2020-11-08
Il renzismo terminale va in diretta social
L'ex premier si sfoga su Facebook e dà la sua versione dei fatti. Ed ecco che i suoi problemi giudiziari diventano un alibi politico: «Senza quell'indagine avremmo avuto il 10%, siamo stati danneggiati». Il flop di Italia viva, insomma, è colpa dei magistrati.Prima il silenzio, poi quelle due parole di rito, affidate per giunta ad una prima dichiarazione declinata in forma anonima: «Siamo sorpresi e increduli». Poi la rabbia, la contestazione dei magistrati, l'invettiva che prende corpo in diretta Facebook, con uno schizzo di sdegno e uno di bile: «L'inchiesta su Open è stata un danno pazzesco per noi di Italia viva!». Ma per capire questo percorso apparentemente schizofrenico di Matteo Renzi bisogna riavvolgere il nastro di un pomeriggio lungo e difficile, quello di ieri. In partenza doveva essere la giornata della grande resurrezione mediatica, virtuale, ma simbolicamente pregnante. E tutto era già stato predisposto nel dettaglio, con la consueta attenzione alla coreografia: la ritualità, lo sfondo monumentale di Roma, una relazione piena di aspirazioni epocali, il ripescaggio delle vecchie photo-opportunity con Joe Biden, nel giorno in cui diventava presidente. Tutto sembrava perfetto per raccontare al mondo che con il suo solenne discorso di ieri, Matteo Renzi stava ancora una volta tornando in pista dopo essere risalito con le unghie dall'abisso. Ma poi, proprio nelle ore più delicate, la notizia anticipata dalla Verità prende corpo e si materializza sull'assemblea di Italia viva, diventa ineludibile e certa, come una nube tossica, come un brutto spettro. Infine si sintetizza in due parole che riportano a terra l'uomo di Rignano, e subito dopo lo trascinano nel fango di una nuova odissea giudiziaria: «Finanziamento illecito attraverso la Fondazione Open». Con questa accusa l'ex premier e lo Stato maggiore del partito si ritrovano indagati. Ed ecco che in un pugno di minuti quello scenario di due basiliche che avrebbe dovuto essere la cornice coreografica di una resurrezione, è diventato improvvisamente il teatro di una anabasi fatale. Il proposito del silenzio si è dissolto. In un'altra parte di questo giornale troverete i dettagli dell'ipotesi accusatoria, che, secondo i due pm Luca Turco e Antonio Anastasi, convinti che dalla fondazione Open siamo arrivati alla corrente renziana 7.2 milioni di euro di finanziamenti, in violazione della legge sul finanziamento ai partiti. La stessa successione delle reazioni, nelle parole del principale degli indagati, rende bene l'idea di questa precipitazione. Prima quelle due parole laconiche e impersonali, quei due aggettivi - per giunta declinati al plurale - e la promessa di consegnare la materia agli avvocati, per non alimentare polemiche. Poi con il passare dei minuti cresce la rabbia, l'onda lunga dei social, e allora Renzi non riesce a trattenersi, e dice di più, lasciandosi andare al dispetto, e non senza evidenti imprecisioni: «Quell'inchiesta è stata un danno pazzesco per noi, chi avrebbe voluto finanziarci non ha avuto il coraggio di farlo, molti non sono venuti nel nostro partito». Pausa. Ma dopo poche parole l'inchiesta è già divenuta, nel discorso dell'ex premier, un alibi politico. Ed è così che la breve storia politica di un partito rachitico diventa prodigiosamente, nelle parole di Renzi, l'apologia di una persecuzione politica: «Un anno fa dopo la Leopolda eravamo partiti alla grande, stavamo puntando al 10% nei sondaggi e avevamo centinaia di migliaia di euro di finanziamento, poi cosa è successo? Uno scandalo, o meglio un presunto scandalo», spiega Renzi, «un pm di Firenze manda 300 finanzieri a casa di 50 persone per bene per chiedere se hanno contribuito alla Leopolda o alla fondazione Open: e certo che hanno contribuito, tutto alla luce del sole. Quella vicenda ci ha causato un danno pazzesco: i sondaggi hanno cessato di crescere, i finanziamenti di arrivare, un danno enorme anche alla nostra capacità attrattiva: molte persone non sono passate da noi perché avevano paura, ed è legittimo». La celebrazione di una possibile rinascita cede il passo ad un malinconico ed autogiustificativo de profundis: «Da quei pm di Firenze che hanno svegliato con 300 finanzieri i nostri finanziatori di prima mattina mi sarei aspettato una lettera di scuse e invece stamani arriva una convocazione in procura a tutto il cda di Open. Tra l'altro con un assurdo giuridico, visto e considerato che la sentenza della Cassazione di pochi giorni fa», e qui Renzi confonde, forse volutamente, «andava in tutt'altra direzione». Ma in realtà l'ex premier sa benissimo che il pronunciamento della Corte che ha ricordato ieri, non era stato sulla legittimità dell'intera inchiesta, ma solo sul dettaglio di una procedura di sequestro. Poi di nuovo il tentativo di archiviare: «Se ne occuperanno i nostri legali, la dottoressa Severino per Boschi, il dottor Coppo per Lotti, il dottor Caiazza per il sottoscritto. Credo», annuncia Renzi, «che ci siano vari modi per replicare a quello che sembra un assurdo giuridico. A chi cerca la battaglia e la visibilità mediatica, bisogna rispondere con il diritto e pensiamo che la verità sia nella sentenza della Cassazione». Invece, ancora una volta, dietro il proposito di calma olimpica e dell'atarassia, si nasconde l'ultimo schizzo di bile contro questo giornale: «Loro», dice Renzi, «passano le informazioni alla Verità mentre noi pensaimo che la verità l'abbia detta la Cassazione. Nel caso il pm di Firenze non abbia capito, sarà compito degli avvocati dare le spiegazioni di diritto. Purtroppo», conclude l'uomo di Rignano, «l'ansia di visibilità di qualcuno rischia di nuocere anche agli altri magistrati e sono in tanti a fare il loro lavoro onestamente. Noi le sentenze della Cassazione le leggiamo e crediamo anche di capirle». Confondere volutamente le carte, dedicarsi a tracciare scenari epocali, accusare gli altri - fantastico - di ricercare visibilità. Il renzismo crepuscolare stasera è tutto qui: una terrazza di ambizioni affacciate sulla bellezza di una città eterna, e un grumo acido di livore. Un equivoco e un anatema agitati in modo teatrale per rispondere ai duri fatti di una inchiesta scomoda.