2022-07-02
Il sultano pigliatutto (grazie a Biden) può tagliarci fuori anche dalla Libia
Erdogan ha ottenuto tutto ciò che voleva al summit Nato di Madrid. E l’arrendevolezza della Casa Bianca è un problema per l’Italia che deve frenare le mire della Turchia su Tripoli. Dove cresce l’influenza di Putin.Sono notizie preoccupanti quelle che arrivano dalla Libia. Mentre il Paese continua ad essere conteso tra due premier rivali, si sono arenati i negoziati tra il presidente della Camera dei rappresentanti, Aguila Saleh, e il capo dell’Alto consiglio di Stato, Khaled al-Mishri: negoziati che, tenutisi a Ginevra con la mediazione delle Nazioni unite, erano dedicati alle questioni costituzionali e all’organizzazione delle elezioni. «Nonostante i progressi nei negoziati di questa settimana tra i capi delle rispettive camere, permane il disaccordo sui requisiti di ammissibilità per i candidati alle prime elezioni presidenziali», ha dichiarato il consigliere speciale dell’Onu per la Libia, Stephanie Williams. Ora, questo stallo rischia di accentuare la tensione tra il governo di Abdul Hamid Dbeibah e quello di Fathi Bashagha. Tensione già esplosa tre settimane fa, quando si sono verificati degli scontri tra milizie a Tripoli. In tutto questo, la National oil corporation ha dichiarato lo stato di forza maggiore per i porti di Sidra e Ras Lanouf: i due più importanti depositi di stoccaggio petrolifero del Paese. Proprio ieri, Bloomberg News riportava di un drastico calo dell’export di petrolio libico rispetto all’anno scorso. Va da sé che questa situazione rappresenta un pericolo per l’Italia. Il nostro Paese avrebbe, infatti, estrema necessità di una stabilizzazione della Libia, per partecipare alla sua ricostruzione, incrementare l’approvvigionamento energetico e fronteggiare i flussi migratori. È in una simile ottica che questo giornale ha ripetutamente esortato Mario Draghi a chiedere agli Stati Uniti un netto rafforzamento del fianco meridionale della Nato e un ruolo di leadership per Roma all’interno di tale cornice. Il problema è che Ankara sta invece continuando a guadagnare terreno. In primis, lo scorso 21 giugno, il parlamento turco, su proposta di Tayyip Erdogan, ha esteso di altri 18 mesi la presenza delle proprie truppe in Libia. Un fattore, questo, che garantisce al sultano di mantenere una significativa influenza sul Paese nordafricano. In secondo luogo, segnali preoccupanti sono pervenuti anche dal recente summit Nato di Madrid: un summit in cui è emersa chiaramente la centralità del presidente turco, il quale ha ottenuto da Joe Biden tutto quello che aveva preteso, per ritirare il suo veto all’ingresso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza atlantica. Non solo i due Paesi scandinavi hanno dovuto accettare, ovviamente col semaforo verde americano, di revocare il loro embargo sulle armi alla Turchia e di cedere sulla questione curda. Ma la Casa Bianca ha anche confermato la disponibilità a fornire al sultano i jet F-16. Tra l’altro, come se non bastasse, il leader turco ha sottolineato che, qualora non si ritenesse soddisfatto del mantenimento degli impegni presi, potrebbe tornare a porre il veto su Stoccolma ed Helsinki. Una vittoria su tutta la linea, quella di Ankara, con il benestare della Casa Bianca. Eppure, ai tempi della campagna elettorale per le presidenziali americane, Biden aveva definito Erdogan un «autocrate» e criticato Donald Trump per aver abbandonato i curdi nel 2019. Al di là dell’ipocrisia, per capire questi paradossi è bene sottolineare che i circoli di politica estera a Washington sono divisi sul dossier turco. Da una parte, ci sono coloro che denunciano l’ambiguità e la spregiudicatezza di Erdogan come un pericolo. Dall’altra, c’è chi teme che, irritandolo, il sultano si sgancerà sempre di più dall’orbita americana: pertanto, ragiona chi sposa tale linea, è bene cercare di accontentarlo il più possibile. Sfortunatamente Biden fa parte di questa seconda scuola di pensiero. E il summit Nato di Madrid sta lì a dimostrarlo. Un problema grave per l’Italia, perché, secondo questa logica, l’inquilino della Casa Bianca prevedibilmente tenderà a evitare di mettersi contro Erdogan sul dossier libico. Il che significa che difficilmente Roma otterrà un concreto aiuto da Washington in Libia. È pur vero che a giorni si terrà un importante vertice Italia-Turchia. Resta però il fatto che, nel Mediterraneo, gli interessi di Ankara sono divergenti rispetto ai nostri. E, senza l’appoggio americano, è ben difficile che Roma possa fronteggiare adeguatamente le mire turche. Tra l’altro, l’arrendevolezza statunitense nei confronti del sultano rischia di rivelarsi un problema anche per il gasdotto Eastmed: un progetto che, dopo aver ottenuto l’ok di Trump, si è scontrato con la freddezza di Biden (che tiene, non a caso, conto delle remore di Ankara). Draghi, a cui gli agganci con l’attuale Casa Bianca non mancano, dovrebbe forse far presente con maggiore fermezza a Biden che questa linea soft verso la Turchia è rischiosa. In primis, l’appeasement non placherà mai Erdogan, ma lo spingerà anzi a rivendicazioni sempre più spregiudicate. In secondo luogo, va tenuto presente che, al netto di alcuni interessi divergenti, il sultano intrattiene un rapporto molto solido con Vladimir Putin. Quel Putin che mantiene un’influenza significativa sull’Est della Libia e che sta estendendo la sua longa manus sul Sahel: elemento, questo, che può consentirgli di mettere sotto pressione l’Ue tramite i flussi migratori. Il rischio è quindi che l’appeasement di Biden porti a una spartizione della Libia tra il sultano e lo zar, oltre a minare la compattezza dell’Alleanza atlantica e a compromettere la deterrenza occidentale nei confronti dell’asse sino-russo. Sono questi gli argomenti che Draghi dovrebbe sottoporre una buona volta al presidente americano, prima che sia troppo tardi. Per l’Italia e per la stessa Nato.
Sehrii Kuznietsov (Getty Images)