2025-11-13
Il sindacalista s’era inventato il raid fascista
Fabiano Mura, astro nascente della Cgil, aveva denunciato un’aggressione con tanto di saluti romani e skinhead rasati In piazza per lui scesero Salis, Landini e Orlando. Ma non era vero niente. E ora farà quattro mesi di servizi socialmente utili.Quella mattina del 15 aprile una notizia che sembrava uscita da un film di denuncia sociale aveva scosso Sestri Ponente. L’ex segretario genovese della Fillea Cgil, Fabiano Mura (in quel momento tra gli astri nascenti del sindacalismo locale e ancora in carica), aveva raccontato di essere stato aggredito da due estremisti di destra («uno con la testa rasata») mentre si recava su un cantiere per incontrare degli operai ai quali avrebbe dovuto parlare del referendum su lavoro e cittadinanza dell’8 e 9 giugno. Gli ingredienti suggestivi, a dieci giorni dal 25 aprile (e a un mese dalle urne referendarie), c’erano tutti: la tensione ideale, la ferita simbolica inflitta al mondo del lavoro, i saluti romani, gli insulti e pure la fuga disperata fino alla sede del sindacato e poi in ospedale (dove Mura rimediò un certificato con cinque giorni di prognosi). Una storia perfetta per titoli, cortei e indignazione di rito. Un racconto drammatico, tanto che la Cgil, con il supporto dell’Anpi genovese, organizzò in tutta fretta una manifestazione di solidarietà nel cuore di Sestri Ponente con bandiere e pugni chiusi, alla quale sentirono la necessità di prendere parte anche la sindaca del campo progressista Silvia Salis (all’epoca candidata), l’ex Guardasigilli Andrea Orlando e l’ex segretario della Cgil Sergio Cofferati. E, con loro, il procuratore aggiunto Francesco Pinto (ripreso dalle telecamere della TgR in pieno corteo), esponente storico di Magistratura democratica ed ex facente facente funzioni di capoufficio proprio a Genova (era il magistrato di turno la sera dell’assalto alla scuola Diaz, nel 2021 e pm dei procedimenti più importanti sui colletti bianchi). Insomma, la grande famiglia dell’antifascismo ligure era scesa in piazza compatta, senza che nessuno avesse ancora verificato se davvero Mura fosse stato vittima di un’aggressione fascista. Poi, pian piano, la sceneggiatura ha cominciato a sfilacciarsi. E come in ogni pellicola riuscita male, dopo il colpo di scena è arrivato il controcampo. Il protagonista, quello che denunciava il fascismo che stava rialzando la testa, si è ritrovato a fare i conti con una storia, la sua, che a conti fatti non stava in piedi. Gli investigatori della Digos, coordinati dal procuratore aggiunto Federico Manotti, hanno controllato le telecamere e il gps collegato all’assicurazione dell’auto. La prima crepa: gli orari non coincidevano. L’automobile di Mura era passata in località e momenti che non combaciavano con il racconto dell’aggressione dettagliato nella denuncia presentata dal sindacalista. L’auto con la quale Mura ha detto di essere uscito, si è poi accertato, alle 7:15, stando ai filmati, era parcheggiata in garage fino alle 7.45. Tempo che copriva ampiamente anche il momento dell’aggressione, indicata alle 7.30. Altre telecamere, poi, lo inquadrano in via San Giovanni d’Acri, nelle vicinanze della sede della Cgil, ma alle 8:15. Nessuna corsa, nessuna fuga e, soprattutto, nessun fascista alle calcagna. Gli investigatori sono poi passati ad approfondire il dettaglio più curioso: i volantini per il referendum che, secondo Mura, avevano scatenato la rabbia e la violenza dei due fascisti. Stando alla narrazione del sindacalista erano appiccicati sull’auto, motivo per il quale gli squadristi lo avevano preso di mira. Ma, analizzando le immagini, dei volantini sull’auto non c’era traccia. Né sui vetri, né sul cofano, né altrove. E perfino il cantiere indicato come il luogo che avrebbe dovuto raggiungere era evaporato. Gli operai? Ignoti. E, così, l’ex segretario, quando è stato convocato in Procura, ha scelto la via più dignitosa tra quelle rimaste: ammettere di aver inventato tutto. Fine della farsa. Ma con uno sviluppo giudiziario: un’iscrizione sul registro degli indagati per simulazione di reato. La notifica dell’avviso di chiusura delle indagini preliminari ha subito permesso al difensore di Mura, l’avvocato Giacomo Longo, di valutare le strade possibili: un probabile rinvio a giudizio con conseguente percorso