
Marius Oprea, il «detective» dei crimini di Nicolae Ceausescu: «Ho contato 670.764 vittime. I responsabili? Sono rimasti quasi tutti al loro posto».«Il comunismo non è morto in Romania dopo 30 anni dalla fine del regime di Ceausescu. La mentalità e la cultura politica sono rimaste sostanzialmente le stesse perché tutti (o quasi) i dirigenti del partito e delle istituzioni del regime sono rimasti al loro posto, quando non hanno fatto carriera». In altre parole, la democrazia, la sburocratizzazione degli apparati pubblici, il pluralismo sono ancora concetti astratti e comunque irraggiungibili modelli occidentali. Tutto questo emerge da una lunga intervista a Marius Oprea, 54 anni, archeologo, presidente dell'Istituto per la ricerca dei crimini del comunismo. Oprea era un dissidente ai tempi del regime, ma già all'epoca aveva trovato il coraggio di laurearsi con una tesi sulla potente organizzazione della polizia politica, la Securitate, rinforzata proprio da Ceausescu. Ora lo storico è stato definito dai giornali romeni «il cacciatore dei securisti», perché così i romeni chiamavano gli agenti della polizia segreta. E quanti erano questi «agenti per la sicurezza» di assoluta fede comunista? «La Securitate aveva un autentico esercito di informatori: 136.000 addetti, su un totale di 400.000 poliziotti e funzionari; solo gli ufficiali erano 15.000. Controllavano tutto e tutti, nei luoghi di lavoro, nei paesini più sperduti, nelle città, nelle case contadine, nei palazzi affollati di famiglie». Come in tutti i regimi totalitari. Basta ricordarsi Le vite degli altri, il film sulla polizia politica della Germania Est.«Le critiche al presidente non erano consentite: si rischiava di finire in carcere o in manicomio. Ceausescu ripeteva sempre: “Solo un pazzo non ama il comunismo". I più “pericolosi", per il regime, venivano inviati in un penitenziario della Transilvania. Ad Ajud abbiamo trovato nei registri i nomi di 689 prigionieri politici arrestati tra il 1965 e il 1989».Molti cittadini non trovavano rifugio nell'emigrazione?«Sono stati centinaia di migliaia i romeni fuggiti in Occidente, ma non era facile uscire: le frontiere erano sigillate. Solo negli ultimi sei mesi del regime comunista oltre 50.000 romeni hanno cercato di varcare il confine occidentale. Chi non riusciva veniva condannato al carcere duro, i meno fortunati venivano uccisi dalle guardie di frontiera».Parliamo delle vittime del comunismo, anche perché non vi sono fonti univoche.«Sono anni che ci proviamo. Ma siamo stati sempre ostacolati, in mille modi, dalle autorità e soprattutto da chi aveva ruoli importanti nel regime».Vi sono stati anche attestati di solidarietà. Il premio Nobel per la letteratura, Herta Müller, ha auspicato pubblicamente che lei possa continuare la sua opera «sui crimini del comunismo» e «contro i residui del totalitarismo». Sono sostegni significativi.«Molto importanti. Sul numero delle vittime vorrei precisare che nei primi dieci anni del regime si sono registrati oltre 10.000 morti. Cittadini che non condividevano le politiche economiche del governo, criticavano le confische delle terre ai contadini, la nazionalizzazione dell'industria nel 1948, dissentivano pubblicamente dalle decisioni del Comitato centrale del partito comunista e del governo».Ci furono rivolte armate? «Sì, vi fu anche una resistenza al comunismo, sulle montagne».Ma non se ne è mai parlato.«La censura era molto rigida. Furono molte migliaia i romeni coraggiosi che andarono in montagna a combattere contro la Securitate e l'esercito. Le lotte partigiane ebbero termine nel 1956, l'anno della rivolta popolare ungherese e della repressione sovietica, quando il regime di Ceausescu impiegò un gran numero di forze armate per liquidare la ribellione interna. Nello stesso tempo la Securitate attuò una campagna di repressione contro i potenziali contestatori del regime: sino al 1964 furono migliaia gli arrestati tradotti nelle carceri e nei lager, definiti “campi di lavoro". Abbiamo registrato 640.764 vittime, ma sicuramente sono state molte di più».Che fine hanno fatto tutti questi detenuti? «Dalle