2021-02-23
Il teste anti Eni piomba sul caso Palamara
Nell'inchiesta di Perugia entra Piero Amara, discusso informatore chiave nel processo al cane a sei zampe. Intanto 67 giudici e pm scrivono a Sergio Mattarella: «L'unico modo per pulire il Csm? Cacciare tutti e sorteggiare». Quella di ieri a Perugia è stata un'udienza preliminare molto calda. Mentre parlava la pm Gemma Miliani, l'ex collega Luca Palamara, imputato per corruzione, è sbottato e ha lasciato l'aula (anche se alla fine i due si sono chiariti). «Mi sembra di assistere alla vendetta del Sistema, che per punirmi usa le dichiarazioni a rate di due pseudo collaboratori», ha dichiarato schiumando. La rabbia nasceva dal fatto che gli inquirenti hanno estratto dal cilindro nuove e più precise contestazioni, come richiesto dal gip Piercarlo Frabotta il 9 febbraio, grazie alle dichiarazioni di due avvocati dai numerosi precedenti giudiziari. Con il loro contributo gli inquirenti avrebbero individuato l'atto contrario ai doveri d'ufficio che l'ex presidente dell'Anm avrebbe compiuto a favore dell'amico Fabrizio Centofanti in cambio di utilità di vario genere e che consisterebbe nell'aver dato all'imprenditore notizie dei procedimenti che lo vedevano coinvolto a Roma e Messina. A riferirlo sono stati l'avvocato Piero Amara e il sodale e collega Giuseppe Calafiore ai magistrati di Milano, dichiarazioni poi ripetute a Perugia il 4 e il 17 febbraio. I due, va ricordato, hanno già patteggiato pene per corruzione in atti giudiziari, ma continuano a tenere banco in diversi tribunali italiani contro magistrati, avvocati e anche ex ministri, come Paola Severino e Filippo Patroni Griffi. Prima di proseguire è utile precisare che diverse accuse mosse dalla coppia sono già cadute, smentite dagli stessi testimoni da loro indicati. La collaborazione di Amara è iniziata a Roma il 26 aprile del 2018, quella di Calafiore il mese successivo. Da allora la memoria dei due testimoni, opportunamente stimolata, procede a ondate e, anno dopo anno, apre nuovi filoni, con notizie taciute e persino negate in precedenti verbali. Per esempio nell'inchiesta di Perugia Amara e Calafiore sono stati interrogati più volte a maggio e a giugno del 2019, ma solo nel febbraio del 2021 hanno fornito la presunta pistola fumante agli inquirenti, incalzati dal gip. Ma esattamente che cosa avrebbero dichiarato i due? Che Palamara, dopo aver acquisito «informazioni anche riservate» da alcuni magistrati, in particolare da Stefano Fava (durante alcune partite di tennis), le avrebbe rivelate a Centofanti in cambio di viaggi e lavori di ristrutturazione. In particolare il riferimento è a due specifici procedimenti: il 44630/2016 in mano a Fava e ad altri quattro colleghi e il 4179/2015 aperto dai pm di Messina. Inoltre il procuratore generale della città peloritana, Vincenzo Barbaro, avrebbe stilato una relazione di servizio, trasmessa alla Procura, in cui avrebbe denunciato di essere stato compulsato da Palamara interessato ad avere notizie su «un suo amico» (Centofanti?); l'atto sino a oggi non era mai stato contestato all'ex consigliere del Csm, nonostante risalga al 14 ottobre del 2017. Ma se Amara e Calafiore sono testimoni discutibili, Barbaro potrebbe essere considerato più affidabile. Per smontarne la credibilità, però, Palamara, con i suoi difensori, si è subito premurato di estrarre la chat con i messaggi scambiati con la toga messinese dal luglio 2017 al gennaio 2018. Cioè anche in epoca successiva alla comunicazione «riservata» inviata ai pm di Messina. Per esempio, il Pg apprende da un entusiasta Palamara della sua nomina. Dalla chat si evincono anche alcuni incontri romani tra i due e l'interessamento di Barbaro per una rapida decisione su un posto da giudice a Messina. Il procuratore, in prossimità del Natale, scrive anche per avere il numero di telefono di un'altra consigliera, Paola Balducci, per poterle mandare dei torroncini. Al che Palamara chiede di averli anche lui e allora Barbaro assicura di averli spediti a entrambi. Non sembrano i messaggi di un uomo particolarmente risentito. Amara ha riferito ai pm perugini di aver parlato dei rapporti tra Barbaro e Palamara all'avvocato Bonaventura Candido, il quale con La Verità ammette che il collega gli fece qualche riferimento ai rapporti tra i due magistrati, ma non gli nominò mai Centofanti. Candido ricorda meglio le dichiarazioni del suo assistito, l'ex pm Giancarlo Longo, il quale disse agli inquirenti di Perugia di aver appreso notizie su un procedimento ai propri danni da Calafiore, informazioni che quest'ultimo avrebbe ricevuto da Roberto Pignatone, fratello dell'ex procuratore di Roma, Giuseppe. Queste accuse hanno fatto guadagnare a Longo in Umbria un'iscrizione per calunnia e successivo proscioglimento. Torniamo ad Amara e Calafiore: possono essere considerati testimoni affidabili? Sicuramente sono stati utilizzati come teste di ariete, specializzati in accuse a magistrati, dalle Procure in diversi delicati procedimenti (per esempio nel processo milanese su Eni attualmente in corso). In particolare l'importanza di Amara emerge in un carteggio interno della Procura di Roma. Il 31 gennaio 2019 l'aggiunto Paolo