I critici più moderati del ddl Zan, «Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale, sull'identità di genere e sulla disabilità», forse per non passare per sostenitori di quella che è (o era) la «morale cattolica», ne criticano, più che il contenuto, i difetti di chiarezza del testo, che non garantisce quel diritto dei cittadini, più volte ricordato al legislatore dalla Corte costituzionale, di percepire in anticipo con certezza il discrimine fra condotte lecite e condotte punibili. Osservazioni parziali, ma esatte, soprattutto perché si tratta di un provvedimento che non aspira solo a garantire i diritti di una minoranza che si assume discriminata ed emarginata, ma mira a realizzare, anche introducendo nuovi limiti a diritti costituzionalmente garantiti (libertà di espressione, diritto dei genitori all'educazione dei figli, libertà di insegnamento), una nuova visione del mondo, come dimostrano l'Istituzione della «Giornata nazionale contro l'omofobia, la lesbofobia, la biofobia e la transfobia» di cui all'art. 7, e la strategia scolastica prevista dal successivo art.8. Difetti cui alcuni commentatori collegano la scelta del ddl, considerata inopportuna, perché diverse ne sono le motivazioni culturali e psicologiche, di equiparare, ai fini della sua repressione, la transomofobia all'intolleranza razziale, etnica o religiosa attraverso l'inserimento di appositi paragrafi a provvedimenti legislativi già in essere, con particolare riguardo all'art. 604-bis del codice penale. Questo nella versione attuale punisce la «propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa» e, in caso di approvazione del Ddl, punirà anche, con le stesse sanzioni, l'istigazione a delinquere e gli atti discriminatori e violenti per motivi fondati sul «sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale, sull'identità di genere e sulla disabilità». Sembra sia stata lasciata da parte la «propaganda», forse per diminuire il forte impatto delle nuove norme sulla libertà di espressione. In ogni caso gli stessi promotori del ddl si sono resi conto di possibili difficoltà di comprensione da parte dei cittadini e all'art. 1 specificano il senso giuridico dei termini utilizzati: «sesso», «genere», «orientamento sessuale», «identità di genere». Tuttavia è proprio da questa specificazione che emerge quella che è, certamente non l'unica, ma forse la maggiore criticità, già oggetto, pur se in termini assolutamente impropri, di un esagitato scontro fra l'on. Sgarbi, che parla di «pedofilia di Stato», e i suoi difensori, che replicano non esservi nel testo alcun riferimento alla pedofilia. In realtà il problema nasce proprio dall'assenza di riferimenti alla pedofilia, che rientra a pieno titolo nella definizione fornita dall'art. 1 del Ddl: «Per orientamento sessuale si intende l'attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso o di entrambi i sessi». Di fronte ad una disposizione così chiaramente (in questo caso!) espressa, quindi non suscettibile di diversa interpretazione e in assenza di qualunque espressa eccezione, distinzione o esclusione (magari con riferimento all'età), fra le condotte sanzionate e punite dal nuovo testo dell'art. 604 bis rientrano anche quelle istigatrici, violente e discriminatorie motivate dalla «attrazione sessuale o affettiva» nei confronti di minori.
Cioè, appunto, la pedofilia. Con conseguente inclusione fra i soggetti tutelati dei pedofili e fra le condotte a loro danno punibili gli atti violenti e discriminatori e l'istigazione a commetterli. Il che è giusto, e già previsto dalla legislazione vigente, per la violenza e la relativa istigazione (sempre vietate di chiunque si tratti), ma non toglie che le sanzioni di cui al ddl Zan per gli atti discriminatori motivati dall'orientamento sessuale e il silenzio sulla pedofilia mettano a rischio di condanne alla reclusione fino a sei anni personaggi impegnati nell'attività di contrasto al fenomeno degli abusi sessuali sui minori, come Don Fortunato Di Noto, fondatore e presidente dell'Associazione Meter, che potrebbe configurarsi, secondo la nuova formulazione del 2° comma dell'art. 604 bis, come «un'associazione avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale».
È ben vero che il ddl Zan non abroga né modifica alcuna delle norme che attualmente puniscono l'abuso e lo sfruttamento dei minori, il turismo sessuale, la pedopornografia, sicché Don Di Noto potrebbe sempre invocare una causa di non punibilità o di insussistenza del reato, ma resta evidente l'inopportunità della contemporanea presenza nello stesso ordinamento giuridico di due normative che si pongono, quanto meno formalmente, in un così radicale contrasto.
Vi sono altre criticità, a cominciare dall'impatto sulla libertà d'espressione, ma quella indicata sembra particolarmente urgente, comportando la necessità, anche nell'interesse della minoranza da tutelare, di un intervento correttivo prima ancora della discussione per la definitiva approvazione in calendario al Senato.
Francesco Mario Agnoli
Magistrato, già membro del Csm
Presidente onorario aggiunto Corte di cassazione
L'8 settembre scorso l'Ansa ha dato notizia del comunicato col quale il segretario di Magistratura indipendente, Antonello Racanelli, procuratore aggiunto a Roma, ha dato atto a Matteo Salvini di avere abbassato i toni nella sua polemica con i magistrati a seguito dell'imputazione di sequestro di persona elevatagli per l'affare dei migranti bloccati a bordo della nave Diciotti. Conseguentemente Racanelli ha auspicato che anche la magistratura faccia la sua parte, evitando «di rincorrere quotidianamente le dichiarazioni dei politici, che hanno tutto da guadagnare se si alzano i toni». È stato senz'altro giusto - ha detto - che l'Anm abbia «difeso l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, ma rincorrere quotidianamente i politici è una strada che non porta da nessuna parte. E anche noi dobbiamo fare autocritica, denunciando le interferenze dei gruppi associativi della magistratura nella politica». Occorre, difatti, evitare di «ripiombare nel clima di 20 anni fa del conflitto che ha fatto solo danni al Paese e alla magistratura».