nostre ricerche negli archivi della Securitate è risultato che un quarto dei prigionieri è morto in carcere o nei campi di lavoro, mentre la grande maggioranza dei prigionieri liberati non è riuscita a sopravvivere negli anni successivi in conseguenza delle torture subite. Abbiamo comunque stimato una cifra di 250-300.000 persone finite davanti ai plotoni di esecuzione nei primi due decenni del regime comunista».E negli anni successivi col «Conducator» al potere? «Con l'arrivo al potere di Nicolae Ceausescu venne modificata profondamente la strategia della repressione del dissenso. Ceausescu ripeteva sempre: “Non esistono prigionieri politici nel nostro Paese". Ovviamente non era vero ma era l'immagine che si voleva accreditare all'estero. In realtà, il regime cercava di controllare perfino i pensieri delle persone attraverso la politica culturale e soprattutto con una tecnologia artigianale ma efficace (telefoni, microfoni nelle case, spionaggio dei vicini, eccetera) per reprimere il dissenso in via preventiva».È stato scritto che la rivoluzione romena è stata alimentata da Mosca e sostenuta anche da altri paesi stranieri (Usa, Germania, Ungheria, eccetera). Che cosa risulta dalle sue ricerche? «La rivoluzione è iniziata a Timisoara, vicino al confine occidentale, il 17 dicembre 1989. La popolazione è stata sicuramente influenzata dalle trasmissioni delle tv ungheresi e jugoslave, che trasmettevano ininterrottamente programmi sulla democrazia e la libertà conquistate in quei Paesi, dopo il crollo del muro di Berlino. Le rivolte popolari si estesero in altre città della Transilvania. A quel punto Ceausescu, mal consigliato dai fedelissimi, decise di promuovere una grande manifestazione a Bucarest di sostegno al regime. Si rivelò un boomerang: la gente si rivoltò e non è vero che vi sia stata una partecipazione straniera. I confini del Paese erano chiusi per impedire a eventuali soldati o agenti nemici di entrare, ma soprattutto per bloccare la fuga di cittadini romeni all'estero».Lei sostiene quindi che non vi furono coinvolgimenti del Cremlino e di altri Paesi nel crollo del regime? «Non ci risulta da tutte le fonti che abbiamo consultato. In ogni caso, se interferenze vi sono state, non furono determinanti. La gente chiedeva migliori condizioni di vita e soprattutto invocava la libertà. Con la fuga dei coniugi Ceausescu vi fu una grande esplosione di gioia, tutti capirono che era quella la grande occasione di liberazione».Ma quale fu il prezzo di sangue? All'inizio si parlò di migliaia di morti per le strade di Timisoara. Ma è stato accertato poi che si trattava di invenzioni mediatiche per influenzare la popolazione.«In realtà le vittime furono poco più di mille (ufficialmente 1.124, ndr), fra il 22 e il 25 dicembre 1989, quasi dieci volte di più di quelle provocate dalla repressione della polizia e dell'esercito durante le manifestazioni antiregime».Si è parlato anche di immense ricchezze accumulate dalla famiglia Ceausescu: che cosa c'è di vero? «Non sono mai state calcolate cifre esatte, forse perché vi sono state troppe complicità politiche. È noto però che grandi quantità di armi, vendute nei Paesi dell'Oriente e in Africa, facevano capo a società, con sede a Vienna, gestite da uno dei fratelli del dittatore, Marin Ceausescu. Questo signore si occupava anche di emigrazione a pagamento di cittadini ebrei e di romeni di origine tedesca. Una vera e propria tratta degli schiavi».Che fine ha fatto questo gentiluomo? È stato arrestato? «Ufficialmente si è suicidato il 28 dicembre 1989. Ma, dopo una serie di ricerche, ho potuto verificare che era stato ucciso, anche per impedire che fornisse spiegazioni per accedere ai conti segreti delle diverse banche, dove erano state depositate le ricchezze accumulate dai traffici illegali».Dove sono finiti quei tesori nascosti? «Chi ha avuto accesso a quelle ingenti riserve monetarie ha potuto interferire nella vita politica del Paese. A conferma che il comunismo non è completamente scomparso, piuttosto si è “privatizzato". E questo significa anche che, dopo 30 anni dalla fine del regime, i conti col passato non sono stati ancora fatti».Lo confermano anche la sopravvivenza e la continuità del sistema di potere istituzionale?