2018-09-16
Il paradosso del caso della Diciotti. Fermare l’azione di governo è reato?
Matteo Salvini sostiene di aver ricevuto il mandato a ridurre il fenomeno migratorio, e di agire di conseguenza. E un articolo del codice punisce chi tenta di impedire all'esecutivo l'esercizio delle prerogative di legge.Presidente onorario aggiunto Corte di cassazioneL'8 settembre scorso l'Ansa ha dato notizia del comunicato col quale il segretario di Magistratura indipendente, Antonello Racanelli, procuratore aggiunto a Roma, ha dato atto a Matteo Salvini di avere abbassato i toni nella sua polemica con i magistrati a seguito dell'imputazione di sequestro di persona elevatagli per l'affare dei migranti bloccati a bordo della nave Diciotti. Conseguentemente Racanelli ha auspicato che anche la magistratura faccia la sua parte, evitando «di rincorrere quotidianamente le dichiarazioni dei politici, che hanno tutto da guadagnare se si alzano i toni». È stato senz'altro giusto - ha detto - che l'Anm abbia «difeso l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, ma rincorrere quotidianamente i politici è una strada che non porta da nessuna parte. E anche noi dobbiamo fare autocritica, denunciando le interferenze dei gruppi associativi della magistratura nella politica». Occorre, difatti, evitare di «ripiombare nel clima di 20 anni fa del conflitto che ha fatto solo danni al Paese e alla magistratura».Auspici condivisibili. Tuttavia un po' discutibile, nell'ultima parte del comunicato, il richiamo alla situazione di vent'anni fa, quella, per intenderci, dell'epoca di Silvio Berlusconi. La differenza sostanziale è costituita dal fatto che l'imputazione rivolta a Salvini ha per oggetto atti squisitamente politici, anzi direttamente connessi con le sue funzioni di ministro, quindi atti di governo. Ovviamente i ministri non sono legibus soluti e possono essere chiamati a rispondere anche di atti essenzialmente politici. Proprio per questo è stato costituito il Tribunale dei ministri. La prima esternazione del ministro Salvini, «io sono stato eletto dal popolo e i giudici no», ha, quindi, tutta l'aria di una reazione scomposta, diciamo «da bar». Tuttavia se, anche alla luce di tutte le cose dette nel corso della polemica, la si traduce in termini giuridici, si tratta di affermazioni tutt'altro che eversive e perfettamente inquadrabili nel nostro sistema giuridico costituzionale.In definitiva Salvini ha inteso dire - e lo ha chiaramente esplicitato nelle successive dichiarazioni - «io con l'elezione ho ricevuto dal popolo sovrano l'incarico di bloccare o comunque di ridurre il fenomeno migratorio e, di conseguenza, questo non solo posso, ma sono tenuto a fare. Voi dallo stesso popolo sovrano non avete invece avuto l'incarico di ostacolarmi».Un discorso al quale un giurista avrebbe potuto attribuire piena dignità giuridico costituzionale, utilizzando termini diversi e richiamando, come potenzialmente non estranea al caso, la norma di cui all'articolo 289 del codice penale, che punisce con «la reclusione da uno a cinque anni, qualora non si tratti di un più grave delitto chiunque commette atti violenti diretti ad impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente al presidente della Repubblica o al governo l'esercizio delle attribuzioni o prerogative conferite dalla legge».«Chiunque», quindi, in ipotesi, anche un magistrato nell'esercizio delle sue funzioni può rendersene colpevole, esattamente come può commettere reati (e non andarne indenne) un ministro.Sia chiaro, non si sostiene affatto che il procuratore della Repubblica di Agrigento, inquisendo Salvini e addebitandogli una serie di reati (poi - pare - ridotti a uno dalla procura di Palermo), si sia effettivamente reso responsabile del delitto in questione, ma soltanto che l'ipotesi criminosa di cui all'articolo 289 può essere realizzata anche dall'iniziativa processuale di un magistrato che incrimini un ministro con la dolosa intenzione di bloccare o rendere difficile («in tutto o in parte, anche temporaneamente») l'attività di governo (è richiesto il dolo specifico, ma trattandosi, come per tutti i reati contro la personalità dello Stato, di un reato di pericolo, non occorre, per l'esistenza del reato, che venga conseguito lo scopo, cioè l'effettivo blocco dell'attività del governo).Quella qui formulata è un'ipotesi astratta, per così dire di scuola, e nel caso concreto si può senza dubbio ritenere l'insussistenza del necessario dolo specifico di cui si è appena detto, ma non così gli altri elementi costitutivi del reato.È difatti indubbio che la drastica riduzione o addirittura la cessazione degli sbarchi non autorizzati di migranti faccia parte del programma di governo e che alla sua realizzazione sia preposto in prima linea il ministro degli Interni, che proprio per questo ha avuto al proprio fianco, non per una semplice manifestazione di solidarietà, ma per condivisione e assunzione di responsabilità in ordine a quanto fatto, il presidente del Consiglio e gli altri ministri con competenze in materia.Del resto, che non si fosse in presenza di un «normale» sequestro di persona, anzi di persone, lo deve avere percepito nella sua sensibilità giuridica anche il procuratore, che, difatti, scendendo dalla nave non ha ordinato, come verosimilmente avrebbe fatto in ogni altro caso, l'immediata liberazione dei sequestrati.Ai fini del reato si richiede, è vero, che la condotta diretta ad impedire si estrinsechi in «atti violenti». Tuttavia proprio al riguardo di questa figura criminosa (come per altre) la dottrina distingue fra violenza propria, che si estrinseca nell'impiego di energia fisica sulle persone o sulle cose, e impropria, che si realizza quando si utilizza un qualsiasi mezzo idoneo a coartare la volontà del soggetto passivo, annullandone la capacità di azione o determinazione (anche se, trattandosi, come prima indicato, di un reato di pericolo, lo scopo non viene raggiunto).E un'incriminazione come quella elevata al ministro degli Interni è indubbiamente suscettibile di metterne in pericolo la libertà di determinazione in ordine all'attuazione di quella parte del programma di governo che vi è coinvolta.Se, prima di parlare da uomo di partito, Salvini si fosse consultato con un legale e si fosse attenuto a ipotesi e formulazioni giuridiche, forse lo scontro, traducendosi in un esposto contro il procuratore di Agrigento, sarebbe stato ancora più grave e dirompente sicché, tutto sommato, è meglio che sia andata così, ma la polemica politico-partitica subito scatenatasi avrebbe sì potuto parlare di infondatezza e pretestuosità dell'accusa, ma non accusare di mancato rispetto dell'ordinamento giuridico costituzionale un ministro che avesse invocato indagini per valutare l'applicabilità di una norma del codice penale.