Ielo scrive ai colleghi Fava, Rodolfo Sabelli e Fabrizio Tucci sostenendo che occorra aspettare per far arrestare Amara «per tre ordini di ragioni»: «La prima è che ciò che avevamo chiesto ad Amara […] erano tutte le corruzioni giudiziarie onde evitare ulteriori richieste cautelari. Chiedere adesso la misura per bancarotta significa uscire dal perimetro dell'accordo originario». Purtroppo, nonostante questa grandissima apertura di credito, i fatti di Perugia dimostrano che Amara molte presunte corruzioni giudiziarie non le ha raccontate ai pm romani, ma ha preferito farlo in altri interrogatori, in una sorta di confessione a puntate, come denunciato da Palamara. Sembrano certificare questo metodo le ultime dichiarazioni rilasciate da Amara a un avvocato impegnato in indagini difensive, sul presidente del Consiglio di Stato Patroni Griffi, che, a suo dire, gli avrebbe richiesto l'assunzione dell'amante. L'ex ministro ha già annunciato querela. Ma perché l'avvocato siciliano ricorda questa vicenda solo adesso e non l'ha mai raccontata ai numerosi pm che lo hanno interrogato in precedenza, romani, messinesi, milanesi o perugini che fossero? Come è stata possibile una simile amnesia considerata la caratura del personaggio? Ielo, due anni fa, disse anche che era importante evitare il carcere ad Amara per un altro motivo che potrebbe far alzare il sopracciglio ai cultori del garantismo: «Ricordiamoci che dobbiamo affrontare un dibattimento con Amara teste di accusa […]. In questo contesto una misura cautelare per Amara mi sembra un atto che ci indebolirebbe». Ma Fava, nell'occasione, non sembra d'accordo: «Le evidenze che ho riportato sconsigliano del tutto un'ipotesi di patteggiamento poiché Amara continua a commettere delitti e non ha riferito tutto ciò che sapeva neppure sulle corruzioni giudiziarie». Sempre Fava, oggi sospettato di aver rivelato notizie riservate per favorire Centofanti, è lo stesso che aveva chiesto ai suoi colleghi, con il rischio di autoaccusarsi, di intercettare l'imprenditore romano «per capire se mantiene la sua rete relazionale». Amara aveva già provato a incastrare Fava, l'uomo che lo voleva ammanettare, dicendo che un agente dei servizi dei segreti, Antonio Sarcina, gli chiedeva denaro per conto dello stesso pm in cambio di notizie. Ma Sarcina interrogato in carcere non solo non ha confermato, ma ha fatto il nome di altri magistrati. Altra clamorosa contraddizione riguarda il già citato Longo, che ha confessato e patteggiato una pena per aver creato, su input di Amara, un procedimento parallelo a quello milanese per aiutare alcuni manager di Eni. Interrogato dagli inquirenti di Roma, Milano e Messina, Amara, in un primo momento, negò il coinvolgimento o anche la semplice consapevolezza dei dirigenti della compagnia petrolifera nella corruzione di Longo, per poi cambiare versione e raccontare l'opposto. Ma la cosa più incredibile è che in mezzo a questo mare magnum di dichiarazioni Amara sarebbe riuscito a mettere in salvo un sostanzioso tesoretto. La società Napag, di cui era socio occulto, avrebbe incassato dall'Eni, nel maggio del 2018, 25 milioni di euro (anche se, in base a conti interni dell'azienda, alla fine il valore dei bonifici ammonterebbe a più di 90 milioni di euro). La ditta, nata a Gioia Tauro per occuparsi della commercializzazione di succhi di frutta, sarebbe stata utilizzata dal legale siciliano per entrare in lucrosi commerci con l'Eni. Forniture di polietilene ad alta densità, virgin nafta e petrolio, tutti prodotti di origine iraniana non dichiarata per aggirare l'embargo. Dopo aver scoperto gli strani business, attraverso una puntigliosa indagine interna, i vertici del colosso dell'energia hanno licenziato i complici di Amara dentro all'azienda e denunciato gli illeciti alla magistratura. Le Procure di Roma e di Milano non hanno, però, mai sequestrato i denari incassati dalla Napag, nonostante le indagini di Fava e la citata audit interna dell'Eni abbiano dimostrato il collegamento tra l'azienda e Amara. Durante il processo milanese contro la compagnia petrolifera, uno dei più importanti degli ultimi anni, il «super testimone» si è esibito in un'altra delle sue dichiarazioni mirabolanti, aventi, anche in questo caso, come obiettivo un magistrato, questa volta Marco Tremolada, il presidente del collegio che dovrà decidere la sorte dei vertici di Eni e che durante il procedimento ha dimostrato di essere equidistante rispetto alle tesi di accusa e difesa. Amara, nelle sue esternazioni, ha coinvolto anche l'ex Guardasigilli Paola Severino, che, a suo dire, come riportato dal Corriere della sera, avrebbe avuto «accesso», unitamente all'avvocato Nerio Diodà, proprio a Tremolada, «tale da assicurare l'assoluzione» degli imputati Paolo Scaroni e Claudio Descalzi (ex e attuale ad di Eni). Anche in tal caso Amara non avrebbe riferito fatti conosciuti direttamente, ma appresi, a suo dire, dall'avvocato dell'Eni Michele Bianco e dall'ex collega di studio Alessandra Geraci i quali, come succede quasi sempre con Amara, avrebbero smentito, ancora una volta, l'avvocato siciliano. Che ora ci prova con Palamara.
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