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2019-07-28
Il Vaticano «epura» i seguaci di Wojtyla
Ansa
Lo smantellamento dell'istituto che Giovanni Paolo II aveva fondato nel 1981 per gli studi su matrimonio e famiglia, affidandolo alle cure dell'allora don Carlo Caffarra, prosegue di slancio. Il Gran cancelliere monsignor Vincenzo Paglia, dopo aver licenziato in tronco i due professori ordinari simbolo di quell'istituto, don Livio Melina e padre Josè Noriega, invia altre lettere, anzi mail, di allontanamento. Questa volta tocca a un altro simbolo, il professore emerito Stanislaw Grygiel, filosofo polacco amico intimo di Wojtyla e tra i fondatori dell'istituto stesso. Con lui non sono stati confermati altri collaboratori come la professoressa Maria Luisa Di Pietro, insegnante di bioetica, il giovane e brillante professore Przemyslaw Kwiatkowski, suor Vittorina Marini e la figlia di Grygiel, la dottoressa Monika, psichiatra che da 11 anni teneva corsi di psicologia della famiglia sia nel corso ordinario che nei vari Master. I loro contratti di collaborazione non possono essere rinnovati perché nel progetto di ristrutturazione non c'è più spazio per i loro corsi e poi vi sarebbero anche motivazioni economiche. Grazie e arrivederci. Non si sa ancora che fine farà la cattedra Wojtyla, il cui direttore è proprio il professor Grygiel, e qui bisognerà capire cosa succederà perché dietro vi è anche una fondazione privata con i suoi importanti proventi.
Il progetto di «ristrutturazione» dell'istituto è un attentato alla eredità magisteriale di Giovanni Paolo II, il santo Papa polacco canonizzato per precisa volontà di papa Francesco in tandem con Giovanni XXIII. Che le cose stiano in questi termini trapela da diversi elementi. Uno dei quali è anche il «mi piace» che il cardinale Angelo Scola, preside dell'istituto dal 1995, succedendo proprio a Caffarra, ha messo al tweet del vaticanista del Foglio Matteo Matzuzzi: «Silurato dall'Istituto Giovanni Paolo II il professor Stanislaw Grygiel, allievo di Karol Wojtyla divenuto poi suo consigliere. Epurazioni in corso». E Scola mette il suo significativo «mi piace» accendendo il cuoricino social, mentre il cuore di Paglia avrà accelerato un po' i suoi battiti.
L'oscuramento della cattedra di teologia morale di don Livio Melina, già assistente di Caffarra e poi preside dell'istituto, è l'esempio più chiaro del senso di questa «ristrutturazione» di cui ha parlato il preside Pierangelo Sequeri in un'intervista concessa ad Avvenire per dettare la linea. Questa svolta, ha detto il preside, è «per l'elaborazione di strumenti di intelligenza teologicamente condivisibili e pastoralmente adeguati alla contemporaneità», una formuletta di parole molto musicale, ma che solleva qualche domanda. Il tutto, infatti, ha una genesi lontana ed è stato perfezionato durante il controverso doppio sinodo sulla famiglia che portò lo stesso Caffarra a firmare poi i famosi dubia al Papa. Dubia a cui Francesco non ha mai risposto, né mai ha accolto i cardinali in udienza per ascoltarli, come si dice, in camera caritatis.
La «ristrutturazione», culminata con i nuovi statuti, invece, pare sia avvenuta proprio senza fare la dovuta chiarezza. Dopo la pubblicazione del Motu proprio di Francesco che dava il là alla ricreazione dell'istituto, nel 2018 Paglia ha proposto al Consiglio d'istituto e al Consiglio internazionale d'istituto (che quindi comprendeva anche le sedi sparse in vari continenti) una bozza del nuovo statuto che però ha trovato resistenze. Gli emendamenti proposti da una sottocommissione interna sono stati poi consegnati allo stesso Paglia, che però li ha trattenuti per due mesi senza mandarli in visione ai vicepresidi delle sedi internazionali. Quindi lo sprint finale: nel giugno scorso Paglia dichiara di aver già mandato tutto alla congregazione vaticana per l'educazione, il tutto con approvazione di papa Francesco. L'11 luglio la congregazione ha messo un bel timbro e approvato definitivamente. Con buona pace dei vari vicepresidi in giro per il mondo che si sono visti recapitare la bozza consegnata in congregazione tra il 27 e il 28 giugno, chiedendo loro di esprimersi entro il 2 luglio.
