000 siti».
Perché il 5G Stand alone è strategico per il Paese?
«Perché è la piattaforma abilitante di servizi essenziali per la sanità, la sicurezza, la logistica, l’industria 4.0, i trasporti e la Pubblica Amministrazione. L’Italia ha bisogno di infrastrutture digitali affidabili e moderne. In un contesto europeo che fatica a competere sul digitale, il 5G Stand Alone permette al Paese di fare un salto in avanti e di rendere accessibili tecnologie avanzate anche alle pmi, che sono la vera ossatura del nostro sistema produttivo. Wind Tre vuole essere un abilitatore della competitività nazionale, mettendo a disposizione infrastrutture performanti e soluzioni concrete».
Quali settori beneficeranno maggiormente del 5G Stand alone?
«Chiunque abbia bisogno di continuità, sicurezza, bassa latenza e configurabilità. Penso in particolare all’industria, con robotica, automazione e sensoristica. E poi logistica, con monitoraggio in real time e ottimizzazione degli hub. Sanità, con telemedicina avanzata e gestione digitale delle strutture. Porti e trasporti, dove la comunicazione mission critical è fondamentale. Broadcast, con trasmissioni live ad altissima qualità. Il 5G è la rete che permette di far funzionare tutto questo con garanzie e non più “al meglio delle possibilità”».
Quali sono le caratteristiche distintive del 5G Stand Alone per imprese e Pa?
«Tre in particolare. Prestazioni garantite: ovvero bassa latenza, continuità del servizio, sicurezza end-to-end. Poi Network slicing: possiamo creare porzioni virtuali della rete dedicate a singoli clienti o applicazioni, anche temporanee. Infine Mobile Private Network virtuali: reti private digitali per sanità, industria, logistica, porti, sicurezza. Queste soluzioni sono scalabili, senza oneri gestionali per le imprese, con un livello di sicurezza molto elevato e con protezione dei dati».
Quanto è estesa oggi la vostra copertura 5G Stand Alone?
«La rete 5G Stand Alone copre già l’80% della popolazione italiana, e cresce ogni mese. Gli investimenti continui – circa 800 milioni di euro l’anno – ci permettono di offrire un’infrastruttura tra le più moderne e affidabili del Paese».
Negli ultimi anni Wind Tre ha vissuto una trasformazione profonda. Qual è la vostra nuova visione strategica?
«Dopo la fusione del 2017 tra Wind e H3G eravamo un operatore principalmente consumer, focalizzato sulla connettività mobile e fissa. Oggi siamo un’azienda completamente diversa. Abbiamo investito nella rete, potenziandola grazie anche all’acquisizione di OpNet, siamo entrati nei mercati dell'energia e delle assicurazioni, abbiamo lanciato servizi di protezione e videosorveglianza con il nuovo “Casa e negozio protetti” powered by Protecta, e soprattutto abbiamo accelerato sul B2B: ICT, cybersecurity, cloud e data center. Negli ultimi 3-4 anni siamo cresciuti al doppio della velocità del mercato. Questo è stato possibile perché abbiamo scelto una strategia basata sull’ascolto e sulla vicinanza ai clienti, che chiamiamo #OPEN».
Cosa rappresenta il concept #OPEN per Wind Tre?
«#OPEN non è uno slogan: è un metodo di lavoro. Significa essere aperti all’ascolto, capire i bisogni delle imprese prima di proporre soluzioni, evitare di offrire servizi inutili o sovradimensionati. La prova più concreta è che molte aziende hanno scelto di raccontare questa visione con noi: nello spot “La porta del futuro è OPEN” sono protagonisti proprio i nostri clienti».
Qual è oggi il posizionamento di Wind Tre nel mercato B2B?
«Il mercato italiano è molto frammentato: poche grandi aziende e una miriade di pmi e micro-imprese. È qui che vogliamo fare la differenza. Oggi non siamo più un operatore telco tradizionale: siamo un partner tecnologico in grado di offrire connettività, cloud, sicurezza, data center, soluzioni verticali per sanità, media, industria e Pa».
Gli investimenti tecnologici costano, così come le frequenze. Quali sono i temi cruciali nel dialogo con il governo e le istituzioni?
«Il settore telco è fondamentale per l’intero sistema Paese, ma deve essere sostenuto in modo adeguato. Il costo delle frequenze è enorme: in Italia abbiamo pagato il prezzo unitario più elevato in Europa – tra 6 e 7 miliardi in totale con una maxi-rata finale nel 2022 – e oggi è in corso un confronto per il rinnovo delle licenze nel 2029. Servono regole chiare per non compromettere la capacità di investimento delle aziende. Siamo un’azienda energivora, come tutte le grandi infrastrutture, e proprio per questo il settore merita attenzione e riconoscimento. Con il Ministero delle Imprese e del Made in Italy abbiamo fatto un primo importante passo avanti sull’innalzamento dei limiti elettromagnetici: passare da 6 a 15 volt per metro è stato un primo step significativo per migliorare la copertura indoor e favorire lo sviluppo del 5G, mantenendo il controllo sulle emissioni. Ma serve un passo ulteriore: un piano industriale nazionale per le telecomunicazioni. Lo sviluppo digitale dell’Italia non può essere lasciato all’improvvisazione».
Anche perché ci sono posti di lavoro in ballo… Qual è l’impatto di Wind Tre sul territorio in termini economici e occupazionali?
«Wind Tre conta 7.000 dipendenti diretti e genera lavoro indiretto per decine di migliaia di persone. La nostra presenza commerciale è capillare: 750 negozi in franchising, 4.000 punti vendita, una rete di agenzie con quasi 2.000 professionisti nel B2B».
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