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2022-04-15
Il nemico «si ascolta». I servizi segreti italiani e la Grande Guerra
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Stazione radiotelegrafica italiana nel 1917 (Getty Images)
In Italia il Servizio Informazioni militare nacque con lo Stato Sabaudo, per poi evolvere sino alla riforma preunitaria voluta dal generale Alfonso Lamarmora del 1855, che divideva in cinque principali branche i compiti degli ufficiali superiori, tra cui quelli di informazione sulla situazione delle truppe nemiche e sulle loro installazioni difensive e offensive. Le ultime due specialità riguardavano le cosiddette «missioni speciali» e l’organizzazione del «servizio segreto». Nella sezione «politica militare» dell’esercito sabaudo facente capo allo Stato Maggiore, al punto 4° del regolamento si elaboravano le relazioni da parte delle missioni militari all’estero e quelle dei diplomatici italiani al fine di raccogliere ed interpretare le tendenze politico-militari degli Stati esteri. A capo della sezione, durante la guerra di Crimea, fu nominato il generale Giuseppe Govone. Durante la seconda guerra d’Indipendenza, il generale sperimentò il largo uso di contrabbandieri, soldati in borghese e per la prima volta di piccioni viaggiatori per la trasmissione delle informazioni segrete. La riforma del 1882 istituiva la figura del Capo di Stato Maggiore con compiti di mobilitazione e pianificazione delle operazioni. All’interno dell’Ufficio dello Stato maggiore, ai cui vertici per primo sedette il generale Enrico Cosenz, i compiti della sezione dedicata al servizio segreto allargò le proprie competenze agli studi statistici sugli eserciti stranieri, alla ricognizione topografica, al servizio informazioni e rapporti con il personale diplomatico. Alla fine del secolo XIX il Servizio Informazioni del Regio Esercito era diviso in grandi quadranti geografici e provvide negli ultimi anni dell’ottocento alla prime sistematiche ricognizioni telefotografiche alle frontiere italiane. L’efficienza delle trasmissioni e la velocità di movimento delle truppe e dei dispacci fu aumentato esponenzialmente dallo sviluppo del telegrafo e dall’espansione continua della rete ferroviaria.
All’atto della mobilitazione nel maggio 1915, il sistema informativo del Regio Esercito era gestito dall’Ufficio Informazioni e Cifra stabilitosi presso il Comando Supremo di Udine. Era diviso in sezioni che comprendevano sezioni informazione, polizia militare e controspionaggio, sezione cifra e traduttori ed interpreti. Gli ambiti degli uffici erano ulteriormente divisi tra informazione su componenti e movimenti delle truppe nemiche, studio della situazione politico-militare, ricezione ed analisi della corrispondenza e ufficio cifraggi e corrispondenza. Il controspionaggio e le operazioni di polizia militare erano affidate a ufficiali dei Carabinieri e della Pubblica Sicurezza. La Grande Guerra fu un banco di prova per tutti gli eserciti sul campo, perché si può considerare la capostipite della attuale guerra tecnologica. Soprattutto nel campo dello spionaggio e delle informazioni, oltre che in quello degli armamenti, il progresso tecnico della prima decade del Ventesimo secolo fornì strumenti che resero il conflitto uno spartiacque tra le guerre d’epoca moderna a quelle contemporanee. Accanto a queste novità, rimase in ogni caso importante l’acquisizione di notizie dagli interrogatori di disertori e prigionieri. I primi erano tenuti in massima considerazione in quanto più inclini a rivelare informazioni sul movimento, la posizione e l’armamento di truppe nemiche. Al servizio informazione venivano poi esaminati i documenti rinvenuti addosso ai soldati catturati o ai cadaveri, anche la corrispondenza privata o altri oggetti che potevano rivelare informazioni preziose. Ad esempio i numeri della posta da campo delle lettere dei soldati Austriaci potevano rivelarsi molto utili per la ricostruzione a tavolino della situazione militare del nemico in una determinata zona di operazioni. Questa fu in sostanza la struttura del servizio Informazioni all’entrata in guerra dell’Italia. Fin dai primi mesi del conflitto, i Servizi italiani dovettero affrontare una questione interna al Paese, quella dei sabotaggi da parte di emissari austriaci e della propaganda disfattista dei partiti ostili alla guerra, soprattutto da parte degli anarchici. La seconda attività, affidata ai Carabinieri nell’estate del 1915, riguardò i territori occupati durante la prima offensiva italiana dove fu necessario controllare le retrovie dall’attività di guerriglia di uomini della Landsturm rimasti nelle zone occupate dagli italiani, che colpivano con imboscate ufficiali italiani senza protezione. Per quanti riguardò invece la propaganda interna all’Esercito, quella a favore delle operazioni militari, fu organizzata la redazione di numerose testate «di trincea» e fu gestito dall’Ufficio Stampa del Regio Esercito l’afflusso di inviati di giornali nazionali ed esteri che risiedessero stabilmente nei pressi del fronte, controllati ed istruiti dagli addetti stampa militari.