dibattimentale, oppure, visto che la pena massima per l’accusa di simulazione di reato è di 3 anni, il tentativo di accedere all’istituto giuridico della messa alla prova. E ha giocato la seconda carta. L’altro giorno il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Genova, Carla Pastorini, ha concesso a Mura 4 mesi di lavori socialmente utili per lavori di pubblica assistenza, dopo aver verificato che il sindacalista aveva già effettuato una donazione a un ente benefico. Sono i passaggi necessari per l’estinzione dell’accusa. Niente processo, purché il percorso socialmente utile venga completato. Resta la figuraccia. I vertici nazionali della Cgil e perfino Maurizio Landini, all’epoca, in diretta televisiva da Giovanni Floris, con paroloni roboanti (ma avventati) alzarono un muro contro la nuova e preoccupante orda nera da fermare con urgenza. Mentre la Cgil locale, con la coda tra le gambe, dopo aver preso atto degli sviluppi investigativi e annunciato la sospensione di Mura dalla Fillea, la revoca del distacco sindacale e di ogni incarico, per nascondere l’amarezza da autogol, con una nota diffusa dall’ufficio stampa tentò una spericolata arrampicata dialettica: «Se le notizie saranno confermate dagli organismi inquirenti, la Cgil si riserva di tutelarsi nelle forme che valuterà più opportune e in tutti i modi possibili». Ora quelle notizie sono state confermate. Ma dopo le ultime evoluzioni giudiziarie il sindacato rosso tace. E il rosso, questa volta, non è quello della bandiera.
Nel riquadro, il chirurgo Ludwig Rehn (IStock)
Non c’era più tempo per il dottor Ludwig Rehn. Il paziente stava per morire dissanguato davanti ai suoi occhi. Era il 7 settembre 1896 e il medico tedesco era allora il primario di chirurgia dell’ospedale civile di Francoforte quando fu chiamato d’urgenza per un giovane giardiniere di 22 anni accoltellato nel pomeriggio e trovato da un passante soltanto ore più tardi in condizioni disperate. Arrivò di fronte al dottor Rehn solo dopo le 3 del mattino. Da questo fatto di cronaca, nascerà il primo intervento a cuore aperto della storia della medicina e della cardiochirurgia.
Il paziente presentava una ferita da taglio al quarto spazio intercostale, appariva pallido e febbricitante con tachicardia, polso debole, aritmia e grave affanno respiratorio (68 atti al minuto quando la norma sarebbe 18-20) aggravato dallo sviluppo di uno pneumotorace sinistro. Condizioni che la mattina successiva peggiorarono rapidamente.
Senza gli strumenti diagnostici odierni, localizzare il danno era estremamente difficile, se non impossibile. Il dottor Rehn riuscì tuttavia ad ipotizzare la posizione del danno mediante semplice auscultazione. La ferita aveva centrato il cuore. Senza esitare, decise di intervenire con un tamponamento cardiaco diretto, un’operazione mai provata precedentemente. Rehn praticò un’incisione di 14 cm all’altezza del quinto intercostale e scoprì la presenza di sangue scuro. Esplorò il pericardio con le mani, quindi lo aprì, esponendo per la prima volta nella storia della medicina un cuore attivo e pulsante, seppur gravemente compromesso e sanguinante. Tra i coaguli e l’emorragia Rehn individuò la ferita da taglio all’altezza del ventricolo destro. Il chirurgo operò una rapida sutura della ferita al cuore con un filo in seta, approfittando della fase di diastole prolungata a causa della sofferenza cardiaca. La sutura fu ripetuta tre volte fino a che l’emorragia si fermò del tutto e dopo un sussulto del cuore, questo riprese a battere più vigoroso e regolare. Prima di richiudere il torace, lavò il cuore ed il pericardio con soluzione idrosalina. Gli atti respiratori scesero repentinamente da 76 a 48, la febbre di conseguenza diminuì. Fu posto un drenaggio toracico che nel decorso postoperatorio rivelò una fase critica a causa di un’infezione, che Rehn riuscì tuttavia a controllare per l’efficacia del drenaggio stesso. Sei mesi dopo l’intervento il medico tedesco dichiarava: «Sono oggi nella fortunata posizione di potervi dichiarare che il paziente è ritornato in buona salute. Oggi è occupato in piccole attività lavorative, in quanto non gli ho al momento permesso nessuno sforzo fisico. Il paziente mostra ottime prospettive di conservazione di un buono stato di salute generale».
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