«Ricordo bene quand'egli arrivò la prima volta nel nostro paese: era primavera, poco tempo prima che venisse la Pasqua. Avevamo avuto un inizio di primavera confuso, quell'anno. Già alla fine di gennaio c'erano state delle giornate proprio calde, e così il grano nei campi esposti al sole era cresciuto in fretta, e in fondo alla valle le gemme degli alberi s'erano ingrossate fino a scoppiare». E lui «veniva avanti un po' curvo sotto lo zaino, solo in mezzo alla strada, col sole che gli batteva sulle spalle. Aveva la divisa del soldato coloniale, pantaloni chiusi alla caviglia e scarpe gialle a gambaletto. Una divisa non del tutto nuova, perché certamente veniva dalla guerra».
Intercettato sul filo di lana, a chiudere questa serie di grandi romanzi dispersi del Novecento italiano, scrivo di un libro che devo ancora finire di leggere; si può? D'altronde: poteva mancare Giuseppe Berto in una rassegna così?
Il protagonista Michele Rende, tratteggiato sulla figura di un vero brigante, è contadino poi partigiano nella Calabria delle rivolte rurali, sul finire della seconda guerra mondiale. «Un uomo che non lasciava incertezze intorno a sé», dice Nino, il ragazzo che dà voce al racconto, «l'uomo più perfettamente corrispondente ai miei ideali che io avessi mai incontrato». Rientra al paese, in congedo per la morte del padre, e la sua presenza crea subito fibrillazione. I giorni che odorano di bosco e di bestie, le notti da osteria e da focolare, s'incendiano. Accusato di aver ucciso il fidanzato dell'amante, Rende si darà alla macchia: il reduce dai nobili ideali passerà la linea della legalità con al fianco la sedotta Miliella, sorella del narratore, in 200 pagine fitte «d'avventura, d'amore e di morte». Verso il martirio.
Io ero rimasto folgorato da Il male oscuro (Rizzoli, 1964), che di pagine ne inanella molte di più. Me lo ripetevano da tempo, «leggilo che è un libro per te», e io a un certo punto l'ho preso (ovviamente usato, su una bancarella) e me lo sono portato su un'isola e l'ho letto, e tutta quella vacanza di mare fu riempita dal male e dal bene di Berto, che in certe pagine andava in montagna dove gli mancavano le linee dritte, la perentorietà dell'orizzonte, del mare, al quale ancorare lo sguardo per superare il tunnel; il mare cui stavo di fronte e di fronte al quale lui si trasferì, a Capo Vaticano, in Calabria, costruendo una casa che guardava la Sicilia, «in conclusione questo potrebbe andar bene come luogo della mia vita e della mia morte».
Scoprii un autore unico nel panorama italiano, e non solo, un autore che non somiglia a nessun altro, che nella disperazione mi faceva ridere, e pensare, che vomitava la sua nevrosi come alta letteratura. Che nella scrittura trovava la cura, così come l'avevo trovata io. Che negli incubi incontrava il salotto dei buoni, capitanato da Alberto Moravia a impersonare l'intellighenzia sinistrorsa che lo estromise, diciamo lo ripudiò. «È molto meglio che ciascuno riprenda la propria libertà e senza guardarsi né a destra né a sinistra punti dritto alla gloria come meglio gli riesce, per la madonna è ben questo che io farò», scrive sempre ne Il male oscuro. «Sebbene sia consapevole che la eterosessualità quasi costante delle varie opere che immagino di scrivere non mi porterà al successo».
