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2023-08-07
Il paradosso della sanità
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Attese anche di un anno, pronti soccorso e ambulatori sguarniti. Alla faccia della sanità che dopo il Covid doveva diventare migliore. La pandemia avrebbe dovuto segnare una svolta nel modo di considerare le strutture pubbliche, non come voragini di soldi, e quindi da tagliare ma come presidi strategici per la popolazione, ma nulla è cambiato. Anzi la situazione è peggiorata. E questa volta i soldi ci sono (il governo Draghi a fine 2021 aumentò il fondo sanitario nazionale di 2 miliardi di cui 500 milioni destinati alle Regioni per abbattere le liste d’attesa) ma, come è costume delle amministrazioni, non vengono spesi.
Il tema è entrato all’attenzione anche dell’Ocse che si è dichiarata molto preoccupata per nuove crisi sanitarie nei Paesi, tra i quali c’è l’Italia, che investono minori risorse in sanità. Secondo l’organizzazione con sede a Parigi, per il nostro Paese sarebbero necessari investimenti, pari ad almeno l’1,4% in più rispetto al Pil 2021, che equivale a un aumento annuo di ben 25 miliardi di euro.
La legge di Bilancio, che si discuterà in autunno sarà la verifica se c’è la volontà di un cambio di marcia. All’appuntamento con la dislocazione delle risorse, il sistema sanitario nazionale si presenta con numeri da brivido. Mancano 30.000 medici ospedalieri, 70.000 infermieri e circa 100.000 posti letto. Il Forum delle 30 società scientifiche dei clinici ospedalieri e universitari (Fossc), ha messo in fila i dati della crisi: in 10 anni, tra il 2011 e il 2021, in Italia sono stati chiusi 125 ospedali, ben il 12%. Nel 2011 tra pubblici e privati erano 1.120, per diminuire a 995 nel 2021, con un taglio più marcato per le strutture pubbliche (84 in meno). Dieci anni, durante i quali si sono alternati governi di sinistra o sostenuti dal Pd, a parole sempre sempre pronto a rivendicare la centralità del servizio pubblico ma che quando si è trattato di tagliare non ha esitato a sforbiciare gli ospedali.
In un anno, secondo la Fossc, sono stati eliminati quasi 21.500 posti letto e solo nei mesi più duri della pandemia c’è stato un ripensamento. Nel 2020 erano 257.977, per poi scendere a 236.481 nel 2021. Mancano almeno 30.000 specialisti ospedalieri: sono circa 130.000, 60.000 in meno della Germania e 43.000 in meno della Francia.
Lavorare nelle strutture pubbliche non è considerato un traguardo ambito. Turni massacranti, retribuzioni scarse, poche possibilità di carriera e mancanza di sicurezza (le aggressioni nei pronto soccorso fanno parte delle cronache quotidiane), spingono oltre mille neolaureati e specializzandi, a cercare all’estero, condizioni migliori. A soffrire sono gli organici dei pronto soccorso, in deficit di 4.200 camici bianchi (in sei mesi, da gennaio a luglio 2022, se ne sono dimessi 600, circa 100 al mese).
I posti letto di degenza ordinaria sono circa 350 per 100.000 abitanti, una cifra lontana dalla media europea di 500. Anche per le terapie intensive non si sono mai raggiunti i 14 posti letto (obiettivo al ribasso e pur disatteso) e si dovrebbe arrivare almeno a 20-25 per 100.000 abitanti.
Infine, i conti: si stima che l’incidenza della spesa sanitaria sul Pil per il 2023-2026, sarà già nel 2024 pari al 6,3% contro una media dell’8,8% dei 37 Paesi dell’Ocse e del 10% circa di Francia e Germania.
Francesco Cognetti, coordinatore del Forum, punta il dito contro «le politiche deliberatamente anti ospedaliere dei precedenti governi» e sottolinea il paradosso che la crisi sia stata ignorata dal Pnrr. «Il ministro Schillaci sta facendo la sua parte ed è finalmente in procinto di istituire un Tavolo tecnico di confronto ma esiste un problema di risorse».
Cognetti poi spiega che un’occasione unica può essere l’intenzione manifestata dal premier Giorgia Meloni, di cambiare l’indirizzo e i campi d’applicazione del Pnrr. La sanità potrebbe impiegare «una quantità cospicua di fondi già devoluti alla medicina territoriale e destinati purtroppo a non raggiungere i risultati attesi, proprio per l’estrema carenza di personale medico ed infermieristico». Questo per dire che «non bastano le 1.350 case di comunità previste dal Pnrr a risolvere i problemi della sanità, se non si affrontano i nodi centrali della crisi profonda degli ospedali e delle risorse per il reclutamento del personale. Nel caso sia impossibile stornare queste risorse economiche dal Pnrr, si dovrà necessariamente provvedere altrimenti».
Secondo le società scientifiche del Forum, la carenza di personale e di posti letto, renderà impossibile l’attuazione di quanto previsto dal Pnrr sulla medicina territoriale. Le case di comunità rischiano di restare cattedrali nel deserto senza alcun collegamento con gli ospedali. È impensabile, infatti, trasferire i camici bianchi dalle strutture ospedaliere a quelle territoriali.
Un’altra piaga è rappresentata dalle liste d’attesa. Per visite specialistiche e esami diagnostici ai quali spesso è legata la sopravvivenza del paziente se effettuati con tempestività, può anche trascorrere un anno. E al malato non resta che rivolgersi al privato. Nel 2021, secondo la Ragioneria dello Stato, la spesa privata ha raggiunto 37,16 miliardi, pari al +20,7% rispetto al 2020. In numerose situazioni l’intramoenia e il pronto soccorso diventano, per paradosso, l’unica porta di accesso al Servizio sanitario nazionale.
Cittadinanzattiva ha svolto un monitoraggio per 6 diverse tipologie di visite specialistiche ed esami diagnostici (visita cardiologica, ginecologica, pneumologica, oncologica, ecografia addominale, mammografia) in 12 grandi Asl di quattro Regioni (Lazio, Emilia Romagna, Liguria e Puglia). La situazione peggiore si riscontra in Puglia. Nella Asl di Lecce nessuna visita pneumologica con priorità D è garantita entro i 30 giorni previsti mentre nell’Asl di Bari soltanto il 9,38% delle visite ginecologiche con priorità B e il 14,39% delle ecografie complete all’addome sempre con priorità B, sono garantite entro i 10 giorni previsti. In Liguria sono stati sforati i tempi di legge fino a 5 volte. Per un’ecografia addominale completa con priorità D (cioè da fare entro 60 giorni), nell’Area metropolitana di Genova, bisogna attendere fino a 270 giorni. Per l’ecocolordoppler con priorità D l’appuntamento viene fissato dopo 318 giorni rispetto ai 30 massimi previsti dalla legge. Tre mesi e mezzo di attesa per una mammografia con prescrizione B, che andrebbe eseguita entro 10 giorni, in Asl5 Spezzina, quattro mesi per una visita cardiologica B in Asl1 Imperiese, nove mesi per una ecografia all’addome, con richiesta P (da eseguire entro 120 giorni) in Asl3 Genovese. Nell’Area metropolitana di Genova, per la risonanza magnetica encefalo, 221 giorni rispetto ai max 30 previsti.
