2022-07-09
Il Vaticano ha incontrato l’uomo del Tea Party in vista del voto negli Usa
Monsignor Vincenzo Paglia (Imagoeconomica)
Monsignor Vincenzo Paglia e Tim Phillips (il consulente più a destra dei repubblicani) ospiti di un convegno con Pier Ferdinando Casini. Segnali che il mondo cattolico «guarda» oltre i dem.Non è una novità: i repubblicani statunitensi non sono mai stati granché amati dall’establishment politico italiano. Eppure sembrerebbe che il vento possa cambiare. A testimoniarlo potrebbe essere un convegno, tenutosi giovedì al Senato e organizzato, su iniziativa di Pier Ferdinando Casini, dal think tank apartitico Renaissance evolution: un convegno, diciamolo subito, dai contenuti puramente istituzionali e dedicato alla diplomazia culturale tra l’Italia e le Americhe. Un convegno, in cui non si è quindi parlato di politica. Eppure c’è un «dettaglio» che è interessante registrare. Tra i vari speaker che si sono succeduti, si annoveravano infatti lo stesso Casini, il presidente della Pontificia accademia per la vita, monsignor Vincenzo Paglia, e lo stratega politico statunitense, Tim Phillips. Ebbene, proprio la presenza di quest’ultimo desta interesse. Perché Phillips è un repubblicano. Ma non un repubblicano d’acqua dolce, uno sbiadito, magari anche fuori dai giochi della politica attiva. Tutt’altro. Dal 2006 fino alla fine dell’anno scorso, Phillips è stato presidente di Americans for prosperity: organizzazione politica statunitense, espressione del movimento del Tea Party e strettamente collegata al network dei fratelli Koch (due storici finanziatori del Partito repubblicano, di cui uno, David, è morto nel 2019). Nel corso degli anni, questa realtà ha portato avanti energiche battaglie all’interno del fronte conservatore d’Oltreatlantico, in nome della tutela della libertà individuale e del contrasto allo strapotere del governo: in particolare, si è battuta contro l’Obamacare e le restrizioni in materia ambientale, oltre a sostenere una politica di detassazione. Non solo: secondo il sito Open secrets, Americans for prosperity ha versato significativi contributi elettorali al Partito repubblicano, soprattutto a partire dal 2010. Inoltre, in vista delle prossime elezioni di metà mandato, ha dato il proprio endorsement a vari candidati significativamente conservatori, tra cui alcuni alleati di Donald Trump come il governatore della Florida Ron DeSantis, il collega del Texas Greg Abbott e il medico Mehmet Oz (candidato alla poltrona senatoriale della Pennsylvania). In tutto questo, a giugno il Washington Post ha definito lo stesso Phillips un «alleato» dell’ex vicepresidente statunitense, Mike Pence: quel Pence che, come DeSantis, risulta uno dei papabili candidati alla Casa Bianca per il 2024. Vicino al network dei Koch è inoltre considerato anche un altro possibile contendente presidenziale: l’ex segretario di Stato, Mike Pompeo. Insomma, Phillips non ha un profilo politico esattamente in linea con quello di monsignor Paglia che, oltre al suo prestigioso incarico vaticano, è anche consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio: realtà vicina al cattolicesimo progressista, attenta alle questioni sociali e ambientaliste, oltre ad essere sostenitrice della distensione tra Santa sede e Cina. E poi c’è Casini che, in occasione della partita quirinalizia si era un po’ inabissato e che, al netto della sua alleanza col Pd alle scorse elezioni politiche, non è mai stato in fin dei conti un uomo di sinistra. La sinuosità democristiana non ne ha, inoltre, intaccato la collocazione atlantista. Il che è un vantaggio, nell’ambito di un establishment politico italiano abituato in larga maggioranza a osannare i democratici e a demonizzare i repubblicani, quando si parla di questioni d’Oltreatlantico. Ebbene, magari nell’incontro pubblico tra Casini, Paglia e Phillips non c’era nulla di politico. O magari, sotto sotto, forse qualcosa c’era. Il cattolicesimo politico, nelle sue molteplici varianti conservatrici e progressiste, ha un indubbio pregio: la concretezza, al di là degli steccati ideologici. Ebbene, né a Casini né ai Sacri palazzi probabilmente sfugge un fattore: la crisi nera in cui è piombato il Partito democratico statunitense. Joe Biden è crollato al 36% di gradimento, azzoppato dall’inflazione galoppante e dalla crisi migratoria. Non solo i dem perderanno verosimilmente il controllo di almeno una camera a novembre, ma è anche discretamente probabile che nel 2024 non sarà Biden il loro candidato. Uno scenario, questo, che innescherebbe delle primarie affollate e rissose, nel quadro di un Asinello sempre più spostato a sinistra e che, per questo, spaventa ormai alcuni dei suoi stessi elettori. Ecco che, davanti a tutto ciò, scatta il senso di realtà. Per quanto magari obtorto collo, la Santa sede non può che prendere atto di questa situazione e agire di conseguenza. Mentre Casini assai probabilmente sogna ancora di poter arrivare al Quirinale. Una partita, questa, in cui notoriamente l’appoggio americano ha un peso non indifferente. Certo: non è dato sapere quando si riaprirà la corsa al Colle. Ma, ragiona probabilmente il senatore bolognese, non è impensabile ritenere che, quando si riaprirà, il peso dei repubblicani negli Stati Uniti sarà ben maggiore di quello attuale. Tra l’altro, si scorge anche un ulteriore problema. I solidi agganci di cui ampi settori dell’establishment italiano godono con i dem americani riguardano una classe dirigente che, per ragioni anagrafiche e idee politiche, si avvia al tramonto (si pensi a Biden, Kerry, Nancy Pelosi e Hillary Clinton). Le nuove leve dem, a partire da Alexandria Ocasio-Cortez, si stanno distinguendo per un notevole radicalismo e sarà sempre più difficile tenere rapporti stabili con loro. Forse, quindi, i repubblicani sono più affidabili e non soggetti pericolosi come li dipinge una certa vulgata. Sembra che qualcuno se ne stia finalmente accorgendo.