Al ritorno dalla mia vacanza, in transito da Trapani, in una libreria astrusa con dentro pochi libri nuovi e molti vecchi e una caterva di minuscole edizioni locali, ripescai un'edizione de Il cielo è rosso, il suo esordio Longanesi del 1946. È tutt'altra cosa, ma comunque ottima. Più tardi ancora, Neri Pozza ha avviato il lavoro che negli ultimi tempi ha riportato in libreria, oltre ai due testi citati, opere come La gloria e Anonimo veneziano. Spero che il programma continui. Questo Il brigante lo ristampò Rizzoli qualche anno fa, ma è già scomparso dai radar. Come scrive lo stesso Berto introducendo la riedizione Rusconi del 1974, è un testo che ha tentato la fortuna in più occasioni, «e non è detto che gli andrà bene nemmeno questa volta. Però non è neppur detto che gli andrà male: oggi esso incontra sulla sua strada lettori nuovi», da cui è lecito aspettarsi «giudizi meno aspri di quelli che ebbi quando uscì in prima edizione presso Einaudi nel 1951». Suo secondogenito, il libro venne tradotto e ben accolto all'estero, il Time Magazine lo definì «uno dei più belli e tragici romanzi che siano apparsi da anni, veramente un piccolo capolavoro», mentre in Italia «critici eminenti» si precipitarono a stroncarlo con «una solerzia perlomeno sospetta».
Prendi «l'illustre Emilio Cecchi (…), ferito dal numero dei morti ammazzati che s'incontrano nel racconto, andò a scovarli uno ad uno, li mise in colonna e tirò le somme: troppi, in verità, e concluse che il romanzo era molto brutto». A distanza di anni Berto ironizza (contando i morti «perderemmo quasi tutto Shakespeare, e sarebbe un peccato»), ma sul momento accusò il colpo. Tentativo di entrare «in un movimento culturale chiamato neorealismo», fatto voto a un «socialismo elementare, utopico, scarso o del tutto privo di basi culturali ma in compenso entusiastico e pieno di certezze», Il brigante uscì quando il neorealismo era finito e il socialismo era diventato un'altra faccenda. Oggi, fatto lo storno delle magagne, poiché il testo «è pieno di squilibri, di ingenuità e di contraddizioni, delle quali devo per forza parlare io, visto che la critica, pur avendolo attaccato da quasi tutte le parti, non ha naturalmente trovato le parti dalle quali sarebbe stato giusto attaccarlo», resta una prova vibrante e godibile, epica, terragna, di grande spessore umano, nella lingua che «tende a dignità letteraria, addirittura a compostezza classica», e nella sua vena filosofica. Quella che Berto preferiva, tanto che a distanza pensò a «qualche abbondante taglio alla parte politica». Fu redento da una ragazza di 20 anni, sua figlia, e lasciò il romanzo così com'è. Nella speranza che certa ideologia potesse «suscitare nei giovani un almeno generico desiderio che gli uomini diventino migliori». E che un libro come questo diventasse «una testimonianza dell'ingenuità e degli errori della mia generazione, e della sua generosità. Noi non capivamo molto e facevamo speranza di ogni illusione».
«Si giocava d'azzardo in quegli anni, come si era sempre giocato, con accanimento e passione; perché non c'era, né c'era mai stato a Luino altro modo per poter sfogare senza pericolo l'avidità di danaro, il dispetto verso gli altri e, per i giovani, l'esuberanza dell'età e la voglia di vivere». Comincia così Il piatto piange, romanzo d'esordio di Piero Chiara uscito nel marzo del 1962 per Mondadori: dopo positiva lettura di Dante Isella, con 5.000 copie di prima tiratura andò a inaugurare la collana il Tornasole, diretta da Vittorio Sereni e Niccolò Gallo. Imbastito su bozzetti già esistenti e sulla stoffa di due racconti pubblicati dalla rivista Il Caffè, Chiara lo aveva affinato perlopiù oralmente, nelle storie con cui sovente ingannava gli amici e il tempo, forse sé stesso: «Nei paesi la vita è sotto la cenere», ed è là che amava rovistare.
Leonardo da vinci
I temi a lui più cari compaiono già tutti: la piccola provincia degli anni Trenta, vivida e vibrante che par di starci dentro, coi riflettori accesi (mai era accaduto prima, a tali livelli) sui suoi paesani, portatori di noia e piccole virtù, vizi e peccati spesso piccoli anche quelli. Prendi l'imbianchino di Dumenza che «trovandosi a lavorare al Louvre, rubò la Gioconda di Leonardo da Vinci. Se la portò a Luino arrotolata nella sua valigia d'emigrante» e ce l'avrebbe ancora con sé, non avesse avuto la pretesa di venderla al direttore degli Uffizi di Firenze...