In Emilia Romagna, a Reggio Emilia per la visita pneumologica le tempistiche vengono rispettate solo nel 39% dei casi, mentre a Bologna, per la visita cardiologica, nel 57% dei casi. Nel Lazio, anche se la situazione complessiva è migliore, non mancano alcune criticità: per un’ecografia addominale completa con priorità B (da eseguire entro 10 giorni), nell’Asl Roma 4 i tempi di attesa sono rispettati solo nel 18,2% dei casi; per una visita cardiologica con priorità D (entro 60 giorni), nell’Asl di Viterbo si registrano tempi di attesa rispettati nel 47,2% dei casi. Particolarmente allarmante il quadro della Campania, dove la stessa Regione segnala che il numero di prestazioni erogate nel canale pubblico è inferiore, per tutti gli esami e le visite monitorate, a quelle erogate in intramoenia negli ospedali.
Campania: fondi anti liste d’attesa mai usati, l’intramoenia impazza
Fondi per ridurre le liste d’attesa che restano inutilizzati e l’intramoenia che diventa l’unica soluzione, insieme al ricovero al pronto soccorso per esami e visite. La Campania è ancora alle prese per recuperare i ritardi accumulati durante il Covid. I proclami del presidente, Vincenzo De Luca per una sanità migliore, post pandemia, sono rimasti al livello di marketing politico. Dal monitoraggio di Cittadinanzattiva è emerso che il numero delle prestazioni erogate negli ospedali è inferiore a quelle effettuate in intramoenia, cioè dagli stessi medici all’interno delle medesime strutture ma in modo privato.
Nel 2022, presso il Cardarelli di Napoli sono state somministrate 1255 visite ortopediche in intramoenia a fronte di 112 nel pubblico; presso l’ospedale dei Colli sempre a Napoli, nessun eco addome è stato somministrato nel pubblico, ne sono stati fatti 111 in intramoenia; presso l’ospedale Moscati di Avellino, sono state effettuate 7 visite cardiologiche pubbliche e 979 in regime di intramoenia; al San Giovanni di Dio e Ruggi D’Aragona a Salerno, 91 ecografie ostetriche nel canale pubblico e 329 in intramoenia. Il Garante dei diritti delle persone con disabilità della Regione Campania, l’avvocato Paolo Colombo ha lanciato l’allarme: «occorre intervenire sulle liste d’attesa attraverso un investimento sulle risorse umane e tecniche e un conseguente ampliamento degli orari di apertura al pubblico degli ambulatori, nonché attraverso la messa in rete nei Cup delle agende di prenotazione di tutte le strutture sanitarie pubbliche e private convenzionate per favorire una migliore programmazione e trasparenza dei tempi di attesa. E non da ultimo bloccando, a livello regionale, le prestazioni in intramoenia laddove queste superino come numero quelle erogate nel canale pubblico, come previsto dallo stesso Piano nazionale di governo delle liste di attesa». Il sindacato degli infermieri Nursind sottolinea il mancato utilizzo dei fondi stanziati. Nel 2022 l'utilizzo dei fondi extra messi nel piatto da Mef e ministero della Salute, è stato un flop. «Su 44,48 milioni assegnati, le Asr hanno speso, al 31 dicembre 2022, soltanto 22,46 milioni mentre le previsioni di spese per il 2023 comunicate dalle Aziende sono pari a 12,70 milioni. Si desume, pertanto, che le Aziende sanitarie regionali non abbiano utilizzato circa 25,31 milioni di finanziamenti statali per abbattere le liste di attesa che avrebbero potuto garantire ai cittadini l’erogazione di prestazioni in regime pubblico» Secondo il sindacato “oltre al danno c’è anche la beffa. Dalla delibera della giunta n. 379/2023 emergerebbe che la maggior parte dei contributi assegnati alle aziende sanitarie verrebbero ora dirottati agli istituti privati accreditati, senza alcuna garanzia oggettiva di recupero delle liste di attesa». Eugenio Gragnano, componente della segreteria regionale dell’Anaao spiega che l’emergenza delle liste d’attesa, è determinata principalmente dalla carenza del personale. «Gli ospedali sono assorbiti dalla routine dei ricoveri e il personale che deve spartirsi tra i reparti e il pronto soccorso, può occuparsi dell’ambulatorio solo marginalmente. A questo si aggiunge un problema di organizzazione. Il sistema di prenotazione sulla piattaforma online è rivolto a più destinazioni e non si riesce a capire chi ha disdetto o chi pur avendo indicato la data, poi non si presenta. E’ un meccanismo che va organizzato meglio». Quanto all’intramoenia «capisco che i dati indicati da Cittadinanzattiva possano creare sconcerto ma se li consideriamo in rapporto all’attività generale dell’ospedale, ad esempio nel Cardarelli, rappresentano meno del 7%. Il problema è la criticità del sistema, l’approccio alle cure è diventato difficile e l’intramoenia si presenta come una alternativa per il paziente che non può attendere».
Puglia: visite ginecologiche prioritarie, solo il 9,38% rispetta i tempi
La Puglia non riesce a rispettare i tempi di attesa previsti dal Piano nazionale di governo. Si supera abbondantemente un mese per una visita pneumologica che andrebbe effettuata entro poche settimane mentre solo il 9,38% delle visite ginecologiche con priorità sono garantite entro i 10 giorni previsti. Nella Asl di Taranto, dove i tempi di attesa vengono rispettati almeno nel 33% dei casi, il report di Cittadinanzattiva registra picchi negativi. Una visita pneumologica, solo nel 20% dei casi, viene effettuata in tempo. Giancarlo Donnola, consigliere nazionale Anaao (l’Associazione dei medici dirigenti) e segretario aziendale nella Asl di Taranto, indica, tra le cause del fenomeno, anche il meccanismo del cosiddetto «rilancio», ovvero l’apertura a termine, per un periodo preciso (prima sei mesi ora portato a dodici) della possibilità di prenotare un esame diagnostico o una visita specialistica. «Qualora lo specialista non chieda la riapertura delle agende, queste, allo scadere, rimangono chiuse e non si possono fare altre prenotazioni», spiega il sindacalista. Quali sono gli effetti? «Innanzitutto si impedisce di evidenziare la lunghezza effettiva dei tempi di attesa. Poi il paziente non riesce a far ricorso al Piano nazionale di governo delle liste d’attesa, secondo il quale ci sono tempi massimi di attesa per alcune prestazioni, ben 58 tra visite specialistiche, esami diagnostici e interventi chirurgici. In base a tale Piano si può andare dal privato pagando solo il ticket previsto nel pubblico se entro 60 giorni non è stato fissato l’appuntamento nel sistema sanitario nazionale. Questa opzione risulta impossibile se non si riesce a prenotare e quindi a dimostrare il ritardo nell’erogazione. Quindi i pazienti che vanno da un privato non possono richiedere il rimborso del costo della visita».