«L'élite che ha guidato la Romania negli ultimi tre decenni è l'emanazione diretta del sistema comunista. Il comunismo è continuato a sopravvivere come mentalità, cultura, comportamenti. Durante la presidenza di Ion Iliescu non si è mai parlato dei crimini commessi dal regime comunista».E lei non li ha denunciati? «Ci ho provato. Mi è stato impedito ogni volta. Sono stato sottoposto a innumerevoli procedimenti legali. Non ho avuto condanne solo perché sono riuscito a dimostrare, con prove concrete, le responsabilità della polizia politica. Ma non è cessata la persecuzione nei miei confronti. Nel 2007 mia moglie (in parte di origine tedesca) e mio figlio, sono stati costretti a vivere in Germania, protetti dalla polizia. Mia moglie ha subito più aggressioni, con la minaccia del rapimento di mio figlio, per impedirmi il lavoro di ricerca. Nel 2005 sono stato nominato consigliere del primo ministro, ottenendo così il “via libera" alla creazione dell'Istituto, che ora dirigo con la collaborazione di trenta archeologi, medici legali e altri esperti». E che cosa va ricercando in modo particolare?«Le vittime del regime. È una ricerca difficile nei boschi, nelle montagne, in luoghi sperduti. Il 70% delle vittime è stato seppellito in campagna. Sono le tombe dei partigiani massacrati in montagna, ma anche di torturati, di sospettati di attività antiregime. Ora queste vittime avranno dopo molti anni una tomba, con una croce e un nome, dove potranno pregare le loro famiglie».Ma non si dovrebbero denunciare le responsabilità di questi crimini contro l'umanità alla magistratura e alla Corte penale internazionale?«Credo sia troppo tardi per istituire un Tribunale penale internazionale. Ma ne stiamo discutendo. La maggior parte però degli alti ufficiali della Securitate sono morti. Del resto non sta accadendo qualcosa del genere anche negli altri Paesi ex comunisti?».Alla fine, non ha pagato e non pagherà nessuno? Lei parla di 640.762 vittime, ma secondo altri documenti, ancora in fase di analisi, si toccherebbe quota due milioni di persone perseguitate a morte, per mano diretta o indiretta del regime comunista. «I processi non ci sono stati. Pensi che con tutti i casi di persecuzione nei confronti di innocenti vi sono stati solo due casi di direttori di “campi di lavoro" conclusi con condanne. Sono comunque convinto che non sia mai troppo tardi per stabilire le responsabilità di chi ha fatto così tante vittime, per la verità storica. Andremo avanti. Speriamo solo di non essere fermati».Forse è anche per questo timore che Oprea non ha voluto rispondere alla domanda sul processo farsa e la frettolosa fucilazione di Elena e Nicolae Ceausescu. Un futuro Tribunale internazionale dovrebbe occuparsi anche di questo tragico finale barbarico, perché anche i criminali hanno diritto a un processo vero.
Francobollo sovietico commemorativo delle missioni Mars del 1971 (Getty Images)
Nel 1971 la sonda sovietica fu il primo oggetto terrestre a toccare il suolo di Marte. Voleva essere la risposta alla conquista americana della Luna, ma si guastò dopo soli 20 secondi. Riuscì tuttavia ad inviare la prima immagine del suolo marziano, anche se buia e sfocata.
Dopo il 20 luglio 1969 gli americani furono considerati universalmente come i vincitori della corsa allo spazio, quella «space race» che portò l’Uomo sulla Luna e che fu uno dei «fronti» principali della Guerra fredda. I sovietici, consapevoli del vantaggio della Nasa sulle missioni lunari, pianificarono un programma segreto che avrebbe dovuto superare la conquista del satellite terrestre.
Mosca pareva in vantaggio alla fine degli anni Cinquanta, quando lo «Sputnik» portò per la prima volta l’astronauta sovietico Yuri Gagarin in orbita. Nel decennio successivo, tuttavia, le missioni «Apollo» evidenziarono il sorpasso di Washington su Mosca, al quale i sovietici risposero con un programma all’epoca tecnologicamente difficilissimo se non impossibile: la conquista del «pianeta rosso».
