
Le mostre permanenti sul cibo richiamano nel mondo milioni di persone. Una nuova forma di turismo culturale che dà valore ai prodotti e al territorio. In Italia i visitatori sono in aumento, ma all'estero le strutture sono anche all'avanguardia e fanno rete.Possono un pezzo di parmigiano reggiano, o 'na tazzulella 'e cafè, diventare opera d'arte? Hanno le carte in regola per accedere all'Olimpo della cultura al pari di sculture e dipinti? La risposta è affermativa, se si guarda al boom che in Italia, ma anche nel resto del mondo, sta coinvolgendo i musei dedicati al cibo. L'ultimo, in ordine di tempo, verrà inaugurato a ottobre a New York ed è rivolto a una delle eccellenze del Made in Italy, nonché simbolo dell'immaginario collettivo: la pizza. Si chiama Mopi. Una scelta che ha portato con sé inevitabili perplessità, ma anche la consapevolezza che il nostro patrimonio enogastronomico merita un posto d'onore nelle gallerie d'arte. La tendenza è in crescita, come dimostra il museo che a Dublino mette in mostra la famosissima birra Guinness e che ogni anno richiama circa un milione di visitatori. Ma anche il caso dell'Heineken Experience di Amsterdam, frequentato da 600.000 persone ogni anno.Nel frattempo il nostro Paese non è rimasto a guardare, forte di una moltitudine di distretti del cibo spesso accompagnati da esposizioni e gallerie dedicate. È il caso, per esempio, del museo del parmigiano reggiano di Soragna, vicino a Parma, o della nuovissima Nuvola Lavazza, lo spazio recentemente inaugurato a Torino per raccontare la storia del caffè. Realtà come queste non hanno solo il vantaggio di valorizzare e difendere i prodotti che rappresentano, ma anche di contribuire allo sviluppo del territorio. Spesso piccoli borghi, che diventano mete turistiche. «Lo sviluppo dei musei dedicati al cibo in Italia ha subito una decisa accelerata negli ultimi 15 anni», spiega Guido Guerzoni, docente di Museum mangement all'università Bocconi di Milano. «Ci sono numerosi esempi virtuosi come per esempio il Wimu, il museo del vino di Barolo». A spingere questa nuova forma di turismo e di cultura è una trasformazione radicale nelle abitudini dei consumatori. Sempre più attenti alla qualità, alla scoperta delle tradizioni, all'importanza dei territori. Slow food docet. Sono sorti così il distretto del Franciacorta, che oggi può contare su alcuni fra i migliori enologi del mondo e su cantine hi-tech. Così come quello del parmigiano reggiano e del prosciutto a Parma, quello del vino Barolo in Piemonte, quello della carne di cinghiale, del Chianti e del pecorino in Toscana. A formalizzare la nascita di queste realtà è stato recentemente il ministero delle Politiche agricole e forestali, con l'istituzione del registro nazionale dei distretti del cibo. Un passo importante per difendere il nostro patrimonio enogastronomico, che da solo vale il 15% del Pil: 1 euro su 6, di quelli prodotti in Italia, arriva proprio dall'agroalimentare. Solo nel 2016 la crescita del comparto è stata del 9% rispetto all'anno precedente, a fronte del meno 21% registrato dall'industria. Mentre il saldo fra import ed export ha superato i 10 milioni di euro. Numeri, quelli resi noti dall'Istat, che hanno portato, nel corso del 2017, a 132 milioni di euro di fatturato, con 6.850 imprese e 385.000 addetti coinvolti. «I musei del cibo nascono con l'intento di raccontare i prodotti a 360 gradi, ma anche di divulgare fra i visitatori un'educazione alimentare positiva», prosegue Guerzoni. La maggior parte di queste realtà si trova proprio nei cosiddetti food district. È il caso, per esempio, del museo di Sulmona dedicato ai confetti, e di quello creato per la liquirizia a Rossano Calabro. Attraversando lo Stivale si incontra anche il museo del prosciutto di Langhirano, quello della pasta e del pomodoro di Collecchio, quello dell'olio di oliva di Alberobello. E ancora il museo del salame di Castello di Felino, il museo del vino di Greve in Chianti e perfino quello dedicato alla dieta mediterranea di Pollica, in provincia di Salerno. «Gli alimenti stanno entrando a pieno titolo nel mondo dei musei e questo aspetto piace moltissimo al pubblico, spinto anche dalla forza mediatica che la cucina sta dimostrando negli ultimi anni. Tutto questo ha implicazioni importantissimi anche dal punto di vista turistico», continua a spiegare il docente della Bocconi. «I visitatori entrano in questi luoghi per la loro bellezza architettonica, ma anche per scoprire il mondo che si cela dietro a determinate produzioni. In questo modo scoprono anche luoghi nei quali diversamente forse non sarebbero andati». Basti pensare al caso di Spilamberto, nei pressi di Modena, diventato meta privilegiata di chi voglia scoprire il museo dedicato all'aceto balsamico tradizionale. Questo nonostante alcuni limiti che lasciano il nostro Paese ancora indietro rispetto ad altre eccellenze internazionali. «L'Italia ha un grandissimo potenziale, ancora parzialmente inespresso. I musei dedicati al cibo non sono ancora in rete fra loro e si affidano ad allestimenti ancora troppo tradizionali. Questo produce numeri importanti, ma ancora lontanissimi da quelli registrati oltre confine», conclude Guerzoni. In media, in Italia, ognuna di queste realtà non supera i 20.000 visitatori l'anno, con la sola eccezione delle strutture più all'avanguardia. All'estero c'è invece maggiore respiro, come dimostra per esempio l'utilizzo di strumenti multimediali in grado di creare esperienze percettive, che richiamano e divertono i visitatori. Insomma, i margini di crescita non mancano. Ma occorre fare un passo più deciso verso l'innovazione.