Il sindacalista sottolinea come altro fattore che determina le liste d’attesa, la diminuzione degli ambulatori. «I medici di reparto vengono inviati con ordine di servizio, per un mese, in pronto soccorso, ormai in agonia». Infine, c’è «l’impossibilità a prenotare esami e visite presso centri privati, tramite i portale web della Regione». Il risultato di questa situazione è che «per una visita cardiologica con codice di priorità P, la prima data utile è l’8 marzo 2024. O per una ecografia all’addome, il 7 marzo del prossimo anno», spiega Donnola. A questo si aggiunge il mancato completamento del nuovo ospedale, la mancanza di anestesisti e il numero limitato di sale operarorie. Drammatica la chirurgia vascolare del SS. Annunziata, che «ha solo due sedute settimanali per operare pazienti ischemici».
Molise, nella cardiologia di Isernia macchinari rotti da 7 mesi
Il Molise ha speso solo l’1,7% pari a 45.000 euro, di quanto messo a disposizione, circa 2,5 milioni, dal governo Draghi, per il recupero delle prestazioni non erogate e per ridurre i tempi di attesa delle prestazioni diagnostiche e delle visite specialistiche. Il dato è contenuto nel report di Cittadinanzattiva che sottolinea la necessità di un maggior numero di medici. Ma il problema non è solo la mancanza dei camici bianchi. Nella cardiologia di Isernia un macchinario è rotto da sette mesi e le prenotazioni per un ecocolordoppler sono state annullate fino a novembre. C’è chi lamenta lunghe attese anche per fare una prenotazione, come documentato da un servizio del Tgr Molise.
A marzo scorso un paziente ha denunciato all’Ansa che all’ospedale Cardarelli di Campobasso, occorre aspettare sette mesi per effettuare una risonanza magnetica alla prostata, nonostante il medico di base abbia scritto nell’impegnativa «nel più breve tempo possibile; se differibile entro 72 ore», specificando nel quesito diagnostico «pregresso k prostata». Sul disservizio sanitario della Regione è intervenuto lo stesso ministro, Orazio Schillaci, che ha incontrato i sindaci del Molise e ha parlato di «ritardi inaccettabili», richiamando le amministrazioni locali.
La mancanza di personale e l’ingolfamento delle liste per le prestazioni, rischiano di impedire l’applicazione di quanto deciso a livello nazionale, per aggiornare le prestazioni. Dopo un iter lungo più di sei anni è stato approvato in Conferenza Stato Regioni il decreto Tariffe che rivede il nomenclatore tariffario dei Livelli essenziali di assistenza. Si tratta dell’elenco delle prestazioni che il Servizio sanitario può erogare e con quali costi. È un asso importante giacché la tecnologia, in campo medico, è velocissima e le innovazioni sono continue. Far riferimento ad un nomenclatore vecchio vuol dire escludere dal sistema pubblico tutti gli esami con macchinari all’avanguardia che resterebbero ad appannaggio dei privati. Ma ciò che è stato deciso a livello nazionale ora deve essere declinato sul territorio dalle Regioni. Certo è che avere i macchinari migliori e non riuscire a utilizzarli per le liste d’attesa chilometriche sarebbe un enorme autogol.
In Sardegna interi reparti senza personale restano chiusi
Mettersi in coda e aspettare anche fino al 2024. Ammalarsi in Sardegna può diventare un calvario. Le Acli hanno scattato una fotografia impietosa dei tempi di attesa biblici, perfino per i casi più gravi. «I genitori di bambini con patologie dello spettro autistico segnalano come le visite con un neuropsichiatra infantile siano rinviate molto spesso al 2024, costringendo a costose visite private per ottenere i piani di trattamento», affermano Salvatore Sanna, presidente di Acli Salute, e Luciano Turini, rappresentante di Acli Assoconfam. A soffrire in particolare è il Centro-Nord Sardegna - precisano i referenti delle Acli - «dove la difficile situazione di molti reparti ospedalieri, da Sassari ad Alghero e fino a Ozieri, è ampiamente riconosciuta senza che si intravvedano segnali di miglioramento». Non solo: «Si aggiunge il fatto che la disponibilità di strutture private convenzionate con la Regione è molto limitata rispetto al Sud Sardegna, con una disponibilità pro-capite del 10% rispetto a Cagliari, Sulcis e al Medio Campidano. È del tutto evidente che se i tempi delle liste di attesa sono già inaccettabili nel Sud Sardegna, quelle del Centro-Nord Sardegna sono fuori legge e anti costituzionali». La situazione è aggravata dalla mancanza di personale. A Nuoro ed Oristano, interi reparti ospedalieri sono stati chiusi e altri funzionano male per mancanza di personale medico, tecnico e infermieristico. A Nuoro l’ospedale San Francesco è stato fortemente ridimensionato. A Oristano il San Martino vive in uno stato di crisi permanente. La conseguenza è che, non potendo contare sulle strutture pubbliche, chi deve curarsi non ha altra soluzione che ricorrere sempre di più ai privati. La Regione risulta ultima nella classifica di Fondazione Gimbe per l’erogazione delle prestazioni garantite dai Livelli essenziali di assistenza. L’isola garantisce solo il 56,3% dei servizi essenziali. Qualche esempio di tempi d’attesa ad aprile scorso, forniti dalla Regione che sottolinea il miglioramento rispetto al 2018, quasi fosse un successo: per le prime visite di chirurgia vascolare (28 giorni in media, contro gli 84 registrati nello stesso periodo del 2018), oculistica (73 giorni contro 119), ginecologia (19 contro 36) e urologia (101 giorni nel 2023 contro 111 del 2018). Per una mammografia monolaterale bisogna aspettare 118 giorni. Per una risonanza magnetica del tronco encefalico e all’addome, bisogna pazientare 99 giorni.