«I luinesi, così irrequieti e avventurosi, quando non potevano andare a lavorare o a cercar fortuna in Francia o altrove […], si azzannavano tra loro nel gioco, derubandosi ferocemente». Sgangherati perdigiorno, divisi tra le chiacchiere al bar e il bordello di Mamarosa, le notti di bisca al Metropole o a casa del Rimediotti: la generazione che uscirà trasformata, per non dire cancellata, dal secondo dopoguerra.
«Quanto e quanto accanitamente, perdutamente, si è «giocato» in provincia durante il Ventennio nero, lo sa soltanto chi vi è vissuto in quegli anni», scrive Mario Bonfantini nella prefazione all'Oscar Mondadori (ottava ristampa, giugno 1979) da me recuperato. «Allo chemin de fer è la condotta (...) che conta», dice Chiara, «il gioco in sé non richiede alcuna abilità. Non ci sono calcoli da fare, sparigli da tenere a mente o mosse da prevedere. Ci vuole solo carattere, cioè ponderatezza, freno». E un po' di culo, «perché da noi la fortuna, la chiamano “culo", e forse non solo da noi», eh no, ch'io immaginavo fosse cosa toscana; «non vedo il rapporto, ma si dice sempre così, ancora adesso, e qualche volta addirittura boeucc». Uno spasso. Perlomeno per chi legge, abituato al gioco alienante della provincia d'oggi, con le slot disseminate pure dentro i circoli Arci.
Donne boccaccesche
E poi, quale altro passatempo se non il buon sesso? Altri tempi anche in questo, s'intende. Il sesso del casino e delle corna paesane, con donne boccaccesche e suadenti, magari bidimensionali, disponibili per spregiudicate avventure dalle veneree conseguenze. Ed ecco emergere i due personaggi più a lungo raccontati nel libro, ovvero il camaleontico Càmola, corteggiatore a suon di lettere (perlopiù ricopiate dall'Ortis di Ugo Foscolo), e il suo «amico e compagno quasi inseparabile» Tolini, detto Tetàn, «di antica famiglia luinese e figlio di un negoziante di tessuti […]. Come mezzo di seduzione avevano le loro facce, che erano le più invitanti e lascive che si potessero immaginare. Guardavano le donne con le palpebre semichiuse, la bocca molle e lo sguardo lungo, strascinato, degli ammaliatori. Qualche volta tiravano addirittura fuori la lingua, lentamente, e succhiavano l'aria». Se dettagliando c'è da scadere nel triviale, nessuna remora, vedi gli amplessi sul canapè in stile Impero dell'avvocato Parietti, scapolo sessantenne, che si muoveva meglio lasciando la sua gamba intirizzita (da una ferita di guerra) fuori da quel divano senza sponde. «Chi avesse ben guardato sul pavimento […] avrebbe notato un tassello di legno inchiodato al parquet», contro cui l'avvocato «puntava il suo tacco ortopedico, nelle buone occasioni, realizzando la più semplice e pericolosa delle macchine umane. “Datemi un punto d'appoggio e vi sollevo il mondo!", soleva dire ai clienti e specialmente alle clienti quando gli esponeva i loro casi».
A tessere il tutto una voce del gruppo, implicata ma non troppo: la penna lieve e ironica di Chiara, che mai rinuncia all'affondo dell'amarezza. Tratteggiando d'intorno una magnifica Luino, obliata tra il lago Maggiore e la Svizzera eppure a suo modo centro del mondo; la città in cui era nato nel 1913, che racchiude «tutti i luoghi immaginari dove si svolge la favola della vita». Sullo sfondo l'avanzare della dittatura fascista, che sembra lasciare i protagonisti poco più che indifferenti.