Agli studenti che mercoledì scorso hanno scritto una lettera al preside Sequeri per avere rassicurazioni su come si intende preservare l'identità dell'istituto, ha risposto venerdì pomeriggio il Gran cancelliere Paglia. Ha indicato due link di interventi di Sequeri: l'intervista ad Avvenire e un pezzo sull'Osservatore Romano, rispondendo che è qui che possono comprendere «l'attuazione concreta dell'approvazione degli statuti». Risposte nel merito non pervenute, però ha augurato agli studenti «un meritato riposo estivo». A Giovanni Paolo II e al suo magistero, pare che, invece, resti solo il meritato riposo eterno.
Lorenzo Bertocchi
A rifare la Balena bianca bergogliana ci pensano De Mita e Monda junior
La pulzella di Orléans ha 91 anni. Se è vero che «l'età non è un tempo della vita, ma un modo di essere della mente», Ciriaco De Mita ha pure le sue buone ragioni a imbracciare lo spadone per provare a portare a termine una missione che non riesce dai tempi del compromesso storico: aggregare i cattolici e renderli maggioranza nel Paese «per contrastare sovranisti e populisti». Individuato il nemico, il resto è egualmente difficile perché lo sfaccettato mondo che fa riferimento ai valori della Chiesa è disperso ai quattro angoli della politica. E neppure sa esattamente quali siano quelli che il Vaticano considera ancora valori.
In attesa di chiarimenti -e con l'unica certezza di ritrovarsi tutti idealmente sulla banchina di Lampedusa dove attraccano i migranti -, De Mita e i suoi fratelli hanno varato la Rete bianca, un movimento pronto a diventare partito e di conseguenza gamba da sacrestia della coalizione di centrosinistra. È ciò che emerge da due eventi in rapida successione. Il primo a Nusco, nel feudo demitiano, con l'aggregazione locale dei postdemocristiani irpini che già hanno annunciato di essere disponibili a scendere in campo alle prossime elezioni regionali (al fianco di Vincenzo De Luca). Il secondo a Roma, nello storico Palazzo delle cooperative, con il chiaro intento di trasformare al più presto il movimento in partito e con un'idea di costruzione piramidale del direttivo.
Oltre a colui che Gianni Agnelli definì «un intellettuale della Magna Grecia», ecco fidati e sperimentati colonnelli come l'ex leader del Centro cristiano democratico Marco Follini, l'ex ministro Francesco D'Onofrio, Lorenzo Dellai (Democrazia solidale) e Giorgio Merlo (Mdp di Pier Luigi Bersani), tutti a vario titolo professionisti del trekking costituente attorno ad ogni Cosa Bianca spuntata negli ultimi anni all'ombra di San Pietro. Era da mesi che le tessitrici preparavano la bandiera prendendo spunto dai 60 anni dalla morte di don Luigi Sturzo e dal suo appello ai «Liberi e forti» adattato ai giorni nostri. Un'operazione impervia perché oggi quei liberi sono di fatto incistati nell'ala sociale del Pd (senza diritto di parola su temi come l'utero in affitto e l'eutanasia) e quei forti sono debolissimi, non avendo alle spalle un elettorato strutturato.
Per provare a raccogliere il consenso delle parrocchie e dei movimenti giovanili vagamente apartitici, il primo obiettivo dell'ultima Cosa bianca è accreditarsi come partito di papa Francesco. E per riuscirci, ecco la sorpresa: l'inserimento in organigramma di Dante Monda, il figlio del direttore dell'Osservatore Romano, garanzia di una solida sponda con il cerchio magico vaticano. Una sorta di benedizione, vista con grande favore dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che il giorno dopo le ultime elezioni ha cominciato a costruire con discrezione e passo felpato un'alternativa cattolico-moderata alla maggioranza M5s-Lega. Il rassemblement non può prescindere dal consenso della Chiesa, che si trova politicamente spaesata dopo il fallimento del riformismo renziano a sinistra e il declino anagrafico (e progettuale) della sponda berlusconiana di Forza Italia nel centrodestra.