Il programma iniziò nel 1960, vale a dire un anno prima del lancio del progetto «Gemini» da parte della Nasa, che sarebbe poi evoluto nelle missioni Apollo. Dalla base di Baikonur in Kazakhistan partiranno tutte le sonde dirette verso Marte, per un totale di 9 lanci dal 1960 al 1973. I primi tentativi furono del tutto fallimentari. Le sonde della prima generazione «Marshnik» non raggiunsero mai l’orbita terrestre, esplodendo poco dopo il lancio. La prima a raggiungere l’orbita fu la Mars 1 lanciata nel 1962, che perse i contatti con la base terrestre in Crimea quando aveva percorso oltre 100 milioni di chilometri, inviando preziosi dati sull’atmosfera interplanetaria. Nel 1963 sorvolò Marte per poi perdersi in un’orbita eliocentrica. Fino al 1969 i lanci successivi furono caratterizzati dall’insuccesso, causato principalmente da lanci errati e esplosioni in volo. Nel 1971 la sonda Mars 2 fu la prima sonda terrestre a raggiungere la superficie del pianeta rosso, anche se si schiantò in fase di atterraggio. Il primo successo (ancorché parziale) fu raggiunto da Mars 3, lanciato il 28 maggio 1971 da Baikonur. La sonda era costituita da un orbiter (che avrebbe compiuto orbitazioni attorno a Marte) e da un Lander, modulo che avrebbe dovuto compiere l’atterraggio sulla superficie del pianeta liberando il Rover Prop-M che avrebbe dovuto esplorare il terreno e l’atmosfera marziani. Il viaggio durò circa sei mesi, durante i quali Mars 3 inviò in Urss preziosi dati. Atterrò su Marte senza danni il 2 dicembre 1971. Il successo tuttavia fu vanificato dalla brusca interruzione delle trasmissioni con la terra dopo soli 20 secondi a causa, secondo le ipotesi più accreditate, dell’effetto di una violenta tempesta marziana che danneggiò l’equipaggiamento di bordo. Solo un’immagine buia e sfocata fu tutto quello che i sovietici ebbero dall’attività di Mars 3. L’orbiter invece proseguì la sua missione continuando l’invio di dati e immagini, dalle quali fu possibile identificare la superficie montagnosa del pianeta e la composizione della sua atmosfera, fino al 22 agosto 1972.
Sui giornali occidentali furono riportate poche notizie, imprecise e incomplete a causa della difficoltà di reperire notizie oltre la Cortina di ferro così la certezza dell’atterraggio di Mars 3 arrivò solamente dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Gli americani ripresero le redini del successo anche su Marte, e nel 1976 la sonda Viking atterrò sul pianeta rosso. L’Urss abbandonò invece le missioni Mars nel 1973 a causa degli elevatissimi costi e della scarsa influenza sull’opinione pubblica, avviandosi verso la lunga e sanguinosa guerra in Afghanistan alla fine del decennio.
Continua a leggereRiduci
Il presidente torna dal giro in Francia, Grecia e Spagna con altri missili, caccia, radar, fondi energetici. Festeggiano i produttori di armi e gli Stati: dopo gli Usa, la Francia è la seconda nazione per export globale.
Il recente tour diplomatico di Volodymyr Zelensky tra Atene, Parigi e Madrid ha mostrato, più che mai, come il sostegno all’Ucraina sia divenuto anche una vetrina privilegiata per l’industria bellica europea. Missili antiaerei, caccia di nuova generazione, radar modernizzati, fondi energetici e contratti pluriennali: ciò che appare come normale cooperazione militare è in realtà la struttura portante di un enorme mercato che non conosce pause. La Grecia garantirà oltre mezzo miliardo di euro in forniture e gas, definendosi «hub energetico» della regione. La Francia consegnerà 100 Rafale F4, sistemi Samp-T e nuove armi guidate, con un ulteriore pacchetto entro fine anno. La Spagna aggiungerà circa 500 milioni tra programmi Purl e Safe, includendo missili Iris-T e aiuti emergenziali. Una catena di accordi che rivela l’intreccio sempre più solido tra geopolitica e fatturati industriali. Secondo il SIPRI, le importazioni europee di sistemi militari pesanti sono aumentate del 155% tra il 2015-19 e il 2020-24.
Imagoeconomica
Altoforno 1 sequestrato dopo un rogo frutto però di valutazioni inesatte, non di carenze all’impianto. Intanto 4.550 operai in Cig.
La crisi dell’ex Ilva di Taranto dilaga nelle piazze e fra i palazzi della politica, con i sindacati in mobilitazione. Tutto nasce dalla chiusura dovuta al sequestro probatorio dell’altoforno 1 del sito pugliese dopo un incendio scoppiato il 7 maggio. Mesi e mesi di stop produttivo che hanno costretto Acciaierie d’Italia, d’accordo con il governo, a portare da 3.000 a 4.450 i lavoratori in cassa integrazione, dato che l’altoforno 2 è in manutenzione in vista di una futura produzione di acciaio green, e a produrre è rimasto solamente l’altoforno 4. In oltre sei mesi non sono stati prodotti 1,5 milioni di tonnellate di acciaio. Una botta per l’ex Ilva ma in generale per la siderurgia italiana.
2025-11-20
Mondiali 2026, il cammino dell'Italia: Irlanda del Nord in semifinale e Galles o Bosnia in finale
True
Getty Images
Gli azzurri affronteranno in casa l’Irlanda del Nord nella semifinale playoff del 26 marzo, con eventuale finale in trasferta contro Galles o Bosnia. A Zurigo definiti percorso e accoppiamenti per gli spareggi che assegnano gli ultimi posti al Mondiale 2026.