Imagoeconomica
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(Guardia di Finanza)
Sequestrate dalla Guardia di Finanza e dai Carabinieri oltre 250 tonnellate di tabacchi e 538 milioni di pezzi contraffatti.
I Comandi Provinciali della Guardia di finanza e dell’Arma dei Carabinieri di Torino hanno sviluppato, con il coordinamento della Procura della Repubblica, una vasta e articolata operazione congiunta, chiamata «Chain smoking», nel settore del contrasto al contrabbando dei tabacchi lavorati e della contraffazione, della riduzione in schiavitù, della tratta di persone e dell’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
Le sinergie operative hanno consentito al Nucleo di polizia economico-finanziaria Torino e alla Compagnia Carabinieri di Venaria Reale di individuare sul territorio della città di Torino ed hinterland 5 opifici nascosti, dediti alla produzione illegale di sigarette, e 2 depositi per lo stoccaggio del materiale illecito.
La grande capacità produttiva degli stabilimenti clandestini è dimostrata dai quantitativi di materiali di contrabbando rinvenuti e sottoposti a sequestro: nel complesso più di 230 tonnellate di tabacco lavorato di provenienza extra Ue e circa 22 tonnellate di sigarette, in gran parte già confezionate in pacchetti con i marchi contraffatti di noti brand del settore.
In particolare, i siti produttivi (completi di linee con costosi macchinari, apparati e strumenti tecnologici) e i depositi sequestrati sono stati localizzati nell’area settentrionale del territorio del capoluogo piemontese, nei quartieri di Madonna di Campagna, Barca e Rebaudengo, olre che nei comuni di Caselle Torinese e Venaria Reale.
I siti erano mimetizzati in aree industriali per dissimulare una normale attività d’impresa, ma con l’adozione di molti accorgimenti per svolgere nel massimo riserbo l’illecita produzione di sigarette che avveniva al loro interno.
I militari hanno rilevato la presenza di sofisticate linee produttive, perfettamente funzionanti, con processi automatizzati ad alta velocità per l’assemblaggio delle sigarette e il confezionamento finale dei pacchetti, partendo dal tabacco trinciato e dal materiale accessorio necessario (filtri, cartine, cartoncini per il packaging, ecc.), anch’esso riportante il marchio contraffatto di noti produttori internazionali autorizzati e presente in grandissime quantità presso i siti (sono stati infatti rinvenuti circa 538 milioni di componenti per la realizzazione e il confezionamento delle sigarette recanti marchi contraffatti).
Gli impianti venivano alimentati con gruppi elettrogeni, allo scopo di non rendere rilevabile, dai picchi di consumo dell’energia elettrica, la presenza di macchinari funzionanti a pieno ritmo.
Le finestre che davano verso l’esterno erano state oscurate mentre negli ambienti più interni, illuminati solo artificialmente, erano stati allestiti alloggiamenti per il personale addetto, proveniente da Paesi dell’Est europeo e impiegato in condizioni di sfruttamento e in spregio alle norme di sicurezza.
Si trattava, in tutta evidenza, di un ambiente lavorativo degradante e vessatorio: i lavoratori venivano di fatto rinchiusi nelle fabbriche senza poter avere alcun contatto con l’esterno e costretti a turni massacranti, senza possibilità di riposo e deprivati di ogni forma di tutela.
Dalle perizie disposte su alcune delle linee di assemblaggio e confezionamento dei pacchetti di sigarette è emersa l’intensa attività produttiva realizzata durante il periodo di operatività clandestina. È stato stimato, infatti, che ognuna di esse abbia potuto agevolmente produrre 48 mila pacchetti di sigarette al giorno, da cui un volume immesso sul mercato illegale valutabile (in via del tutto prudenziale) in almeno 35 milioni di pacchetti (corrispondenti a 700 tonnellate di prodotto). Un quantitativo, questo, che può aver fruttato agli organizzatori dell’illecito traffico guadagni stimati in non meno di € 175 milioni. Ciò con una correlativa evasione di accisa sui tabacchi quantificabile in € 112 milioni circa, oltre a IVA per € 28 milioni.
Va inoltre sottolineato come la sinergia istituzionale, dopo l’effettuazione dei sequestri, si sia estesa all’Agenzia delle dogane e dei monopoli (Ufficio dei Monopoli di Torino) nonché al Comando Provinciale del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco di Torino nella fase della gestione del materiale cautelato che, anche grazie alla collaborazione della Città Metropolitana di Torino, è stato già avviato a completa distruzione.
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