Chiara qualche problema con il fascismo lo ebbe. Finì esule in Svizzera, all'emissione di un ordine di cattura: muovendo d'anticipo, aveva rinchiuso un busto del Duce nella gabbia degli imputati (o forse soltanto impilato i suoi ritratti sul banco degli imputati, come troviamo scritto altrove), nel tribunale dove lavorava come aiutante di cancelleria. Era stato un mezzo furfante fin da ragazzo, figlio di un doganiere siciliano e di una venditrice di ombrelli; la sua formazione, più che sui banchi di scuola (dove fu bocciato più volte), avvenne tra i bar e le palestre di pugilato, i tavoli da gioco e gli scaffali delle biblioteche perché leggere sì, quello gli piaceva parecchio. Con quella faccia, quel portamento, quel sorriso un po' così, elegante e fiero, distaccato e sagace, lontano da ogni archetipo del letterato novecentesco.
Fu assai prolifico, i suoi romanzi diventavano film e vendevano centinaia di migliaia di copie, La stanza del vescovo (1976, Mondadori) fu il capolavoro; si parla di oltre 4 milioni di libri in circolazione nei primi anni Ottanta. E menomale, così andiamo a ripescare quelli. Perché adesso di nuove edizioni ne circolano poche e all'appello sembra mancare anche Il piatto piange, nonostante una ristampa piuttosto recente. Sia mai: non muoia Piero Chiara assieme a quella provincia (disincantata e viziosa, ma umana) che non esiste più.
«Fin da ragazzo ho amato le distanze e la solitudine. Uscire dalle porte del mio paese e guardarlo dal di fuori, come qualche cosa di perduto, era uno dei miei più abituali diletti. Piacere e terrore mi portavano in certi luoghi romiti, sacri alla morte, a cui però non pensavo se non per quel tanto che m'impediva d'inoltrarmi troppo in un così pauroso reame».
Va centellinata la lettura di Villa Tarantola, opera composta da otto brevi prose autobiografiche del grande poeta Vincenzo Cardarelli, nato illegittimo e battezzato Nazareno, fin da ragazzo inquieto di spirito e cagionevole di salute, una menomazione al braccio sinistro che non dovette aiutarlo nella lotta. Sono tornato a cercarlo dopo un casuale soggiorno a Tarquinia (Viterbo), un tempo Corneto, quel «paese urbano e campagnolo, rustico e civile», dove il padre conduceva il buffet della stazione e lui gli faceva da garzone. Mi s'è riaccesa la sua fiamma scendendo e risalendo i gradini delle tombe etrusche nei pressi del cimitero che ospita la sua, di tomba, e quindi davanti alla casa natia, per quelle strade che poco lo ricordano. Vi ho trovato la biblioteca e una scuola a lui intitolate, nessun museo, nessun libro speciale, giusto la promessa di occasionali iniziative per cui ho lasciato i miei recapiti.
L'opera di Cardarelli è reperibile soltanto nel mastodontico Meridiano Mondadori, per i suoi buoni 80 euro che non ne aiutano la diffusione. Io ho recuperato questo libro targato Club degli Editori, marchio di replica che istintivamente tendo a evitare, in una libreria della Onlus Emmaus, a Prato; penso che il suo legittimo proprietario sarà morto e penso che quando morirò saranno loro a svuotare i miei scaffali e rivendere i miei libri e ben mi sta, affezionato come sono al passar di mano del cartaceo e inorridito dai formati digitali. La collana si chiama I Premi Strega, copertina e «controfrontespizio» riproducono gli originali dell'edizione Meridiana 1948, in prefazione uno scritto dell'amico Libero Bigiaretti che vale il prezzo del biglietto. E in aggiunta al testo, dall'esigua mole per sfidar le costolone dei libroni nel mercatone da un tanto al chilo, la riproposizione di una precedente opera prosastica, Il cielo sulle città (1939), e quella di Astrid ovvero temporale in estate (oggi in libreria per Helicon), forse l'unico racconto in cui Cardarelli si trincera dietro un personaggio narrativo che fin troppo gli somiglia.