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Ai tempi del Covid, investire negli ospedali sembrava la priorità di tutti. Ma erano promesse da marinaio. Oggi il quadro è drammatico: mancano 30.000 medici ospedalieri, 70.000 infermieri e circa 100.000 posti letto. In 10 anni, tra il 2011 e il 2021, in Italia sono state chiuse 125 strutture, ben il 12%. E queste carenze rendono impossibile l’attuazione di quanto previsto dal Pnrr.In Campania fondi anti liste d’attesa mai usati, l’intramoenia impazza.Puglia: visite ginecologiche prioritarie, solo il 9,38% rispetta i tempi.Molise, nella cardiologia di Isernia macchinari rotti da 7 mesi.In Sardegna interi reparti senza personale restano chiusi.Lo speciale contiene cinque articoli.Attese anche di un anno, pronti soccorso e ambulatori sguarniti. Alla faccia della sanità che dopo il Covid doveva diventare migliore. La pandemia avrebbe dovuto segnare una svolta nel modo di considerare le strutture pubbliche, non come voragini di soldi, e quindi da tagliare ma come presidi strategici per la popolazione, ma nulla è cambiato. Anzi la situazione è peggiorata. E questa volta i soldi ci sono (il governo Draghi a fine 2021 aumentò il fondo sanitario nazionale di 2 miliardi di cui 500 milioni destinati alle Regioni per abbattere le liste d’attesa) ma, come è costume delle amministrazioni, non vengono spesi.Il tema è entrato all’attenzione anche dell’Ocse che si è dichiarata molto preoccupata per nuove crisi sanitarie nei Paesi, tra i quali c’è l’Italia, che investono minori risorse in sanità. Secondo l’organizzazione con sede a Parigi, per il nostro Paese sarebbero necessari investimenti, pari ad almeno l’1,4% in più rispetto al Pil 2021, che equivale a un aumento annuo di ben 25 miliardi di euro. La legge di Bilancio, che si discuterà in autunno sarà la verifica se c’è la volontà di un cambio di marcia. All’appuntamento con la dislocazione delle risorse, il sistema sanitario nazionale si presenta con numeri da brivido. Mancano 30.000 medici ospedalieri, 70.000 infermieri e circa 100.000 posti letto. Il Forum delle 30 società scientifiche dei clinici ospedalieri e universitari (Fossc), ha messo in fila i dati della crisi: in 10 anni, tra il 2011 e il 2021, in Italia sono stati chiusi 125 ospedali, ben il 12%. Nel 2011 tra pubblici e privati erano 1.120, per diminuire a 995 nel 2021, con un taglio più marcato per le strutture pubbliche (84 in meno). Dieci anni, durante i quali si sono alternati governi di sinistra o sostenuti dal Pd, a parole sempre sempre pronto a rivendicare la centralità del servizio pubblico ma che quando si è trattato di tagliare non ha esitato a sforbiciare gli ospedali. In un anno, secondo la Fossc, sono stati eliminati quasi 21.500 posti letto e solo nei mesi più duri della pandemia c’è stato un ripensamento. Nel 2020 erano 257.977, per poi scendere a 236.481 nel 2021. Mancano almeno 30.000 specialisti ospedalieri: sono circa 130.000, 60.000 in meno della Germania e 43.000 in meno della Francia. Lavorare nelle strutture pubbliche non è considerato un traguardo ambito. Turni massacranti, retribuzioni scarse, poche possibilità di carriera e mancanza di sicurezza (le aggressioni nei pronto soccorso fanno parte delle cronache quotidiane), spingono oltre mille neolaureati e specializzandi, a cercare all’estero, condizioni migliori. A soffrire sono gli organici dei pronto soccorso, in deficit di 4.200 camici bianchi (in sei mesi, da gennaio a luglio 2022, se ne sono dimessi 600, circa 100 al mese).I posti letto di degenza ordinaria sono circa 350 per 100.000 abitanti, una cifra lontana dalla media europea di 500. Anche per le terapie intensive non si sono mai raggiunti i 14 posti letto (obiettivo al ribasso e pur disatteso) e si dovrebbe arrivare almeno a 20-25 per 100.000 abitanti.Infine, i conti: si stima che l’incidenza della spesa sanitaria sul Pil per il 2023-2026, sarà già nel 2024 pari al 6,3% contro una media dell’8,8% dei 37 Paesi dell’Ocse e del 10% circa di Francia e Germania. Francesco Cognetti, coordinatore del Forum, punta il dito contro «le politiche deliberatamente anti ospedaliere dei precedenti governi» e sottolinea il paradosso che la crisi sia stata ignorata dal Pnrr. «Il ministro Schillaci sta facendo la sua parte ed è finalmente in procinto di istituire un Tavolo tecnico di confronto ma esiste un problema di risorse». Cognetti poi spiega che un’occasione unica può essere l’intenzione manifestata dal premier Giorgia Meloni, di cambiare l’indirizzo e i campi d’applicazione del Pnrr. La sanità potrebbe impiegare «una quantità cospicua di fondi già devoluti alla medicina territoriale e destinati purtroppo a non raggiungere i risultati attesi, proprio per l’estrema carenza di personale medico ed infermieristico». Questo per dire che «non bastano le 1.350 case di comunità previste dal Pnrr a risolvere i problemi della sanità, se non si affrontano i nodi centrali della crisi profonda degli ospedali e delle risorse per il reclutamento del personale. Nel caso sia impossibile stornare queste risorse economiche dal Pnrr, si dovrà necessariamente provvedere altrimenti». Secondo le società scientifiche del Forum, la carenza di personale e di posti letto, renderà impossibile l’attuazione di quanto previsto dal Pnrr sulla medicina territoriale. Le case di comunità rischiano di restare cattedrali nel deserto senza alcun collegamento con gli ospedali. È impensabile, infatti, trasferire i camici bianchi dalle strutture ospedaliere a quelle territoriali. Un’altra piaga è rappresentata dalle liste d’attesa. Per visite specialistiche e esami diagnostici ai quali spesso è legata la sopravvivenza del paziente se effettuati con tempestività, può anche trascorrere un anno. E al malato non resta che rivolgersi al privato. Nel 2021, secondo la Ragioneria dello Stato, la spesa privata ha raggiunto 37,16 miliardi, pari al +20,7% rispetto al 2020. In numerose situazioni l’intramoenia e il pronto soccorso diventano, per paradosso, l’unica porta di accesso al Servizio sanitario nazionale. Cittadinanzattiva ha svolto un monitoraggio per 6 diverse tipologie di visite specialistiche ed esami diagnostici (visita cardiologica, ginecologica, pneumologica, oncologica, ecografia addominale, mammografia) in 12 grandi Asl di quattro Regioni (Lazio, Emilia Romagna, Liguria e Puglia). La situazione peggiore si riscontra in Puglia. Nella Asl di Lecce nessuna visita pneumologica con priorità D è garantita entro i 30 giorni previsti mentre nell’Asl di Bari soltanto il 9,38% delle visite ginecologiche con priorità B e il 14,39% delle ecografie complete all’addome sempre con priorità B, sono garantite entro i 10 giorni previsti. In Liguria sono stati sforati i tempi di legge fino a 5 volte. Per un’ecografia addominale completa con priorità D (cioè da fare entro 60 giorni), nell’Area metropolitana di Genova, bisogna attendere fino a 270 giorni. Per l’ecocolordoppler con priorità D l’appuntamento viene fissato dopo 318 giorni rispetto ai 30 massimi previsti dalla legge. Tre mesi e mezzo di attesa per una mammografia con prescrizione B, che andrebbe eseguita entro 10 giorni, in Asl5 Spezzina, quattro mesi per una visita cardiologica B in Asl1 Imperiese, nove mesi per una ecografia all’addome, con richiesta P (da eseguire entro 120 giorni) in Asl3 Genovese. Nell’Area metropolitana di Genova, per la risonanza magnetica encefalo, 221 giorni rispetto ai max 30 previsti.In Emilia Romagna, a Reggio Emilia per la visita pneumologica le tempistiche vengono rispettate solo nel 39% dei casi, mentre a Bologna, per la visita cardiologica, nel 57% dei casi. Nel Lazio, anche se la situazione complessiva è migliore, non mancano alcune criticità: per un’ecografia addominale completa con priorità B (da eseguire entro 10 giorni), nell’Asl Roma 4 i tempi di attesa sono rispettati solo nel 18,2% dei casi; per una visita cardiologica con priorità D (entro 60 giorni), nell’Asl di Viterbo si registrano tempi di attesa rispettati nel 47,2% dei casi. 