Isole nella corrente, tenute insieme da un unico collante sottolineato nell'incontro romano un po' da tutti: «La costruzione di un partito per dialogare con i tanti centristi delusi che oggi si trovano nel Pd e in Forza Italia, ma che non vogliono essere risucchiati da Lega e 5 stelle». Il movimento guarda a sinistra, ma non troppo, quindi all'esperienza europeista di Emma Bonino. Un nome che piace a Mattarella, al suo vecchio compagno di viaggio De Mita e anche a padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica, il gesuita che sussurra a Francesco. Siamo solo all'inizio, ma la scelta dell'icona radicale sembra già dettata dalla forza della disperazione. La Bonino perde trionfalmente ogni elezione da un decennio e rappresenta una forte contraddizione rispetto ai valori della base potenziale, che non ha mai metabolizzato il suo passato da paladina di ogni battaglia anticlericale. Su quel nome, democristiani dal sangue blu come Gianfranco Rotondi e Rocco Buttiglione scapperebbero a gambe levate.
La contraddizione della Chiesa di Francesco («aperta ai migranti ma disinteressata alle sorti degli italiani», parola dei numerosi preti dissidenti sul territorio) rischia di diventare una precondizione negativa per la Rete bianca, che non si sa quali pesci possa evangelicamente trarre a bordo dal mare elettorale. A guardare con rispetto ma anche con disillusione l'ennesimo tentativo di mettere insieme i cattolici sono quelle associazioni potenti e radicate come la Comunità di Sant'Egidio, le Acli e la Cisl, che soprattutto al Nord non è solo un sindacato, ma un aggregatore di consensi laici nel mondo del lavoro.
A inizio anno, quando l'idea muoveva i primi passi, all'interno della Cei era stato fatto informalmente il nome di Marco Bentivogli come potenziale leader. Giovane, social, con ottime sponde romane, sembrava poter essere un profilo su cui puntare. Poi il silenzio di mesi ed ecco spuntare all'improvviso la pulzella di 91 anni a brandire il vessillo dello scudo crociato. Le vie del Signore sono davvero infinite.
Giorgio Gandola
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Riduci
Lo smantellamento dell'Istituto Giovanni Paolo II prosegue: messo alla porta anche Stanislaw Grygiel, consigliere del santo Papa polacco. L'ex arcivescovo di Milano si indigna.L'ennesimo tentativo di aggregare politicamente i fedeli dispersi ha due facce: quella del vecchio generale democristiano e quella del figlio del direttore dell'«Osservatore». L'unico collante? L'odio per Matteo Salvini.Lo speciale contiene due articoliLo smantellamento dell'istituto che Giovanni Paolo II aveva fondato nel 1981 per gli studi su matrimonio e famiglia, affidandolo alle cure dell'allora don Carlo Caffarra, prosegue di slancio. Il Gran cancelliere monsignor Vincenzo Paglia, dopo aver licenziato in tronco i due professori ordinari simbolo di quell'istituto, don Livio Melina e padre Josè Noriega, invia altre lettere, anzi mail, di allontanamento. Questa volta tocca a un altro simbolo, il professore emerito Stanislaw Grygiel, filosofo polacco amico intimo di Wojtyla e tra i fondatori dell'istituto stesso. Con lui non sono stati confermati altri collaboratori come la professoressa Maria Luisa Di Pietro, insegnante di bioetica, il giovane e brillante professore Przemyslaw Kwiatkowski, suor Vittorina Marini e la figlia di Grygiel, la dottoressa Monika, psichiatra che da 11 anni teneva corsi di psicologia della famiglia sia nel corso ordinario che nei vari Master. I loro contratti di collaborazione non possono essere rinnovati perché nel progetto di ristrutturazione non c'è più spazio per i loro corsi e poi vi sarebbero anche motivazioni economiche. Grazie e arrivederci. Non si sa ancora che fine farà la cattedra Wojtyla, il cui direttore è proprio il professor Grygiel, e qui bisognerà capire cosa succederà perché dietro vi è anche una fondazione privata con i suoi importanti proventi.Il progetto di «ristrutturazione» dell'istituto è un attentato alla eredità magisteriale di Giovanni Paolo II, il santo Papa polacco canonizzato per precisa volontà di papa Francesco in tandem con Giovanni XXIII. Che le cose stiano in questi termini trapela da diversi elementi. Uno dei quali è anche il «mi piace» che il cardinale Angelo Scola, preside dell'istituto dal 1995, succedendo proprio a Caffarra, ha messo al tweet del vaticanista del Foglio Matteo Matzuzzi: «Silurato