Villa Tarantola appare come biografia pura, dei posti e delle genti e della sua vita. Il capitolo che titola il libro racconta quel «piccolo e ombreggiato edificio, somigliante più a un mulino che a una casa di abitazione», le cui «persiane color cenere apparivano costantemente chiuse come il cancello a cui mi affacciavo»; un edificio che è un mistero, il frutto «di una impresa archeologica mal riuscita, il ripiego d'un deluso cercatore d'oro etrusco» che ha finito per dar dimora alle tarantole, «ragno elegiaco e terraiolo» che ben conoscono gli abitanti di Maremma. Siamo quindi a Tarquinia come nel secondo testo, Fine di una banda, ove la politica s'intreccia all'epopea dei corpi musicali cittadini, a inizio Novecento, la svolta dell'acqua potabile «che ha moltiplicato la popolazione e fatto rifiorire le guance di quelle giovinette che a tempo mio, in primavera, apparivano tutte un po' estenuate ed anemiche». In Memorie, memorabili sono le pagine dedicate al padre. Marchigiano, emigrato povero, «veniva dal nulla, benché di buona famiglia, finita in malora. Da bambino aveva conosciuto la dura poesia delle strade carreggiabili» e pretendeva che il figlio crescesse commerciante come lui. «Cercai allora la scuola nella vita, nel mondo. A 16 anni, cioè un anno avanti che mio padre morisse, ero già lontano da lui e dal mio paese […]. La sua morte l'ho scontata prima che avvenisse. Tutte le lacrime di cui potevo disporre le ho versate un giorno che, recatomi a visitarlo al Policlinico di Roma [...], lo trovai come un albero secco, mangiato dalle formiche». Ecco l'Urbe, la città che lo adottò. In Primi passi c'è il suo approdo al mondo delle lettere: «Incredibile, strapazzosa, fu la mia fecondità giovanile. Tra i 22 e i 24 anni, redattore di un giornale quotidiano, mi feci conoscere come uno dei più fertili imbrattacarte che si siano mai scatenati in una redazione». Gli anni de L'Avanti, ma poi scrisse anche per La Voce e Il Marzocco, fu tra i fondatori de La Ronda. Come il fulmine sopraggiunse la malattia, nonché la fine della gioventù: «nella stessa corsia dove mio padre era morto […] avevo smarrito, rinnovandomi, gran parte del mio furore narrativo». E nelle prose a seguire, per chiudere, ecco rievocate tutte le sue stanze in affitto, le padrone di casa, le figlie, «le famiglie di cui sono stato inquilino, io che non ho famiglia».
Ma casa per Cardarelli furono perlopiù i tavolini di certi caffè romani, su tutti la terza saletta del celebre Caffè Aragno da dividere con Emilio Cecchi, Ardengo Soffici, Giuseppe Ungaretti, e più avanti il Caffè Strega in via Veneto, seduto «sempre al solito posto», come raccontò Alberto Bevilacqua al Corriere della Sera. E quando «il posto era occupato, lo vedevo che alzava il bastone. Caro vecchio, strafottente e scostante, l'aveva davvero succhiata dal mistero etrusco, la sua anarchia; ma la pagava cara».
Fraterno a Friedrich Nietzsche e Blaise Pascal, a Giacomo Leopardi, cattolico di stampo «antico, robusto», avrebbe detto «romano», Libero Bigiaretti sostiene che lo Strega quale premio ebbe per lui «il valore e il significato di un recupero, di un riconoscimento di tutta l'opera». Ricorda la sua morale intransigente: «Non ammetteva concessioni e patteggiamenti quanto all'esercizio della professione letteraria». In merito, due affermazioni del poeta che lasciano il segno: «La vita per l'artista è tutta da mortificare e da reprimere in vista dell'opera che ne dovrà scaturire: una perpetua attesa, una costante vigilia». E ancora: «Odio le improvvisazioni, i fuochi di paglia, i libri scritti tutti di seguito e che si leggono d'un fiato. L'epoca se ne compiace, ma il tempo non sa che farsene».
Il tempo rischia di rimuovere anche Cardarelli. Cercate Cardarelli, pretendete Cardarelli, resuscitate Cardarelli in ogni sua forma: l'epoca ne ha parecchio bisogno.