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I proclami del presidente, Vincenzo De Luca per una sanità migliore, post pandemia, sono rimasti al livello di marketing politico. Dal monitoraggio di Cittadinanzattiva è emerso che il numero delle prestazioni erogate negli ospedali è inferiore a quelle effettuate in intramoenia, cioè dagli stessi medici all’interno delle medesime strutture ma in modo privato. Nel 2022, presso il Cardarelli di Napoli sono state somministrate 1255 visite ortopediche in intramoenia a fronte di 112 nel pubblico; presso l’ospedale dei Colli sempre a Napoli, nessun eco addome è stato somministrato nel pubblico, ne sono stati fatti 111 in intramoenia; presso l’ospedale Moscati di Avellino, sono state effettuate 7 visite cardiologiche pubbliche e 979 in regime di intramoenia; al San Giovanni di Dio e Ruggi D’Aragona a Salerno, 91 ecografie ostetriche nel canale pubblico e 329 in intramoenia. Il Garante dei diritti delle persone con disabilità della Regione Campania, l’avvocato Paolo Colombo ha lanciato l’allarme: «occorre intervenire sulle liste d’attesa attraverso un investimento sulle risorse umane e tecniche e un conseguente ampliamento degli orari di apertura al pubblico degli ambulatori, nonché attraverso la messa in rete nei Cup delle agende di prenotazione di tutte le strutture sanitarie pubbliche e private convenzionate per favorire una migliore programmazione e trasparenza dei tempi di attesa. E non da ultimo bloccando, a livello regionale, le prestazioni in intramoenia laddove queste superino come numero quelle erogate nel canale pubblico, come previsto dallo stesso Piano nazionale di governo delle liste di attesa». Il sindacato degli infermieri Nursind sottolinea il mancato utilizzo dei fondi stanziati. Nel 2022 l'utilizzo dei fondi extra messi nel piatto da Mef e ministero della Salute, è stato un flop. «Su 44,48 milioni assegnati, le Asr hanno speso, al 31 dicembre 2022, soltanto 22,46 milioni mentre le previsioni di spese per il 2023 comunicate dalle Aziende sono pari a 12,70 milioni. Si desume, pertanto, che le Aziende sanitarie regionali non abbiano utilizzato circa 25,31 milioni di finanziamenti statali per abbattere le liste di attesa che avrebbero potuto garantire ai cittadini l’erogazione di prestazioni in regime pubblico» Secondo il sindacato “oltre al danno c’è anche la beffa. Dalla delibera della giunta n. 379/2023 emergerebbe che la maggior parte dei contributi assegnati alle aziende sanitarie verrebbero ora dirottati agli istituti privati accreditati, senza alcuna garanzia oggettiva di recupero delle liste di attesa». Eugenio Gragnano, componente della segreteria regionale dell’Anaao spiega che l’emergenza delle liste d’attesa, è determinata principalmente dalla carenza del personale. «Gli ospedali sono assorbiti dalla routine dei ricoveri e il personale che deve spartirsi tra i reparti e il pronto soccorso, può occuparsi dell’ambulatorio solo marginalmente. A questo si aggiunge un problema di organizzazione. Il sistema di prenotazione sulla piattaforma online è rivolto a più destinazioni e non si riesce a capire chi ha disdetto o chi pur avendo indicato la data, poi non si presenta. E’ un meccanismo che va organizzato meglio». Quanto all’intramoenia «capisco che i dati indicati da Cittadinanzattiva possano creare sconcerto ma se li consideriamo in rapporto all’attività generale dell’ospedale, ad esempio nel Cardarelli, rappresentano meno del 7%. Il problema è la criticità del sistema, l’approccio alle cure è diventato difficile e l’intramoenia si presenta come una alternativa per il paziente che non può attendere». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-paradosso-della-sanita-2662861944.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="puglia-visite-ginecologiche-prioritarie-solo-il-938-rispetta-i-tempi" data-post-id="2662861944" data-published-at="1691410731" data-use-pagination="False"> Puglia: visite ginecologiche prioritarie, solo il 9,38% rispetta i tempi La Puglia non riesce a rispettare i tempi di attesa previsti dal Piano nazionale di governo. Si supera abbondantemente un mese per una visita pneumologica che andrebbe effettuata entro poche settimane mentre solo il 9,38% delle visite ginecologiche con priorità sono garantite entro i 10 giorni previsti. Nella Asl di Taranto, dove i tempi di attesa vengono rispettati almeno nel 33% dei casi, il report di Cittadinanzattiva registra picchi negativi. Una visita pneumologica, solo nel 20% dei casi, viene effettuata in tempo. Giancarlo Donnola, consigliere nazionale Anaao (l’Associazione dei medici dirigenti) e segretario aziendale nella Asl di Taranto, indica, tra le cause del fenomeno, anche il meccanismo del cosiddetto «rilancio», ovvero l’apertura a termine, per un periodo preciso (prima sei mesi ora portato a dodici) della possibilità di prenotare un esame diagnostico o una visita specialistica. «Qualora lo specialista non chieda la riapertura delle agende, queste, allo scadere, rimangono chiuse e non si possono fare altre prenotazioni», spiega il sindacalista. Quali sono gli effetti? «Innanzitutto si impedisce di evidenziare la lunghezza effettiva dei tempi di attesa. Poi il paziente non riesce a far ricorso al Piano nazionale di governo delle liste d’attesa, secondo il quale ci sono tempi massimi di attesa per alcune prestazioni, ben 58 tra visite specialistiche, esami diagnostici e interventi chirurgici. In base a tale Piano si può andare dal privato pagando solo il ticket previsto nel pubblico se entro 60 giorni non è stato fissato l’appuntamento nel sistema sanitario nazionale. Questa opzione risulta impossibile se non si riesce a prenotare e quindi a dimostrare il ritardo nell’erogazione. Quindi i pazienti che vanno da un privato non possono richiedere il rimborso del costo della visita». Il sindacalista sottolinea come altro fattore che determina le liste d’attesa, la diminuzione degli ambulatori. «I medici di reparto vengono inviati con ordine di servizio, per un mese, in pronto soccorso, ormai in agonia». Infine, c’è «l’impossibilità a prenotare esami e visite presso centri privati, tramite i portale web della Regione». Il risultato di questa situazione è che «per una visita cardiologica con codice di priorità P, la prima data utile è l’8 marzo 2024. O per una ecografia all’addome, il 7 marzo del prossimo anno», spiega Donnola. A questo si aggiunge il mancato completamento del nuovo ospedale, la mancanza di anestesisti e il numero limitato di sale operarorie. Drammatica la chirurgia vascolare del SS. Annunziata, che «ha solo due sedute settimanali per operare pazienti ischemici». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-paradosso-della-sanita-2662861944.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="molise-nella-cardiologia-di-isernia-macchinari-rotti-da-7-mesi" data-post-id="2662861944" data-published-at="1691410731" data-use-pagination="False"> Molise, nella cardiologia di Isernia macchinari rotti da 7 mesi Il Molise ha speso solo l’1,7% pari a 45.000 euro, di quanto messo a disposizione, circa 2,5 milioni, dal governo Draghi, per il recupero delle prestazioni non erogate e per ridurre i tempi di attesa delle prestazioni diagnostiche e delle visite specialistiche. Il dato è contenuto nel report di Cittadinanzattiva che sottolinea la necessità di un maggior numero di medici. Ma il problema non è solo la mancanza dei camici bianchi. Nella cardiologia di Isernia un macchinario è rotto da sette mesi e le prenotazioni per un ecocolordoppler sono state annullate fino a novembre. C’è chi lamenta lunghe attese anche per fare una prenotazione, come documentato da un servizio del Tgr Molise. A marzo scorso un paziente ha denunciato all’Ansa che all’ospedale Cardarelli di Campobasso, occorre aspettare sette mesi per effettuare una risonanza magnetica alla prostata, nonostante il medico di base abbia scritto nell’impegnativa «nel più breve tempo possibile; se differibile entro 72 ore», specificando nel quesito diagnostico «pregresso k prostata». Sul disservizio sanitario della Regione è intervenuto lo stesso ministro, Orazio Schillaci, che ha incontrato i sindaci del Molise e ha parlato di «ritardi inaccettabili», richiamando le amministrazioni locali. La mancanza di personale e l’ingolfamento delle liste per le prestazioni, rischiano di impedire l’applicazione di quanto deciso a livello nazionale, per aggiornare le prestazioni. Dopo un iter lungo più di sei anni è stato approvato in Conferenza Stato Regioni il decreto Tariffe che rivede il nomenclatore tariffario dei Livelli essenziali di assistenza. Si tratta dell’elenco delle prestazioni che il Servizio sanitario può erogare e con quali costi. È un asso importante giacché la tecnologia, in campo medico, è velocissima e le innovazioni sono continue. Far riferimento ad un nomenclatore vecchio vuol dire escludere dal sistema pubblico tutti gli esami con macchinari all’avanguardia che resterebbero ad appannaggio dei privati. Ma ciò che è stato deciso a livello nazionale ora deve essere declinato sul territorio dalle Regioni. Certo è che avere i macchinari migliori e non riuscire a utilizzarli per le liste d’attesa chilometriche sarebbe un enorme autogol. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem4" data-id="4" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-paradosso-della-sanita-2662861944.html?rebelltitem=4#rebelltitem4" data-basename="in-sardegna-interi-reparti-senza-personale-restano-chiusi" data-post-id="2662861944" data-published-at="1691410731" data-use-pagination="False"> In Sardegna interi reparti senza personale restano chiusi Mettersi in coda e aspettare anche fino al 2024. Ammalarsi in Sardegna può diventare un calvario. Le Acli hanno scattato una fotografia impietosa dei tempi di attesa biblici, perfino per i casi più gravi. «I genitori di bambini con patologie dello spettro autistico segnalano come le visite con un neuropsichiatra infantile siano rinviate molto spesso al 2024, costringendo a costose visite private per ottenere i piani di trattamento», affermano Salvatore Sanna, presidente di Acli Salute, e Luciano Turini, rappresentante di Acli Assoconfam. A soffrire in particolare è il Centro-Nord Sardegna - precisano i referenti delle Acli - «dove la difficile situazione di molti reparti ospedalieri, da Sassari ad Alghero e fino a Ozieri, è ampiamente riconosciuta senza che si intravvedano segnali di miglioramento». Non solo: «Si aggiunge il fatto che la disponibilità di strutture private convenzionate con la Regione è molto limitata rispetto al Sud Sardegna, con una disponibilità pro-capite del 10% rispetto a Cagliari, Sulcis e al Medio Campidano. È del tutto evidente che se i tempi delle liste di attesa sono già inaccettabili nel Sud Sardegna, quelle del Centro-Nord Sardegna sono fuori legge e anti costituzionali». La situazione è aggravata dalla mancanza di personale. A Nuoro ed Oristano, interi reparti ospedalieri sono stati chiusi e altri funzionano male per mancanza di personale medico, tecnico e infermieristico. A Nuoro l’ospedale San Francesco è stato fortemente ridimensionato. A Oristano il San Martino vive in uno stato di crisi permanente. La conseguenza è che, non potendo contare sulle strutture pubbliche, chi deve curarsi non ha altra soluzione che ricorrere sempre di più ai privati. La Regione risulta ultima nella classifica di Fondazione Gimbe per l’erogazione delle prestazioni garantite dai Livelli essenziali di assistenza. L’isola garantisce solo il 56,3% dei servizi essenziali. Qualche esempio di tempi d’attesa ad aprile scorso, forniti dalla Regione che sottolinea il miglioramento rispetto al 2018, quasi fosse un successo: per le prime visite di chirurgia vascolare (28 giorni in media, contro gli 84 registrati nello stesso periodo del 2018), oculistica (73 giorni contro 119), ginecologia (19 contro 36) e urologia (101 giorni nel 2023 contro 111 del 2018). Per una mammografia monolaterale bisogna aspettare 118 giorni. Per una risonanza magnetica del tronco encefalico e all’addome, bisogna pazientare 99 giorni.
Mohamed Shahin (Ansa)
Lo scorso 24 novembre, il Viminale aveva disposto l’espulsione dell’imam, denunciandone il «ruolo di rilievo in ambienti dell’islam radicale, incompatibile con i principi democratici e con i valori etici che ispirano l’ordinamento italiano» e definendolo «messaggero di un’ideologia fondamentalista e antisemita», oltre che «responsabile di comportamenti che costituiscono una minaccia concreta attuale e grave per la sicurezza dello Stato». Il ministero dell’Interno si era mosso dopo che Shahin, alla manifestazione pro Pal del 9 ottobre, si era dichiarato «d’accordo» con le stragi del 7 ottobre 2023, da lui definite una «reazione all’occupazione israeliana dei territori palestinesi». Parole che, a giudizio della Procura torinese, rappresentano l’«espressione di un pensiero che non integra gli estremi di reato».
Lunedì, il verdetto che lo ha liberato dal Cpr siciliano - l’uomo è stato trasferito in una località segreta del Nord - è stato accompagnato da una polemica sul suo dossier, reso top secret dal dicastero. Ciò non ha impedito ai giudici di «prendere atto» di «elementi nuovi», rispetto a quelli disponibili alla convalida del trattenimento. Tra essi, l’immediata archiviazione del procedimento per le frasi sugli attacchi di Hamas. Inoltre, per le toghe, pur avendo partecipato a un blocco stradale, il 17 maggio scorso, nel comportamento dell’imam non si ravvisava alcun «fattore peculiare indicativo di una sua concreta e attuale pericolosità». E i suoi «contatti con soggetti indagati e condannati per apologia di terrorismo», recitava la nota della Corte, «sono isolati e decisamente datati», «ampiamente spiegati e giustificati». Un cittadino modello.
