2018-10-31
Il Pil inchiodato prova che bisogna investire
L'Istat segnala una crescita zero per il terzo trimestre dell'anno, ma a essere asfittica è l'intera eurozona (+0,2%). La chiusura del Quantitative easing pesa come un macigno. Ora come non mai è necessario che lo Stato stimoli l'economia in prima persona.Una giornata e quattro motivi di riflessione per il governo: una notizia non buona sul Pil; la necessità, per onestà intellettuale, di contestualizzarla in una più generale frenata europea; il confronto impietoso tra la tartaruga Ue e l'Anglosfera che invece corre; e infine - ed è la cosa più importante - il «che fare» sulla manovra. Il dato sul Pil è arrivato ieri mattina: per il terzo trimestre 2018, l'Istat stima una situazione invariata rispetto ai tre mesi precedenti. In altre parole, la crescita si è fermata: è stata pari a zero. Brutta notizia rispetto alle previsioni che già non erano splendide (ci si attendeva un +0,2% trimestrale), e che complica molto il raggiungimento dell'1,2% su base annua fissato dal governo nell'ultima Nota di aggiornamento al Def: basterà dire che, per centrare quel risultato, adesso servirebbe un balzo del +0,7% congiunturale nel quarto trimestre (da zero), performance obiettivamente poco probabile. Inevitabile una qualche debolezza in Borsa (chiusura a -0,06%, contrariamente alla robusta prova del giorno prima) e un segnale di risalita dello spread (311,50). Le aste dei titoli pubblici, con richieste comunque superiori all'offerta, hanno visto un'impennata dei rendimenti: per i Btp decennali si è saliti al 3,36% (ai massimi da febbraio 2014), per quelli quinquennali al 2,58% (ai massimi da dicembre 2013). Insomma, gli investitori comprano, ma pretendono un premio di rischio più elevato. Detti i numeri, è doveroso contestualizzare. Per un verso, inutile girarci intorno, la situazione dei titoli è legata all'imminente fine del Quantitative easing. Onestamente, non è colpa di questo Governo né di quelli precedenti: tocca alla Bce fare chiarezza, e dire (La Verità tenta da mesi di accendere i riflettori su questo punto nodale) se, al di là del calendario in esaurimento del Qe, Francoforte vorrà mettere in campo altre forme di garanzia del debito pubblico degli Stati membri. Finché non ci sarà una risposta chiara a questa domanda, la volatilità sarà inevitabile. Quanto alla crescita, se il dato italiano non è buono, non lo è nemmeno quello europeo per il trimestre: uno striminzito +0,2% (il risultato peggiore per l'eurozona dal primo trimestre 2013). Non aveva senso esultare mesi fa (come faceva il Pd) per risultati italiani che erano da maglia nera europea: e non ha senso strapparsi i capelli oggi. Semmai, questa situazione è una ragione di più per ritenere surreale l'insistenza della Commissione su vincoli e austerity, che rischiano di deprimere ulteriormente il quadro. Non a caso, da giorni, La Verità propone voci internazionali assai diverse fra loro, unite però dalla volontà di incoraggiare politiche espansive e dalla critica all'insipienza di Bruxelles. Per farsi un'idea, basterebbe vedere cosa accade dove il team Juncker-Moscovici non può mettere il naso, ad esempio nell'Anglosfera. Donald Trump ha adottato un mega-choc fiscale (1.500 miliardi di dollari di tasse in meno), accompagnato da una somma equivalente (altri 1.500 miliardi di dollari) di investimenti. I puristi diranno che non è una ricetta ortodossa (un po' liberale, un po' keynesiana), ma si è rivelato un favoloso pacchetto pro crescita: l'incremento del Pil atteso per il 2018 è superiore al 3%, e la disoccupazione è stata praticamente distrutta (ridotta al 3,7%), con numerosi settori in cui non si trovano persone per coprire i posti di lavoro disponibili. Sia pure a velocità inferiore, il Regno Unito a guida conservatrice tenta di fare altrettanto: l'altro ieri è stato presentato il budget (la finanziaria britannica), che dispone tagli fiscali per 32 milioni di persone e un pacchetto di investimenti pubblici per 100 miliardi di sterline in 5 anni. Morale: anche lì ampliamento delle previsioni di crescita (dall'1,3 all'1,6 nel prossimo biennio). Ma badate bene: al termine non di un periodo di crisi, bensì di un quinquennio, quello passato, in cui la sola Gran Bretagna ha prodotto più posti di lavoro dei 27 Paesi Ue messi insieme. E qui si arriva alle scelte del governo italiano. Ieri le reazioni ai dati Istat sono state coerenti da parte del premier Giuseppe Conte («Lo avevamo previsto, proprio per questo faremo una manovra espansiva»), più polemiche da parte di Luigi Di Maio («A chi ci attacca, come il bugiardo seriale Renzi, ricordiamo che il risultato del 2018 dipende dalla manovra approvata a dicembre 2017. Tutti sanno che la nostra manovra del popolo deve ancora essere approvata e non può aver avuto effetto sul rallentamento»), più meditate e insieme vigorose da parte di Matteo Salvini («Se il Pil rallenta, è un motivo in più per tirare avanti dritti come treni con una manovra che vuole crescita, meno tasse, più lavoro, più pensioni. Lo dico agli amici di Bruxelles: scrivete letterine, noi siamo educati e rispondiamo, ma c'è voglia di crescere»). Comunque il tempo delle scelte è arrivato. E andrebbe considerato ciò che il Wall Street Journal, e qui in Italia La Verità, mettono sul tavolo da tempo: l'opportunità di tenere il punto sul deficit, resistendo alle rigidità di Bruxelles, ma anche valorizzando di più, nel dosaggio delle risorse, le parti sviluppiste e pro crescita della manovra. In una cubatura di circa 33 miliardi della legge di bilancio, i veri tagli di tasse sono 600 milioni per il 2019: quelli per l'ottimo intervento sulle partite Iva. Sarebbe un peccato non cogliere l'occasione di fare di più nella direzione giusta, seguendo l'esempio di Trump.
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Charlie Kirk (Getty Images)