2021-01-21
Il programma di Biden: cancellare Donald
Il dem invoca l’unità, ma i suoi primi passi sembrano una resa dei conti col predecessore. Dalle prossime ore saranno smantellate le principali politiche del tycoon: gli Usa rientreranno negli accordi di Parigi e nell’Oms, stop al Muslim ban e al muro al confineUn pacificatore. Così Joe Biden ha scelto di presentarsi ieri a Washington, con il discorso che ha pronunciato in occasione della cerimonia del suo insediamento alla Casa Bianca. Il quarantaseiesimo presidente degli Stati Uniti ha infatti affermato: «Oggi, in questo giorno di gennaio, tutta la mia anima è in questo: riunire l’America, unire il nostro popolo, unire la nostra nazione». «Lotterò duramente», ha proseguito, «per coloro che non mi hanno sostenuto come per quelli che lo hanno fatto». «Uniamoci per combattere i nemici che affrontiamo. Rabbia, risentimento e odio, estremismo, illegalità, violenza, malattie, disoccupazione e disperazione. Con l’unità possiamo fare grandi cose, cose importanti», ha aggiunto. Insomma, è sull’unità che il neo presidente ha voluto puntare: l’unità con cui ha dichiarato di voler superare la crisi istituzionale in cui, da molto tempo ormai, gli Stati Uniti sono piombati. È del resto in questo senso che Biden è stato ieri da più parti celebrato. Eppure la situazione rischia di essere un po’ più complessa (e tortuosa) di come molti tendono a presentarla. Perché, a ben vedere, è ancora tutto da dimostrare che l’unità nazionale sia veramente ciò che il neo presidente e il Partito democratico stiano perseguendo. In primis, ricordiamo che, appena pochi giorni fa, Biden ha condannato senz’appello i quattro anni di governo del suo predecessore, considerando i gravi fatti dell’Epifania come una ineluttabile conseguenza del trumpismo. E, in tal senso, il neo presidente è già passato dalle parole ai fatti. Secondo quanto riferito dai media, firmerà infatti già in queste ore una serie di ordini esecutivi volti a smantellare le politiche del suo predecessore. In particolare, Biden mira a far rientrare Washington negli accordi di Parigi sul clima (con relativo apprezzamento di Macron), a bloccare l’abbandono americano dell’Organizzazione mondiale della sanità, ad abolire le restrizioni sull’ingresso nel territorio statunitense imposte ai cittadini di alcuni Stati a maggioranza musulmana considerati a rischio. Inoltre, verrà di fatto bloccata la costruzione del muro al confine meridionale. In tutto questo, il nuovo inquilino della Casa Bianca ha intenzione di proporre al Congresso una riforma complessiva dell’immigrazione. È chiaro che, con queste mosse, Biden voglia dare un segnale di netta discontinuità rispetto a Trump: un segnale volto a rassicurare l’ala più dura del suo stesso partito e i settori intransigenti della propria base elettorale. Ora, qualcuno potrebbe sostenere che è un diritto per un presidente agire in contraddizione con il suo predecessore. Ed infatti è così. Ma attenzione: qui non si discute sulla legittimità, ma sull’opportunità politica di un simile atteggiamento. Perché, davanti a una simile linea, non è affatto chiaro se l’intento sia quello di ricostruire autenticamente l’unità nazionale oppure quello di perseguire una resa dei conti a livello politico. Sono infatti diverse le cose che non tornano. In primis, Biden - che ha sempre promesso in campagna elettorale un approccio severo nei confronti della Cina - rientra adesso ipso facto nell’Oms, quando notoriamente il suo predecessore ne uscì dopo aver constatato che l’organizzazione subisce una considerevole influenza politica da parte di Pechino. Anche quindi comprendendo il desiderio di rientrarvi, non sarebbe stato il caso che la nuova amministrazione americana si fosse prima assicurata che questa (innegabile) influenza venisse arginata? Veniamo poi all’immigrazione. Nel gennaio 2019, Trump avanzò una proposta di compromesso abbastanza equo ai democratici: fondi per costruire il muro al confine col Messico in cambio di protezione legale per alcune quote di immigrati irregolari. L’Asinello respinse al mittente l’idea. E adesso rincara la dose, con Biden che vuole bloccare il muro. Quello stesso Biden che tuttavia, da senatore, votò per il Security Fence Act, una legge del 2006 che consentiva la realizzazione di 700 miglia di recinzione al confine meridionale (legge votata anche da Hillary Clinton e Barack Obama). Insomma, anziché agire in vista dell’unità e dell’interesse nazionale, si scorge un «vago» sospetto di partigianeria politica. Anche perché, almeno finora, il neo presidente non si è espresso sul secondo processo di impeachment in corso contro Trump: un procedimento che (al di là dei dubbi di costituzionalità, visto che è ormai diretto contro un privato cittadino) politicamente non farà che gettare ulteriore benzina sul fuoco. E non si capisce dove sia l’unità nazionale in tutto questo. Il punto è che, così facendo, Biden mette a rischio anche sé stesso. È vero: il neo presidente potrà contare per almeno due anni su un Congresso in mano ai dem. Ma attenzione. I numeri sono risicati (soprattutto al Senato). E ricordiamo che Clinton, Bush jr, Obama e Trump hanno spesso riscontrato forti difficoltà nell’attuare le proprie agende programmatiche, anche nelle fasi in cui governavano con un Congresso «amico». Parlare di unità e comportarsi poi in modo opposto rischia di impedire a Biden di avere ampi numeri parlamentari e di far così naufragare le sue proposte politiche (a partire dalla suddetta riforma dell’immigrazione). Infine attenzione anche allo scollamento sociale. L’inaugurazione presidenziale di ieri, che ha trovato il suo acme nei giuramenti di Biden e Kamala Harris, è stata la plastica rappresentazione del trionfo dell’establishment di Washington: l’élite politica (bipartisan) della capitale, che -nonostante l’espressione un po’ assonnata di Bill Clinton- si autocompiaceva sulle note glamour di Lady Gaga e Jennifer Lopez, convinta di aver archiviato nello scantinato della storia il «golpista» biondo. Non capendo, o fingendo di non capire, che Trump è stato un effetto e non una causa. Che le ragioni strutturali, sociali ed economiche che hanno prodotto il trumpismo sono ancora lì. E che, piacciano o meno, non possono essere nascoste semplicisticamente sotto il tappeto. Eppure - durante la cerimonia d’insediamento di ieri - più che al Campidoglio, sembrava di essere a Versailles.