L’altro grande compito del Servizio Informazioni del Regio Esercito allo scoppio del conflitto fu quello della valutazione delle forze nemiche in campo, che determinò la decisione di Luigi Cadorna di dirigere la prima grande offensiva sul fronte dell’Isonzo, avendo ricevuto rassicurazioni da parte dei servizi italiani dell’inconsistenza di un ammassamento nemico tra il Cadore e il Trentino, dove gli interrogatori dei prigionieri avevano fatto intendere che la zona fosse unicamente presidiata da riservisti. La relativa tranquillità del fronte tra il Cadore e Trento si interruppe nei primi mesi del 1916 quando il Servizio Informazioni avvertì l’Ufficio Situazione di un consistente ammassamento di truppe e artiglierie nemiche nell’area, fatto confermato dai collegamenti dello spionaggio sia in territorio asburgico che in Svizzera (dove esisteva una rete informativa italiana nel Paese neutrale). Ancora una volta lo scetticismo di Cadorna fece sì che il Comando Supremo minimizzasse la portata di quella che sarà poi nota come l’«offensiva di primavera o Strafexpedition» volta a rompere il fronte italiano nella zona degli altipiani. L’azione Austroungarica sarà alla fine respinta grazie anche ad eventi sul fronte orientale, che generarono la necessità per il nemico di trasferire truppe in seguito all’offensiva russa. Il Comando italiano, in seguito al fallimento della spedizione austriaca, tornò a concentrare le forze lungo la linea dell’isonzo, con obiettivo Gorizia e il Carso. In questo caso il Servizio Informazioni giocò un ruolo importante nella distrazione del nemico dall’area dell’attacco. Tramite l’utilizzo degli uomini dell’intelligence dislocati a Berna iniziò una vasta campagna di disinformazione che tese a far credere al nemico che l’obiettivo italiano fosse lo sfondamento in Cadore. Le tecniche impiegate dai Servizi italiani compresero l’utilizzo di falsa documentazione sul movimento ferroviario e l’uso di falsi messaggi redatti con l’inchiostro simpatico che imitavano la calligrafia di agenti noti al nemico. Tra le azioni più rilevanti ad opera dei Servizi italiani alla vigilia di Caporetto figurano la cosiddetta «Azione di Zurigo» portata a termine dal Servizio Informazioni della Regia Marina, che agì autonomamente dai Comandi del Regio Esercito. L’impresa fu il coronamento di lunghe indagini sul sabotaggio di due navi da guerra italiane avvenuto nel 1915, la «Benedetto Brin» e la «Leonardo» per mano austroungarica. La notte di carnevale del 1917 gli agenti dei Servizi della Marina italiana fecero irruzione all’interno del consolato austriaco, rinvenendo importanti documenti che contenevano i nomi di molte spie al soldo di Francesco Giuseppe, oltre ad una serie di tabulati grazie ai quali gli Italiani ebbero la chiave per decrittare molti messaggi segreti del nemico.