dall'Istituto Giovanni Paolo II il professor Stanislaw Grygiel, allievo di Karol Wojtyla divenuto poi suo consigliere. Epurazioni in corso». E Scola mette il suo significativo «mi piace» accendendo il cuoricino social, mentre il cuore di Paglia avrà accelerato un po' i suoi battiti.L'oscuramento della cattedra di teologia morale di don Livio Melina, già assistente di Caffarra e poi preside dell'istituto, è l'esempio più chiaro del senso di questa «ristrutturazione» di cui ha parlato il preside Pierangelo Sequeri in un'intervista concessa ad Avvenire per dettare la linea. Questa svolta, ha detto il preside, è «per l'elaborazione di strumenti di intelligenza teologicamente condivisibili e pastoralmente adeguati alla contemporaneità», una formuletta di parole molto musicale, ma che solleva qualche domanda. Il tutto, infatti, ha una genesi lontana ed è stato perfezionato durante il controverso doppio sinodo sulla famiglia che portò lo stesso Caffarra a firmare poi i famosi dubia al Papa. Dubia a cui Francesco non ha mai risposto, né mai ha accolto i cardinali in udienza per ascoltarli, come si dice, in camera caritatis. La «ristrutturazione», culminata con i nuovi statuti, invece, pare sia avvenuta proprio senza fare la dovuta chiarezza. Dopo la pubblicazione del Motu proprio di Francesco che dava il là alla ricreazione dell'istituto, nel 2018 Paglia ha proposto al Consiglio d'istituto e al Consiglio internazionale d'istituto (che quindi comprendeva anche le sedi sparse in vari continenti) una bozza del nuovo statuto che però ha trovato resistenze. Gli emendamenti proposti da una sottocommissione interna sono stati poi consegnati allo stesso Paglia, che però li ha trattenuti per due mesi senza mandarli in visione ai vicepresidi delle sedi internazionali. Quindi lo sprint finale: nel giugno scorso Paglia dichiara di aver già mandato tutto alla congregazione vaticana per l'educazione, il tutto con approvazione di papa Francesco. L'11 luglio la congregazione ha messo un bel timbro e approvato definitivamente. Con buona pace dei vari vicepresidi in giro per il mondo che si sono visti recapitare la bozza consegnata in congregazione tra il 27 e il 28 giugno, chiedendo loro di esprimersi entro il 2 luglio.Agli studenti che mercoledì scorso hanno scritto una lettera al preside Sequeri per avere rassicurazioni su come si intende preservare l'identità dell'istituto, ha risposto venerdì pomeriggio il Gran cancelliere Paglia. Ha indicato due link di interventi di Sequeri: l'intervista ad Avvenire e un pezzo sull'Osservatore Romano, rispondendo che è qui che possono comprendere «l'attuazione concreta dell'approvazione degli statuti». Risposte nel merito non pervenute, però ha augurato agli studenti «un meritato riposo estivo». A Giovanni Paolo II e al suo magistero, pare che, invece, resti solo il meritato riposo eterno.Lorenzo Bertocchi<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-vaticano-fa-piazza-pulita-dei-fedelissimi-di-wojtyla-e-scola-sbotta-epurazione-2639400222.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="a-rifare-la-balena-bianca-bergogliana-ci-pensano-de-mita-e-monda-junior" data-post-id="2639400222" data-published-at="1765636655" data-use-pagination="False"> A rifare la Balena bianca bergogliana ci pensano De Mita e Monda junior La pulzella di Orléans ha 91 anni. Se è vero che «l'età non è un tempo della vita, ma un modo di essere della mente», Ciriaco De Mita ha pure le sue buone ragioni a imbracciare lo spadone per provare a portare a termine una missione che non riesce dai tempi del compromesso storico: aggregare i cattolici e renderli maggioranza nel Paese «per contrastare sovranisti e populisti». Individuato il nemico, il resto è egualmente difficile perché lo sfaccettato mondo che fa riferimento ai valori della Chiesa è disperso ai quattro angoli della politica. E neppure sa esattamente quali siano quelli che il Vaticano considera ancora valori. In attesa di chiarimenti -e con l'unica certezza di ritrovarsi tutti idealmente sulla banchina di Lampedusa dove attraccano i migranti -, De Mita e i suoi fratelli hanno varato la Rete bianca, un movimento pronto a diventare partito e di conseguenza gamba da sacrestia della coalizione di centrosinistra. È ciò che emerge da due eventi in rapida successione. Il primo a Nusco, nel feudo demitiano, con l'aggregazione locale dei postdemocristiani irpini che già hanno annunciato di