2018-12-01
Il presidente sogna di fare le scarpe a Di Maio
La sindrome di Montecitorio ha colpito ancora. Questa volta a rimanerne vittima è il presidente Roberto Fico, ultimo inquilino della Camera. Sono passati appena sette mesi dal suo insediamento sulla seggiola più alta del secondo ramo del Parlamento, ma poco più di 200 giorni sono bastati per consolidare la sua immagine di leader dell'opposizione. Un po' come accadde a Gianfranco Fini e, prima dell'ex capo di An, a Fausto Bertinotti e, negli anni precedenti, a Pier Ferdinando Casini e Irene Pivetti, alla terza carica dello Stato sta stretto il ruolo di garante dello svolgimento dei lavori d'aula. Dare la parola ora a questo ora a quello, vigilare sul corretto andamento delle dinamiche parlamentari, presenziare alle cerimonie e agli appuntamenti istituzionali, evidentemente è ritenuto un lavoro troppo noioso per chi ambiva a un incarico da primo attore. Insomma, Fico non ci sta a farsi imbalsamare sullo scranno di Montecitorio e scalpita per riprendersi la scena. Fin qui lo avevamo capito da certe sue uscite poco in linea con la funzione a lui assegnata (e ovviamente accettata). A giugno, poco dopo essere stato fatto atterrare su Montecitorio, quando il governo stava muovendo i suoi primi passi, Fico non si risparmiò un'uscita contro il ministro dell'Interno, criticando Matteo Salvini per l'annunciata decisione di chiudere i porti ai migranti. Manco fosse compito suo fare le pulci all'esecutivo, il presidente della Camera ci tenne a far sapere che gli sbarchi non potevano essere vietati, dicendo dunque il contrario di quel che sosteneva il suo alleato di maggioranza. Di frecciate ne sono state poi lanciate altre, quasi tutte nella stessa direzione, cioè contro il capo della Lega. Appena c'è un'occasione pubblica, una cerimonia da presiedere oppure un'intervista tv da rilasciare, il numero uno di Montecitorio non si tira indietro, sia che si tratti di migranti sia che si tratti di misure della Finanziaria, come per esempio il condono.L'ultima uscita è di ieri e forse è quella che nell'escalation delle prese di distanza segnala un salto di qualità. Senza che nessuno glielo avesse chiesto, Fico ha tenuto a far sapere che la sua assenza ieri alla guida della Camera non era dovuta a un impegno imprevisto o a un raffreddore. No, il presidente ha voluto sottolineare che se lui non ha presieduto l'aula mentre era in discussione e in votazione il cosiddetto decreto sicurezza, non era per un'influenza, ma perché il provvedimento gli fa schifo. Piuttosto che metterci la faccia e veder passare la misura che attribuisce più risorse alle forze dell'ordine e meno impunità agli immigrati, Fico ha provveduto ad assentarsi, lasciando che a presiedere fossero altri. In pratica, è un po' come se da presidente della Camera eletto con i voti grillini e leghisti, l'inquilino di Montecitorio si fosse seduto nell'emiciclo riservato all'opposizione. Perché è ovvio che se un'alta carica dello Stato dichiara che la propria assenza non è stata casuale ma voluta, vuol dire che nella maggioranza che lo ha espresso ormai non si sente più a suo agio, e piuttosto che votarne i provvedimenti si alza e se ne va.Non siamo ancora, naturalmente, alla scelta del campo avverso, anche perché Fico, a differenza di Fini, Bertinotti e Casini, non possiede un partito suo, ma non è detto che non si prepari a formarlo. Notizie al riguardo non ce ne sono, ma di questo passo non si può escludere che intorno al presidente della Camera si formi una corrente, se non un partito. Di onorevoli pentastellati che manifestino scontentezza per come vanno le cose con il governo Conte ce ne sono almeno una ventina. I numeri non sono ancora decisivi, ma in futuro potrebbero diventarlo. Soprattutto se tra vicende familiari e gaffe politiche la figura di Luigi Di Maio dovesse indebolirsi. Insomma, Fico si scalda i muscoli e si allena, nella speranza di prendere il posto del vicepremier. Di certo non in un governo con Salvini, ma magari in un esecutivo sostenuto dal Pd o, nel caso la situazione economica si complicasse, in una maggioranza guidata da un tecnico. Del resto, se dal congresso del Partito democratico dovesse spuntare una leadership diversa da quella che lo ha guidato e ancora lo guida, tutto sarebbe possibile. Anche vedere a braccetto grillini e piddini. Prendendo a prestito le parole pronunciate dal presidente della Camera, certe cose non sono casuali. Insomma, ve lo immaginate un governo Fico-Zingaretti? Roba da far rimpiangere il non sempre perfetto Di Maio-Salvini.
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
Continua a leggereRiduci
Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)