In realtà, scavando, si appura che i controversi legami di Shahin, ancorché «datati» e «giustificati», sono comunque inquietanti. Secondo quanto risulta alla Verità, nel 2012, quest’individuo bene «integrato» sarebbe stato fermato dalla polizia di Imperia assieme a Giuliano Ibrahim Delnevo. Chi era costui? Uno studente genovese di 23 anni, convertito all’islam e ucciso nel 2013 in Siria, dove stava combattendo con i ribelli di Al Nusra, affiliata ad Al Qaida. Sempre nel 2012, l’imam fu immortalato nella foto che pubblichiamo qui accanto, al fianco di Robert «Musa» Cerantonio, il «jihadista più famoso d’Australia» - in Australia si è appena consumata la mattanza di ebrei - condannato nel 2019. Cerantonio fu ripreso anche davanti a San Pietro con la bandiera nera dell’Isis. Minacciò: «Distruggeremo il Vaticano». Cinque anni più tardi, nell’ambito delle indagini su un musulmano radicalizzato a Torino, Halili Elmahdi, sarebbe stata registrata una conversazione nella quale il sospettato consigliava a un’altra persona di rivolgersi a Shahin. Intendiamoci: Halili Elmahdi era considerato il «filosofo dell’Isis» ed evocava il «martirio» e la «guerra santa» come unica via per «i buoni musulmani». Se i contatti di Shahin sono datati, forse c’è una ragione che non ha per forza a che fare con la svolta moderata dell’imam di Torino: Delnevo è morto 12 anni fa; Elmahdi è rimasto in carcere fino al 2023.
Ieri, a 4 di sera su Rete 4, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, caustico verso certe sentenze «fantasiose», frutto di un «condizionamento ideologico», ha confermato i «segnali di vicinanza di Shahin a soggetti pericolosi», andati «a combattere in scenari di guerra come quello della Siria». Era il caso di Delnevo, appunto. Alla domanda se l’imam fosse pericoloso, Piantedosi ha risposto che «lo era per gli analisti, per gli operatori, per le cose che avevamo agli atti». Non per i giudici. La cui decisione «ci amareggia, perché vanifica il lavoro che c’è dietro, degli operatori di polizia che finora hanno tenuto immune il nostro Paese dagli attentati terroristici».
È questo il nocciolo della questione. Giorgia Meloni, lunedì, ha usato toni durissimi: «Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani», ha tuonato, «se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?». Nell’esecutivo serpeggia autentica preoccupazione. La Verità ha appreso che, da quando a Palazzo Chigi si è insediata la Meloni, sono stati espulsi dall’Italia ben 215 islamici radicalizzati. In pratica, uno ogni cinque giorni. È questa vigilanza, associata al lavoro di intelligence, che finora ha preservato il nostro Paese. La magistratura applica le norme, bilanciando gli interessi legittimi. Ed è indipendente. Ma sarebbe bene collaborasse a tutelare l’incolumità della gente comune. Ad andare troppo per il sottile, si rischia di finire come il Regno Unito, dove i tribunali islamici amministrano una giustizia parallela, basata sul Corano. Per adesso, lo spirito è un altro: l’Anm del Piemonte si è preoccupata solo delle «esternazioni di alcuni membri del governo» e dell’«attività di dossieraggio riscontrata anche nell’ambito di plurimi social network» sui giudici che hanno liberato il predicatore, ai quali l’associazione ha manifestato «piena e incondizionata solidarietà».
Ieri sera, l’imam di Torino ha auspicato di poter «portare avanti quel progetto di integrazione e inclusione, di condivisione di valori positivi e di vita pacifica, di fede e di dialogo, intrapreso tanti anni fa». Ma per lui, la partita giudiziaria non è chiusa. Il Viminale ha annunciato ricorso contro la liberazione dal Cpr. Lunedì ci sarà un’udienza al Tar del Lazio sull’annullamento del decreto di espulsione di Piantedosi. Gli avvocati di Shahin hanno impugnato anche la revoca del permesso di soggiorno di lungo periodo davanti al Tar del Piemonte; se ne riparlerà a gennaio. Infine, c’è la richiesta di protezione internazionale avanzata dall’imam. La Commissione territoriale di Siracusa l’aveva respinta, ma il tribunale di Caltanissetta ha sospeso il pronunciamento alla luce dalla «complessità della vicenda in esame». Un bel paradosso: dovremmo dare asilo a uno che officia i matrimoni plurimi? Altro che pro Pal: in piazza ci vorrebbero le femministe.
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Lasciando perdere il periodo della pandemia, credo che sia sufficiente prendere i dati economici conseguiti dal nostro Paese. Secondo le previsioni, l’arrivo a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni, cioè di una populista in camicia nera, avrebbe contribuito a scassare i conti pubblici e a farci perdere quel briciolo di rispetto che era stato conquistato con Mario Draghi alla guida del governo. Invece niente di tutto questo è accaduto. In tre anni sono stati smantellati il reddito di cittadinanza e il Superbonus, dando garanzia ai mercati sul contenimento del deficit sotto il 3 per cento. I poveri non sono aumentati, come invece sosteneva l’opposizione e prima ancora qualche professore. Né sono crollate le imprese edili. I salari sono saliti e, anche se non hanno recuperato il gap degli anni precedenti, quanto meno sono stati al passo con l’inflazione dell’ultimo triennio. Quanto all’occupazione il saldo è positivo, come da tempo non si vedeva. Per non parlare poi dei dazi, di cui la sinistra unita ai suoi trombettieri quotidiani attribuiva la responsabilità indiretta all’attuale maggioranza, giudicata troppo trumpiana. Nonostante l’aumento delle tariffe, l’export delle nostre imprese verso gli Stati Uniti è andato addirittura meglio che in passato.
I centri per il trattenimento e il rimpatrio in Albania, tanto criticati dai compagni e dalla stampa e osteggiati in ogni modo dalla magistratura, dopo oltre un anno di pregiudizi ora sono ritenuti una soluzione possibile se non auspicabile addirittura dal Consiglio d’Europa.
Ma il meglio la classe politica e quella giornalistica l’hanno dato con la guerra in Ucraina. Per anni ci sono state raccontate un cumulo di fesserie, sia sull’efficacia delle sanzioni messe in campo contro la Russia (ricordate la famosa atomica finanziaria, ossia l’esclusione della banche russe dal circuito delle transazioni internazionali, che avrebbe dovuto mettere Putin con le spalle al muro in un amen?) sia sugli armamenti decisivi del conflitto che America ed Europa avrebbero potuto mettere a disposizione di Kiev. Per non dire poi delle iniziative Ue, con i volenterosi a spacciare patacche per soluzioni. Anche in questo caso l’Italia era descritta come una Cenerentola, tenuta ai margini delle iniziative concordate da quei due fulmini di guerra di Keir Starmer e Emmanuel Macron: fosse per loro, e per i giornalisti che gli hanno dato credito, la tregua forse si raggiungerebbe nel secolo prossimo venturo. Tralascio quelli che spingevano per il riconoscimento della Palestina, invitando a seguire l’esempio di Francia e Spagna: come si è visto, le varie dichiarazioni non sono servite a nulla e l’unica speranza per Gaza era e resta il piano di Trump.
Che dire? Se i giornaloni volessero riconoscere di aver scritto una montagna di sciocchezze andremmo avanti per settimane. Ma state tranquilli, nemmeno questa volta ammetteranno gli errori. Sono giornalisti con l’eskimo, mica cretini.
