2020-12-29
Il siero più venerato del Natale non ci restituirà le nostre libertà
La medicina che doveva risolvere tutti i problemi è arrivata in Italia scortata dall'esercito tra grida di giubilo. Si trattava però di una messa in scena. E ora ci dicono: «Non è ancora finita». Il primo marzo del 1937, Dino Buzzati aveva già scritto tutto. Quel giorno uscì sulla Lettura uno dei suoi racconti più belli, Sette piani. Significativa coincidenza: il protagonista è un avvocato di nome Giuseppe Corte. Benché egli abbia «soltanto una leggerissima forma incipiente» di un morbo non specificato, gli viene consigliato di recarsi in una nota casa di cura che garantisce «un'eccezionale competenza nei medici e la più razionale ed efficace sistemazione d'impianti». Lì i pazienti sono divisi su sette piani: all'ultimo i meno gravi, al primo i moribondi. Corte viene ricoverato al settimo. Ma ecco che, prima con una scusa poi con l'altra, medici e infermieri lo trasferiscono sempre più in basso. Corte viene tenuto all'oscuro delle sue reali condizioni di salute. Gli ripetono che non ha niente, che è prossimo a essere dimesso. «Resista ancora un poco, altri 15 giorni...». Corte protesta, s'arrabbia, ma poi si rassegna: prende le sue cose e cambia stanza. Intanto il tempo trascorre, e lui scende sempre più in basso, dal settimo al primo piano. Le dimissioni - che fin dal primo giorno parevano dietro l'angolo - si rivelano un miraggio dai contorni sfocati, che infine svanisce del tutto. Certo, il Giuseppe di Buzzati è una vittima, mentre il Giuseppi che conosciamo ricopre ben altro ruolo. Per il resto, la nostra realtà non si discosta molto dalla finzione. È come se fossimo sottoposti a una stravagante forma di autoritarismo a puntate. Ci fanno balenare davanti agli occhi la luce, ma poi ci ripetono: «Un po' di pazienza, ancora 15 giorni...». E intanto ci spostano in un'altra camera. In queste ore ci fanno ammirare da lontano i contorni della terra promessa. Ecco, è arrivato il vaccino, il portentoso medicamento che ci condurrà là dove scorrono latte e miele! Le celebrazioni per la taumaturgica pozione hanno oscurato perfino il Natale: il Messia della Scienza è giunto nel fatidico «V Day». Si è fatto largo scortato dall'esercito tra le grida di giubilo di politici e commentatori. La salvezza in fiala, per voi e per tutti. La morte è stata vinta, dunque? L'attesa è finita? Manco per sogno. In realtà, si trattava di una messa in scena, perché le dosi promesse ieri non sono arrivate. E non è nemmeno l'aspetto più grottesco della faccenda. Ancora prima che il vaccino varcasse i nostri confini, infatti, Roberto Speranza aveva già svelato il trucco: possiamo scordarci di tirare un sospiro di sollievo. «La battaglia è lunga, dobbiamo resistere», ha detto il ministro della Salute. E ancora: «Per altri mesi serviranno misure non farmacologiche». Tradotto: mettiamoci il cuore in pace, il semaforo dovremo tenercelo ancora a lungo. La giornata dell'immunizzazione è stata uno spettacolo da telepredicatori americani. Qualche dose distribuita qui e là ad alcuni volonterosi adepti del culto sanitario, qualche furbastro di potere come Vincenzo De Luca pronto ad approfittarne con la scusa di diffondere il verbo. Poi un ampio corredo di interviste ai primi fortunati toccati dalla grazia: «Mi sono commosso», dice uno. «La scienza e la medicina sono le uniche cose, insieme con il senso civico, per uscire da questa pandemia», proclama l'altra. Gli editorialisti si genuflettono davanti al «vero primato della scienza». Immancabile, come ovvio, l'allarme per «i no vax», che si annidano ovunque, pronti a rovinare anche i giorni della festa. Solo che - dietro la fiera mediatica, i sorrisi smaglianti e e alte lodi alla nuova Dea Madre con quattro siringhe al posto delle braccia - resta la realtà quotidiana, il qui e ora. Se va bene (e le premesse non fanno ben sperare), raggiungeremo l'80% di copertura vaccinale in autunno, cioè fra circa nove mesi. E nell'attesa del ritorno all'Eden, la vita è grama. Da più parti ci viene ribadito che le percentuali dei contagi sono ancora troppo alte, e l'odore della nuova stretta si fa più intenso. Il 7 gennaio dovrebbero riaprire le scuole, ma mancano ancora strategie chiare sulla gestione dei trasporti, e non sono pochi a sostenere che si dovrà slittare il ritorno in classe. Incertezza totale anche sulla ripartenza dello sci, con i gestori delle piste che da giorni aspettano parole definitive dopo che il Cts ha bocciato le linee guida proposte dalle Regioni. Buio pure sulla ripresa delle attività sportive e sulla riapertura di palestre, piscine, cinema e teatri. Per farla breve: il paradiso può attendere, qui siamo ancora in pieno purgatorio (per non dire di peggio). Come se non bastasse, c'è la beffa internazionale. Domenica si è celebrata - per volontà delle Nazioni Unite - la surreale Giornata mondiale di preparazione alle epidemie. Sembra una presa in giro, visto che all'epidemia di Covid siamo arrivati senza uno straccio di piano pandemico. A completare il quadretto grottesco è arrivato Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore dell'Oms, a dichiarare che «quella del Covid non sarà l'ultima pandemia». Pensate che bello: vaccino o meno, presto o tardi la giostra ricomincerà daccapo. Il circo immunitario di queste ore, dunque, svolge la funzione di zuccherino. L'attesa messianica dei prodigi de «La Scienza» serve a farci star buoni ancora per un po', ad addolcirci il palato per nascondere l'amarezza che impasta la lingua. È la strategia antica del bastone e della carota, ma in una versione nuova: il bastone sulla schiena e la carota là dove fa più male.
Francesco Nicodemo (Imagoeconomica)
(Ansa)
L'ad di Cassa Depositi e Prestiti: «Intesa con Confindustria per far crescere le imprese italiane, anche le più piccole e anche all'estero». Presentato il roadshow per illustrare le opportunità di sostegno.
Carlo Nordio, Matteo Piantedosi, Alfredo Mantovano (Ansa)