2019-08-05
«Il partito dell’anti polizia
vorrebbe impedire agli agenti di difendersi»
Gianni Tonelli, ex sindacalista delle divise: «I miei colleghi temono meno le rapine a mano armata che gli avvisi di garanzia se osano sparare. I giudici hanno una visione ideologica».«Per anni mi sono trovato nella situazione in cui non sapevo a quale mulino stavo portando la mia acqua. Il primo nemico era il sistema che stavo difendendo. I colleghi non temono la rapina a mano armata, temono la menzogna, gli avvisi di garanzia».Le conosce bene le difficoltà delle forze dell'ordine, Gianni Tonelli. Poliziotto, ex segretario generale del Sindacato autonomo di polizia, ora si ritrova a difendere i colleghi dai banchi della Camera dei Deputati. Onorevole Tonelli, anche lei ha l'impressione che spesso lo Stato non tuteli abbastanza i suoi agenti? «Il sistema non offre sostegno agli operatori di polizia. Non è un caso che i vari sindacati per anni abbiano organizzato un evento dal titolo emblematico: “Chi difende i difensori"? Ecco, il quesito era uno slogan, ma la sostanza è chiara e fotografa la drammatica condizione in cui sono costretti a lavorare i colleghi». Che cosa manca?«Sono molti gli aspetti che mancano, da un punto di vista materiale, ma non solo». Iniziamo dagli aspetti materiali. «Lo Stato non presta attenzione all'evoluzione delle professionalità». Cosa intende? «Se l'operatore è messo nelle condizioni di salvaguardare sé stesso, riesce a salvare anche gli altri. La sicurezza degli operatori passa attraverso l'adeguamento degli standard professionali e il rinnovamento delle dotazioni». Quali altri aspetti dovrebbero essere cambiati? «Va cambiata l'impostazione ideologica nei confronti delle azioni di polizia. Lo abbiamo visto in questi giorni, con la morte del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega a Roma: c'è troppa prevenzione nei confronti degli operatori». «Il partito dell'anti polizia», come lo definisce lei. «Il cuore del problema è proprio questo, bisogna partire da qui per comprendere le contraddizioni del sistema». Partiamo da qui: chi appartiene al partito dell'anti polizia?«Tutti coloro che condividono la visione ideologica secondo cui difendersi è sbagliato. Sono ovunque, nel circuito mediatico, nel mondo intellettuale, in Parlamento. Il partito dell'anti polizia è un soggetto fortissimo».Anche i magistrati vi fanno parte?«C'è una frase che ripeto spesso e che descrive perfettamente la situazione: “Ogni asino che raglia finiamo alla sbarra"». Si rischia anche a chiedere un documento, ormai.«Abbiamo assistito a un'infinità di sentenze sconcertanti. L'attività della magistratura deve essere slegata dall'ideologia una volta per tutte».Cosa provano i suoi colleghi di fronte alle sentenze che finiscono per dare ragione ai criminali? «Gli agenti sono in uno stato di soggezione. Quando ci sono momenti di tensione, che possono sfociare in un contatto fisico, i miei colleghi sono obbligati a scappare. Ovviamente non lo fanno per codardia, ma per evitare di incorrere in guai più seri. Un contatto si sa come nasce, ma non come finisce». Lei parla di soggezione, ma non crede ci sia anche uno stato di sfiducia?«L'apparato non è dalla loro parte, il sistema li macella. Certo che sono sfiduciati. Eppure, per una manciata di lenticchie, continuano a lavorare con una dedizione che non viene valorizzata». Dal 2013 lei chiede le telecamere sulle divise delle forze di polizia. Quale vantaggio potrebbero apportare?«A settembre presenterò un disegno di legge per introdurle. Abbiamo dei processi che durano anni, centinaia di udienze, un'infinità di lavoro da parte delle Procure per accertare i fatti. Le telecamere consentono di chiarire le dinamiche in pochissimi minuti». Hanno un potere deflattivo?«Enorme, non staremmo a discutere anni di una interpretazione errata o di una percezione. La telecamera ci restituisce la verità dei fatti. Ciò darebbe sicurezza agli operatori, li metterebbe al riparo dalle false denunce e dalle false accuse». Lei guarda con favore al modello americano?