essere disponibili a scendere in campo alle prossime elezioni regionali (al fianco di Vincenzo De Luca). Il secondo a Roma, nello storico Palazzo delle cooperative, con il chiaro intento di trasformare al più presto il movimento in partito e con un'idea di costruzione piramidale del direttivo. Oltre a colui che Gianni Agnelli definì «un intellettuale della Magna Grecia», ecco fidati e sperimentati colonnelli come l'ex leader del Centro cristiano democratico Marco Follini, l'ex ministro Francesco D'Onofrio, Lorenzo Dellai (Democrazia solidale) e Giorgio Merlo (Mdp di Pier Luigi Bersani), tutti a vario titolo professionisti del trekking costituente attorno ad ogni Cosa Bianca spuntata negli ultimi anni all'ombra di San Pietro. Era da mesi che le tessitrici preparavano la bandiera prendendo spunto dai 60 anni dalla morte di don Luigi Sturzo e dal suo appello ai «Liberi e forti» adattato ai giorni nostri. Un'operazione impervia perché oggi quei liberi sono di fatto incistati nell'ala sociale del Pd (senza diritto di parola su temi come l'utero in affitto e l'eutanasia) e quei forti sono debolissimi, non avendo alle spalle un elettorato strutturato. Per provare a raccogliere il consenso delle parrocchie e dei movimenti giovanili vagamente apartitici, il primo obiettivo dell'ultima Cosa bianca è accreditarsi come partito di papa Francesco. E per riuscirci, ecco la sorpresa: l'inserimento in organigramma di Dante Monda, il figlio del direttore dell'Osservatore Romano, garanzia di una solida sponda con il cerchio magico vaticano. Una sorta di benedizione, vista con grande favore dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che il giorno dopo le ultime elezioni ha cominciato a costruire con discrezione e passo felpato un'alternativa cattolico-moderata alla maggioranza M5s-Lega. Il rassemblement non può prescindere dal consenso della Chiesa, che si trova politicamente spaesata dopo il fallimento del riformismo renziano a sinistra e il declino anagrafico (e progettuale) della sponda berlusconiana di Forza Italia nel centrodestra. Isole nella corrente, tenute insieme da un unico collante sottolineato nell'incontro romano un po' da tutti: «La costruzione di un partito per dialogare con i tanti centristi delusi che oggi si trovano nel Pd e in Forza Italia, ma che non vogliono essere risucchiati da Lega e 5 stelle». Il movimento guarda a sinistra, ma non troppo, quindi all'esperienza europeista di Emma Bonino. Un nome che piace a Mattarella, al suo vecchio compagno di viaggio De Mita e anche a padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica, il gesuita che sussurra a Francesco. Siamo solo all'inizio, ma la scelta dell'icona radicale sembra già dettata dalla forza della disperazione. La Bonino perde trionfalmente ogni elezione da un decennio e rappresenta una forte contraddizione rispetto ai valori della base potenziale, che non ha mai metabolizzato il suo passato da paladina di ogni battaglia anticlericale. Su quel nome, democristiani dal sangue blu come Gianfranco Rotondi e Rocco Buttiglione scapperebbero a gambe levate. La contraddizione della Chiesa di Francesco («aperta ai migranti ma disinteressata alle sorti degli italiani», parola dei numerosi preti dissidenti sul territorio) rischia di diventare una precondizione negativa per la Rete bianca, che non si sa quali pesci possa evangelicamente trarre a bordo dal mare elettorale. A guardare con rispetto ma anche con disillusione l'ennesimo tentativo di mettere insieme i cattolici sono quelle associazioni potenti e radicate come la Comunità di Sant'Egidio, le Acli e la Cisl, che soprattutto al Nord non è solo un sindacato, ma un aggregatore di consensi laici nel mondo del lavoro. A inizio anno, quando l'idea muoveva i primi passi, all'interno della Cei era stato fatto informalmente il nome di Marco Bentivogli come potenziale leader. Giovane, social, con ottime sponde romane, sembrava poter essere un profilo su cui puntare. Poi il silenzio di mesi ed ecco spuntare all'improvviso la pulzella di 91 anni a brandire il vessillo dello scudo crociato. Le vie del Signore sono davvero infinite. Giorgio Gandola
Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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Riduci
Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Riduci
Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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