2019-03-08
Il testamento scomparso di Guido Piovene
Inizia oggi la rubrica dello scrittore Emiliano Gucci dedicata ai libri «perduti» dei mostri sacri della letteratura italiana, usciti dai cataloghi e ormai introvabili. Come Verità e menzogna, opera incompiuta dell'autore veneto stampata solo una volta nel 1975.«Nel tardo pomeriggio di un giorno di metà settembre Sergio Foster ricevette un telegramma di suo padre: “Tua presenza richiesta per grave decisione riguardante Nico". Rispose subito che sarebbe arrivato a Gorizia la sera dopo a pranzo. Il telegramma e la risposta avevano interrotto la solita discussione tra Sergio e la moglie Annalia che aborriva le sue inclinazioni politiche. Nessuno dei due aveva ora la forza di riprenderla».Così Sergio lascia Milano, Annalia, il cane, le crepe del tetto coniugale per raggiungere la città natia. «Niente più del proprio paese, pensava, aiuta a veder chiaro in noi stessi, riporta alla giusta misura la mente che lontana dalle origini proprie tende a girare in folle».Ritrova il padre, nella sua nuova ma «vecchia casa da agricoltore agiato». Si è tolto la barba, per non essere «uno dei tanti vecchi che si ricoprono di pelo bianco come le pecore per imitare i giovani», e sta perdendo la lotta contro il tempo: non ha ancora rimesso in ordine la libreria e ha abbandonato le proverbiali camminate «senza limite e senza termine», nella natura carsica, «verso una terra interna a cui la fantasia dava confini incerti». È un padre stanco, lucido ma provato. Che gli parla di Nico, fratello minore di Sergio, prima bambino in ritardo poi ragazzo in fuga, bello e forte, creativo ma spesso cupo, perso in sé stesso. «Appena seppellita tua madre, se ne andò una mattina senza avvisare né lasciare un biglietto». Il fratello sghembo che scompare e ricompare. Stavolta col botto, scuotendo gli animi di tutti.La zia Delia lo aveva accolto nella sua casa/albergo di Duino, negandogli però lo spazio per quel teatro di marionette (tema: l'imminente fine del mondo) che pare il solo progetto in cui creda: «Preferire un salotto al mio teatro è criminale». Così, una mattina presto, come per ritorsione, Nico è entrato nella camera di una ragazza scozzese ospite dell'albergo e ne ha abusato. È sceso di sotto, ha abbattuto il suo amico a bastonate e poi ne ha buttato giù un altro, ha mandato i vetri in frantumi, è fuggito a Trieste da dove «continua a minacciare». Ecco la questione: abbandonarlo allo stato brado o tentare un recupero.Lo hanno letto in pochi questo Verità e menzogna di Guido Piovene, il suo testamento in prosa per di più rimasto incompiuto. La moglie Mimy racconta in una nota che iniziò a scriverlo a Milano nel 1972, presto lo interruppe, lo riprese nell'agosto dell'anno successivo e quindi a Cap Ferrat, in Costa Azzurra, sul finire del '73, stoppandolo al tredicesimo capitolo. Nei mesi seguenti lo corresse ricopiandolo a macchina, per tenerselo accanto fino agli ultimi giorni di Londra, nel novembre del 1974. Venne pubblicato da Mondadori nel 1975, per la cura di Gabriele Catalano, che «Guido apprezzava particolarmente come profondo conoscitore e critico penetrante della sua opera». Non ci sono state ristampe, non è reperibile da decenni: come altri suoi testi lo incontri soltanto nelle librerie antiquarie, nelle case di chi ha un buon passato o tra le più strette maglie della Rete. Per me è stata una folgorazione. Molti conoscono Piovene per Lettere di una novizia e Viaggio in Italia, o per il suo incantevole Le stelle fredde (volumi oggi disponibili per Bompiani), premio Strega 1970, con quel Fëdor Dostoevskij che esce dal buco aperto con l'estirpazione di un ciliegio e si siede lì, a raccontarci un aldilà non troppo desiderabile. Dostoevskij, evocato da Piovene, in quella marea di anime che camminano, camminano, senza sosta e senza quiete. Le anime morte. I fantasmi, i demoni dello scrittore già affrontati nel 1963 con Le furie (Mondadori, poi Aragno), la sua battaglia finale con la letteratura: «Forse era questa la forma di schiavitù che avevo inventato a me stesso». Il manifesto di sé: «Io non sono un fantastico, nemmeno un inventivo, e nemmeno un realista, ma sono un visionario di cose vere. Non mi è lecito manipolarle, ma soltanto guardarle attentamente, registrarle, e le vedo tanto di più quanto più sono cieco, sordo, distratto». È questo il Piovene narratore: l'uomo che si dissemina in ogni frase, per cui lo stile è forgiato dall'essenza. Poi è arrivato Verità e menzogna, il passo si è fatto più parsimonioso ma risoluto, il tono a tratti di un'intimità commovente.Nell'incedere della trama il romanzo deflagra e lascia campo al bizzarro progetto del fratello Nico. Durante il conciliabolo di famiglia che si propone di risolvere la sua questione, emerge una voce dal tono «aspro, ma civile», ovvero quella di un'altra zia che si offre di ospitarlo: «A me basta una stanza. Ci sarà posto per tutti i teatri che vuole». E allora teatro sia, fino alla messinscena finale.Chissà dove ci avrebbe condotto Guido Piovene prima di calare il sipario: «Non ci sarà più la fine del mondo, l'ho scoperto la notte scorsa», sentenzia il burattinaio. C'è però la fine dell'uomo, in un confronto padre-figlio che setaccia il sentimento e la distanza, il legame trasformato dalle stagioni andate: «Ora mi sto accorgendo che essere padre non è niente, un concetto astratto». Una disperazione lucente, che preannuncia il suicidio e accende lumi nell'animo del figlio, tra le sue contraddizioni politiche e morali, sull'eterno funambolismo della creatività letteraria.Verità e menzogna è un romanzo da resuscitare. Forse anche da riscrivere, quale omaggio a Piovene, una e più volte, per portarlo a compimento lasciandosi guidare dall'umanità, dai temi, dalla materia di cui è plasmato. Da lettore, ciascuno di noi può farlo senza ostacolo. Da scrittore non potrei certo sentirmi adeguato. Mi permetto soltanto di custodirne il fuoco, questo sì, come sorgente per altra sana narrativa che ne rispetti la lezione. Senza più l'ossessione di un finale chiuso perché a volte, quando si tenta di domare la bestia, è meglio salutarsi con un preambolo: «Taci. Adesso parlo io. Questo, vedete, è uno di quegli animali che esigono una spiegazione preliminare. Per fortuna non durerà a lungo».
Jose Mourinho (Getty Images)