2019-04-22
«Il brigante» di Berto ucciso dalla critica
La banda Grossi di Claudio Ripalti
Con questo libro, oggi introvabile, si chiude la serie dedicata alle opere da salvare. Osannato all'estero, fu stroncato in patria «per i troppi morti». Lo scrittore, lontano dai salotti, diceva: «Le mie trame sono troppo eterosessuali per avere successo».«Ricordo bene quand'egli arrivò la prima volta nel nostro paese: era primavera, poco tempo prima che venisse la Pasqua. Avevamo avuto un inizio di primavera confuso, quell'anno. Già alla fine di gennaio c'erano state delle giornate proprio calde, e così il grano nei campi esposti al sole era cresciuto in fretta, e in fondo alla valle le gemme degli alberi s'erano ingrossate fino a scoppiare». E lui «veniva avanti un po' curvo sotto lo zaino, solo in mezzo alla strada, col sole che gli batteva sulle spalle. Aveva la divisa del soldato coloniale, pantaloni chiusi alla caviglia e scarpe gialle a gambaletto. Una divisa non del tutto nuova, perché certamente veniva dalla guerra».Intercettato sul filo di lana, a chiudere questa serie di grandi romanzi dispersi del Novecento italiano, scrivo di un libro che devo ancora finire di leggere; si può? D'altronde: poteva mancare Giuseppe Berto in una rassegna così?Il protagonista Michele Rende, tratteggiato sulla figura di un vero brigante, è contadino poi partigiano nella Calabria delle rivolte rurali, sul finire della seconda guerra mondiale. «Un uomo che non lasciava incertezze intorno a sé», dice Nino, il ragazzo che dà voce al racconto, «l'uomo più perfettamente corrispondente ai miei ideali che io avessi mai incontrato». Rientra al paese, in congedo per la morte del padre, e la sua presenza crea subito fibrillazione. I giorni che odorano di bosco e di bestie, le notti da osteria e da focolare, s'incendiano. Accusato di aver ucciso il fidanzato dell'amante, Rende si darà alla macchia: il reduce dai nobili ideali passerà la linea della legalità con al fianco la sedotta Miliella, sorella del narratore, in 200 pagine fitte «d'avventura, d'amore e di morte». Verso il martirio.Io ero rimasto folgorato da Il male oscuro (Rizzoli, 1964), che di pagine ne inanella molte di più. Me lo ripetevano da tempo, «leggilo che è un libro per te», e io a un certo punto l'ho preso (ovviamente usato, su una bancarella) e me lo sono portato su un'isola e l'ho letto, e tutta quella vacanza di mare fu riempita dal male e dal bene di Berto, che in certe pagine andava in montagna dove gli mancavano le linee dritte, la perentorietà dell'orizzonte, del mare, al quale ancorare lo sguardo per superare il tunnel; il mare cui stavo di fronte e di fronte al quale lui si trasferì, a Capo Vaticano, in Calabria, costruendo una casa che guardava la Sicilia, «in conclusione questo potrebbe andar bene come luogo della mia vita e della mia morte».Scoprii un autore unico nel panorama italiano, e non solo, un autore che non somiglia a nessun altro, che nella disperazione mi faceva ridere, e pensare, che vomitava la sua nevrosi come alta letteratura. Che nella scrittura trovava la cura, così come l'avevo trovata io. Che negli incubi incontrava il salotto dei buoni, capitanato da Alberto Moravia a impersonare l'intellighenzia sinistrorsa che lo estromise, diciamo lo ripudiò. «È molto meglio che ciascuno riprenda la propria libertà e senza guardarsi né a destra né a sinistra punti dritto alla gloria come meglio gli riesce, per la madonna è ben questo che io farò», scrive sempre ne Il male oscuro. «Sebbene sia consapevole che la eterosessualità quasi costante delle varie opere che immagino di scrivere non mi porterà al successo».Al ritorno dalla mia vacanza, in transito da Trapani, in una libreria astrusa con dentro pochi libri nuovi e molti vecchi e una caterva di minuscole edizioni locali, ripescai un'edizione de Il cielo è rosso, il suo esordio Longanesi del 1946. È tutt'altra cosa, ma comunque ottima. Più tardi ancora, Neri Pozza ha avviato il lavoro che negli ultimi tempi ha riportato in libreria, oltre ai due testi citati, opere come La gloria e Anonimo veneziano. Spero che il programma continui. Questo Il brigante lo ristampò Rizzoli qualche anno fa, ma è già scomparso dai radar. Come scrive lo stesso Berto introducendo la riedizione Rusconi del 1974, è un testo che ha tentato la fortuna in più occasioni, «e non è detto che gli andrà bene nemmeno questa volta. Però non è neppur detto che gli andrà male: oggi esso incontra sulla sua strada lettori nuovi», da cui è lecito aspettarsi «giudizi meno aspri di quelli che ebbi quando uscì in prima edizione presso Einaudi nel 1951». Suo secondogenito, il libro venne tradotto e ben accolto all'estero, il Time Magazine lo definì «uno dei più belli e tragici romanzi che siano apparsi da anni, veramente un piccolo capolavoro», mentre in Italia «critici eminenti» si precipitarono a stroncarlo con «una solerzia perlomeno sospetta».Prendi «l'illustre Emilio Cecchi (…), ferito dal numero dei morti ammazzati che s'incontrano nel racconto, andò a scovarli uno ad uno, li mise in colonna e tirò le somme: troppi, in verità, e concluse che il romanzo era molto brutto». A distanza di anni Berto ironizza (contando i morti «perderemmo quasi tutto Shakespeare, e sarebbe un peccato»), ma sul momento accusò il colpo. Tentativo di entrare «in un movimento culturale chiamato neorealismo», fatto voto a un «socialismo elementare, utopico, scarso o del tutto privo di basi culturali ma in compenso entusiastico e pieno di certezze», Il brigante uscì quando il neorealismo era finito e il socialismo era diventato un'altra faccenda. Oggi, fatto lo storno delle magagne, poiché il testo «è pieno di squilibri, di ingenuità e di contraddizioni, delle quali devo per forza parlare io, visto che la critica, pur avendolo attaccato da quasi tutte le parti, non ha naturalmente trovato le parti dalle quali sarebbe stato giusto attaccarlo», resta una prova vibrante e godibile, epica, terragna, di grande spessore umano, nella lingua che «tende a dignità letteraria, addirittura a compostezza classica», e nella sua vena filosofica. Quella che Berto preferiva, tanto che a distanza pensò a «qualche abbondante taglio alla parte politica». Fu redento da una ragazza di 20 anni, sua figlia, e lasciò il romanzo così com'è. Nella speranza che certa ideologia potesse «suscitare nei giovani un almeno generico desiderio che gli uomini diventino migliori». E che un libro come questo diventasse «una testimonianza dell'ingenuità e degli errori della mia generazione, e della sua generosità. Noi non capivamo molto e facevamo speranza di ogni illusione».
Jose Mourinho (Getty Images)