«Il modello americano si sta espandendo in tutto il mondo. Su questo punto l'Italia è indietro: noi puntiamo ancora sugli alfanumerici. È un metodo superato. Lei ha presentato un emendamento al decreto Sicurezza bis che prevede la non archiviazione per lieve tenuità del fatto, nei confronti di chi commette reati di violenza, oltraggio o resistenza a pubblico ufficiale. «In un Paese normale non ci sarebbe stato bisogno del mio emendamento. Sputare su una divisa, come è successo a Milano, non può essere considerato un fatto di lieve entità. Di fronte all'atteggiamento ideologico che tende svilire il ruolo delle forze dell'ordine e la loro dignità, abbiamo voluto dare un segnale forte». A proposito di dignità, non crede sia ora di ascoltare le denunce degli agenti? Mancano le divise, gli straordinari non vengono pagati da anni. «Negli ultimi dieci anni, i numeri sono stati gestiti da quella che chiamo la “dittatura dei ragionieri di Stato". Perché, in un periodo di ristrettezza economica, sono stati tagliati i fondi alla sicurezza? Hanno smantellato un apparato». Un apparato a cui mancano gli uomini: secondo la denuncia di Franco Gabrielli, mancherebbero 20.000 agenti.«La strategia di non assumere per risparmiare si è rivelata controproducente. Hanno debilitato un sistema e ora stiamo cercando di riparare».Come? «Nella legge di bilancio abbiamo stanziato oltre due miliardi in più per recuperare i disastri che sono stati fatti in dieci anni». Sono sufficienti?«È chiaro che ci sono delle procedure da seguire e dei tempi da rispettare. Non risolveremo tutto subito, ma arriveremo a ovviare alle troppe inefficienze di questi anni».
Alberto Stefani (Imagoeconomica)
(Arma dei Carabinieri)
All'alba di oggi i Carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Chieti, con il supporto operativo dei militari dei Comandi Provinciali di Pescara, L’Aquila e Teramo, su delega della Direzione Distrettuale Antimafia de L’Aquila, hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di un quarantacinquenne bengalese ed hanno notificato un avviso di conclusione delle indagini preliminari nei confronti di 19 persone, tutte gravemente indiziate dei delitti di associazione per delinquere finalizzata a commettere una serie indeterminata di reati in materia di immigrazione clandestina, tentata estorsione e rapina.
I provvedimenti giudiziari sono stati emessi sulla base delle risultanze della complessa attività investigativa condotta dai militari del NIL di Chieti che, sotto il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia, hanno fatto luce su un sodalizio criminale operante fin dal 2022 a Pescara e in altre località abruzzesi, con proiezioni in Puglia e Campania che, utilizzando in maniera fraudolenta il Decreto flussi, sono riusciti a far entrare in Italia diverse centinaia di cittadini extracomunitari provenienti prevalentemente dal Bangladesh, confezionando false proposte di lavoro per ottenere il visto d’ingresso in Italia ovvero falsificando gli stessi visti. L’associazione, oggi disarticolata, era strutturata su più livelli e si avvaleva di imprenditori compiacenti, disponibili a predisporre contratti di lavoro fittizi o società create in vista dei “click day” oltre che di di professionisti che curavano la documentazione necessaria per far risultare regolari le richieste di ingresso tramite i decreti flussi. Si servivano di intermediari, anche operanti in Bangladesh, incaricati di reclutare cittadini stranieri e di organizzarne l’arrivo in Italia, spesso dietro pagamento e con sistemazioni di fortuna.
I profitti illeciti derivanti dalla gestione delle pratiche migratorie sono stimati in oltre 3 milioni di euro, considerando che ciascuno degli stranieri fatti entrare irregolarmente in Italia versava somme consistenti. Non a caso alcuni indagati definivano il sistema una vera e propria «miniera».
Nel corso delle indagini nel luglio 2024, i Carabinieri del NIL di Chieti hanno eseguito un intervento a Pescara sorprendendo due imprenditori mentre consegnavano a cittadini stranieri documentazione falsa per l’ingresso in Italia dietro pagamento.
Lo straniero destinatario del provvedimento cautelare svolgeva funzioni di organizzazione e raccordo con l’estero, effettuando anche trasferte per individuare connazionali disponibili a entrare in Italia. In un episodio, per recuperare somme pretese, ha inoltre minacciato e aggredito un connazionale. Considerata la gravità e l’attualità delle esigenze cautelari, è stata disposta la custodia in carcere presso la Casa Circondariale di Pescara.
Nei confronti degli altri 19 indagati, pur sussistendo gravi indizi di colpevolezza, non vi è l’attualità delle esigenze cautelari.
Il Comando Carabinieri per la Tutela del Lavoro, da anni, è impegnato nel fronteggiare su tutto il territorio nazionale il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, fenomeno strettamente collegato a quello dello sfruttamento lavorativo.
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