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Roberto Gualtieri (Ansa)
Già da circa un anno il deflusso dei visitatori è contingentato, con un tetto massimo di 400 persone che possono sostare nell’area. Ma dal nuovo anno la novità sembrerebbe essere tutta nelle code: due corsie separate, una per i romani e l’altra per i turisti che dovranno pagare il ticket.
La scelta, voluta dall’assessore al Turismo e grandi eventi Alessandro Onorato e condivisa dall’amministrazione comunale guidata dal sindaco Roberto Gualtieri, va nella direzione di salvaguardare la fontana più grande di Roma, capolavoro tardo-barocco di Nicola Salvi. I numeri, del resto, parlano chiaro: soltanto nei primi sei mesi di quest’anno la Fontana di Trevi ha registrato oltre 5,3 milioni di visitatori, più di quanti ne ha totalizzati il Pantheon nell’intero 2024 (4.086.947 ingressi).
Ma la decisione sembrerebbe non essere ancora ufficiale. «Si tratta solo di una ipotesi di lavoro», precisa il Campidoglio in una nota, «su cui l’amministrazione capitolina, come è noto, sta ragionando da tempo. Tuttavia, ad oggi, non sono state decise date, né sono state prese decisioni in merito».
Nonostante questo, già insorgono voci contro il ticket per i turisti. «Siamo da sempre contrari alla monetizzazione di monumenti, piazze, fontane e siti di interesse storico e culturale, e crediamo che istituire biglietti di ingresso a pagamento sia un danno per i turisti», tuona il Codacons, «i soldi raccolti non vengono utilizzati per migliorare i servizi all’utenza ma solo per coprire i buchi di bilancio». L’associazione dei consumatori, pur opponendosi al ticket, sostiene gli ingressi contingentati.
Ancora più duro il vicepresidente del Senato e responsabile Turismo della Lega, Gian Marco Centinaio: «Il Comune di Roma non può impedire la libera circolazione dei turisti su uno spazio pubblico. È come fare uscire Fontana di Trevi dall’Unione europea». Secondo Centinaio, «Gualtieri e Onorato vogliono solo fare cassa a scapito di chi viene a visitare la Capitale».
Che ci sia bisogno di una regolamentazione dei flussi turistici per evitare sovraffollamenti è fuori discussione. Ma la sensazione è che l’amministrazione capitolina, dopo aver incassato per anni le monetine che i turisti lanciano nella fontana (tradizione che vale circa 1,5 milioni di euro annui devoluti alla Caritas), ora voglia tassare anche l’ingresso.
Se l’ipotesi diventasse realtà, il turista del futuro pagherebbe 2 euro per entrare, poi lancerebbe la sua monetina per tornare a Roma, spendendo di fatto 3 euro per un solo desiderio. Una sorta di tassa anticipata sul gesto più iconico della Capitale. Del resto, perché aspettare che i visitatori lancino spontaneamente le monete quando si potrebbe riscuotere subito alla porta? L’amministrazione Gualtieri avrebbe semplicemente tagliato i tempi: il Comune incasserebbe prima, la Caritas dopo. Il turista, nel frattempo, girerebbe le spalle alla fontana e lancerebbe la sua moneta, ignaro di averla già praticamente pagata al botteghino. Magari con carta di credito e scontrino fiscale. La leggenda dice che chi lancia una moneta nella Fontana di Trevi tornerà a Roma. E probabilmente è vero: per vedere cos’altro sia diventato a pagamento nel frattempo.
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Keir Starmer (Ansa)
Le roboanti promesse di porre un argine all’illegalità diffusa, ovviamente, sono rimaste lettera morta. Eppure, non tutto è perduto. Per dare un segnale forte ai cittadini, l’esecutivo laburista ha avuto un’idea geniale: elaborare una nuova definizione di «odio anti musulmano». Pochi giorni dopo l’efferata strage di matrice islamista a Sydney, infatti, la Bbc ha reso noto che il lungo lavoro del ministero per le Comunità e gli enti locali ha partorito una bozza quasi ufficiale. Stando al documento, divulgato in anteprima dall’emittente britannica, ecco la nuova definizione di islamofobia: «L’ostilità anti musulmana è il compimento o l’incitamento ad atti criminali, compresi atti di violenza, vandalismo contro la proprietà, molestie e intimidazioni - fisiche, verbali, scritte o veicolate elettronicamente - dirette contro i musulmani o contro persone percepite come musulmane a causa della loro religione, etnia o aspetto». In tale fattispecie, «rientrano inoltre l’uso di stereotipi pregiudiziali e la “razzializzazione” dei musulmani come gruppo collettivo dotato di caratteristiche prefissate».
Effettivamente, si fa fatica a prendere sul serio un documento del genere: per esempio, che vorrà mai dire «persone percepite come musulmane»? Mistero della fede progressista. Eppure, la gestazione di questa perla di vacuità dialettica ha tenuto impegnata un’intera commissione per la bellezza di quasi un anno: il gruppo di lavoro era stato istituito lo scorso febbraio, con a capo l’ex procuratore generale Dominic Grieve, e i suoi risultati erano stati presentati all’esecutivo in ottobre.
Tra i passaggi più controversi - e futili - c’è anche il riferimento al concetto di «razzializzazione», ennesimo neologismo cacofonico che tanto piace ai sacerdoti del politicamente corretto. Per difendere la scelta, è scesa in campo Shaista Gohir in persona, baronessa di origine pachistana e membro di punta della commissione. Stando alla pasionaria islamica, che siede nella Camera dei Lord, «questa definizione riconosce anche che i musulmani sono spesso presi di mira non solo per le loro convinzioni religiose, ma anche per l’aspetto, la razza, l’etnia o altre caratteristiche», ha spiegato. «L’inclusione del concetto di razzializzazione dà riconoscimento a queste esperienze vissute».
Chiacchiere a parte, occorre specificare che questa definizione di «odio anti musulmano» non avrà valore normativo: non sarà cioè né sancita per legge né giuridicamente vincolante, ma offrirà una formulazione di riferimento che gli enti pubblici potranno adottare. Eppure, è proprio qui che sta la fregatura. Non a caso, contro quest’obbrobrio politicamente corretto si è scagliata con forza la Free speech union, autorevole organizzazione britannica nata nel 2020 per tutelare la libertà d’espressione dai deliri dei questurini progressisti: «Questa definizione è superflua, perché è già un reato incitare all’odio religioso ed è già illegale per datori di lavoro o fornitori di servizi discriminare le persone sulla base della loro religione o delle loro convinzioni», ha tuonato il fondatore e presidente dell’associazione, il lord conservatore Toby Young. «Concedere ai musulmani tutele aggiuntive non estese ad altri», ha aggiunto, «avrà l’effetto di aumentare l’ostilità anti musulmana, anziché ridurla». In effetti, di fronte al fallimento del multiculturalismo reale, i laburisti rispondono con il multiculturalismo lessicale. Non potendo controllare le strade, tentano di controllare il linguaggio. Con il risultato paradossale di rendere ancor più fragile la libertà di parola e ancor più esplosivo il conflitto che fingono di voler disinnescare.
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