Auspici condivisibili. Tuttavia un po' discutibile, nell'ultima parte del comunicato, il richiamo alla situazione di vent'anni fa, quella, per intenderci, dell'epoca di Silvio Berlusconi. La differenza sostanziale è costituita dal fatto che l'imputazione rivolta a Salvini ha per oggetto atti squisitamente politici, anzi direttamente connessi con le sue funzioni di ministro, quindi atti di governo. Ovviamente i ministri non sono legibus soluti e possono essere chiamati a rispondere anche di atti essenzialmente politici. Proprio per questo è stato costituito il Tribunale dei ministri. La prima esternazione del ministro Salvini, «io sono stato eletto dal popolo e i giudici no», ha, quindi, tutta l'aria di una reazione scomposta, diciamo «da bar». Tuttavia se, anche alla luce di tutte le cose dette nel corso della polemica, la si traduce in termini giuridici, si tratta di affermazioni tutt'altro che eversive e perfettamente inquadrabili nel nostro sistema giuridico costituzionale.
In definitiva Salvini ha inteso dire - e lo ha chiaramente esplicitato nelle successive dichiarazioni - «io con l'elezione ho ricevuto dal popolo sovrano l'incarico di bloccare o comunque di ridurre il fenomeno migratorio e, di conseguenza, questo non solo posso, ma sono tenuto a fare. Voi dallo stesso popolo sovrano non avete invece avuto l'incarico di ostacolarmi».
Un discorso al quale un giurista avrebbe potuto attribuire piena dignità giuridico costituzionale, utilizzando termini diversi e richiamando, come potenzialmente non estranea al caso, la norma di cui all'articolo 289 del codice penale, che punisce con «la reclusione da uno a cinque anni, qualora non si tratti di un più grave delitto chiunque commette atti violenti diretti ad impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente al presidente della Repubblica o al governo l'esercizio delle attribuzioni o prerogative conferite dalla legge».
«Chiunque», quindi, in ipotesi, anche un magistrato nell'esercizio delle sue funzioni può rendersene colpevole, esattamente come può commettere reati (e non andarne indenne) un ministro.
Sia chiaro, non si sostiene affatto che il procuratore della Repubblica di Agrigento, inquisendo Salvini e addebitandogli una serie di reati (poi - pare - ridotti a uno dalla procura di Palermo), si sia effettivamente reso responsabile del delitto in questione, ma soltanto che l'ipotesi criminosa di cui all'articolo 289 può essere realizzata anche dall'iniziativa processuale di un magistrato che incrimini un ministro con la dolosa intenzione di bloccare o rendere difficile («in tutto o in parte, anche temporaneamente») l'attività di governo (è richiesto il dolo specifico, ma trattandosi, come per tutti i reati contro la personalità dello Stato, di un reato di pericolo, non occorre, per l'esistenza del reato, che venga conseguito lo scopo, cioè l'effettivo blocco dell'attività del governo).
Quella qui formulata è un'ipotesi astratta, per così dire di scuola, e nel caso concreto si può senza dubbio ritenere l'insussistenza del necessario dolo specifico di cui si è appena detto, ma non così gli altri elementi costitutivi del reato.
È difatti indubbio che la drastica riduzione o addirittura la cessazione degli sbarchi non autorizzati di migranti faccia parte del programma di governo e che alla sua realizzazione sia preposto in prima linea il ministro degli Interni, che proprio per questo ha avuto al proprio fianco, non per una semplice manifestazione di solidarietà, ma per condivisione e assunzione di responsabilità in ordine a quanto fatto, il presidente del Consiglio e gli altri ministri con competenze in materia.
Del resto, che non si fosse in presenza di un «normale» sequestro di persona, anzi di persone, lo deve avere percepito nella sua sensibilità giuridica anche il procuratore, che, difatti, scendendo dalla nave non ha ordinato, come verosimilmente avrebbe fatto in ogni altro caso, l'immediata liberazione dei sequestrati.
Ai fini del reato si richiede, è vero, che la condotta diretta ad impedire si estrinsechi in «atti violenti». Tuttavia proprio al riguardo di questa figura criminosa (come per altre) la dottrina distingue fra violenza propria, che si estrinseca nell'impiego di energia fisica sulle persone o sulle cose, e impropria, che si realizza quando si utilizza un qualsiasi mezzo idoneo a coartare la volontà del soggetto passivo, annullandone la capacità di azione o determinazione (anche se, trattandosi, come prima indicato, di un reato di pericolo, lo scopo non viene raggiunto).
E un'incriminazione come quella elevata al ministro degli Interni è indubbiamente suscettibile di metterne in pericolo la libertà di determinazione in ordine all'attuazione di quella parte del programma di governo che vi è coinvolta.
Se, prima di parlare da uomo di partito, Salvini si fosse consultato con un legale e si fosse attenuto a ipotesi e formulazioni giuridiche, forse lo scontro, traducendosi in un esposto contro il procuratore di Agrigento, sarebbe stato ancora più grave e dirompente sicché, tutto sommato, è meglio che sia andata così, ma la polemica politico-partitica subito scatenatasi avrebbe sì potuto parlare di infondatezza e pretestuosità dell'accusa, ma non accusare di mancato rispetto dell'ordinamento giuridico costituzionale un ministro che avesse invocato indagini per valutare l'applicabilità di una norma del codice penale.