A pochi mesi dall’impresa di Zurigo l’ombra di Caporetto segnò il periodo più buio della Grande Guerra per le truppe italiane. Il Servizio Informazioni dell’Esercito aveva previsto l’azione, grazie all’analisi incrociata dei rilievi fotogrammetrici, delle intercettazioni radio, degli interrogatori dei disertori e delle notizie che giungevano dagli informatori all’estero raccolte dai centri di Milano e Berna. La zona di attacco tra Tolmino e il Monte Santo lungo il medio Isonzo era stata circostanziata dal confronto delle informazioni disponibili. L’operato dei Servizi italiani fu efficace, tanto che la commissione d’inchiesta istituita dopo la disfatta scagionò pienamente l’Ufficio Informazioni che tra gli interrogatori dei disertori aveva decifrato un piano di attacco molto dettagliato rinvenuto sul cadavere di un ufficiale austriaco ripescato nell’Isonzo pochi giorni prima dell’offensiva. Nonostante la dovizia di particolari e l’analisi di fonti affidabili, gli avvertimenti dei Servizi furono trascurati dall’ufficio Situazione, fortemente influenzato dallo scettico Cadorna. Fu in seguito a Caporetto che l’intero sistema basato sul dualismo Ufficio Informazioni-Ufficio Situazione fu scardinato, mentre quest’ultimo veniva soppresso. Una più efficace razionalizzazione degli Uffici di comando portò anche ad una maggiore attenzione a quegli aspetti sul fronte interno che, dopo la ritirata oltre la linea del Piave, costituivano un rilevante pericolo per la tenuta morale dell’esercito. Molti furono infatti gli infiltrati tra i disertori e le spie austroungariche che operarono nelle trincee italiane e nelle retrovie al fine di stimolare la diserzione e l’adesione alle idee rivoluzionarie nel tentativo di creare in Italia una «seconda Russia» teatro della rivoluzione bolscevica. Per contrastare il fenomeno, i vertici militari italiani istituirono l’Ufficio Propaganda, un organo con il compito di sedare le tendenze disfattiste e spegnere i fuochi rivoluzionari che la vicinanza del fronte all’Emilia e alla Lombardia, culle del socialismo, rischiavano di essere ulteriormente alimentati. I compiti di questa sezione furono svolti non solo da Carabinieri, membri della Pubblica Sicurezza e militari ma anche da borghesi di provata fede patriottica dotati di particolari capacità oratorie. Il merito del nuovo Ufficio Informazioni nella parte finale della guerra, quella delle decisive battaglie del Piave, fu rimarchevole. Soprattutto grazie alla nuova collaborazione diretta con il Servizio Aeronautico dell’Esercito, che oltre alla ricognizione fotografica dettagliata delle forze nemiche, organizzò anche le prime forme di aviolancio di armi e di uomini nel Friuli occupato, con compiti di spionaggio e collegamento. Tra i mezzi più utilizzati dagli agenti italiani, grazie alla difficoltà di intercettazione, furono i piccioni viaggiatori. Tra i nuovi protagonisti dell’offensiva che porterà l’Italia alla vittoria finale, grazie anche all’opera dei Servizi, figurarono i disertori nemici. Che a partire dall’ultimo anno di guerra non rappresentarono solo una fonte informativa, bensì una forza attiva nell’offensiva italiana. L’Ufficio Informazioni del Regio Esercito fu tra i comandi che organizzarono i disertori dell’ Imperialregio esercito in battaglioni, tra cui figuravano soprattutto Cecoslovacchi e Romeni. Dopo la battaglia del Solstizio il Servizio segreto italiano registrò due fattori determinanti per la scelta delle tempistiche dell’attacco finale che porterà alla vittoria del 4 novembre 1918: il forte malcontento e la crisi politica nei territori asburgici e l’imminente crollo della Bulgaria, alleato-chiave degli Imperi Centrali per la tenuta del fronte orientale.
I metodi e i mezzi dei Servizi italiani nella trasmissione dei dispacci e delle informazioni videro un’evoluzione specialmente nell’ultima parte del conflitto. Inizialmente le comunicazioni crittografate (scritte in linguaggio cifrato) venivano soprattutto trasportate da staffette, il metodo fino ad allora più usato. Rilevante fu anche l’uso, a partire dal 1917 per l’Esercito italiano, di piccioni viaggiatori. Questi avevano il vantaggio di essere difficilmente intercettabili e di poter viaggiare ad una velocità media tra i 60 e gli 80 Km/h. Tuttavia il loro limite era quello di non poter volare nelle ore notturne, costringendo all’uso di soldati sottoposti a grandi rischi e al fuoco nemico. Anche le trasmissioni telegrafiche ebbero un uso rilevante durante la Grande Guerra. Ma anche in questo caso la messa in funzione della rete prevedeva una serie di interventi complicati da parte degli uomini del Genio, e una volta installata, la rete telegrafica aerea era esposta spesso al tiro del nemico. Soltanto verso la fine della guerra furono approntate linee interrate, che necessitarono di impegnative opere di scavo. Agli albori, ma utilizzata dai reparti fu la telefonia da campo, uno dei mezzi più apprezzati dalle truppe e cresciuti nell’impiego negli ultimi mesi del conflitto. L’enorme vantaggio della comunicazione verbale immediata era tuttavia controbilanciata dalle limitazioni della tecnologia di allora, che limitava a pochi chilometri la portata dei campali dalle centrali. La mancanza di schermature rendeva inoltre le linee telefoniche facilmente intercettatili dal nemico. Un altro grande protagonista della comunicazione della Grande Guerra fu senza dubbio la radio, nel cui sviluppo l’Italia vantava i progressi di Guglielmo Marconi. Anche nel caso delle radiotrasmissioni, alcuni inconvenienti di natura tecnica resero vulnerabile questa innovazione nel campo della comunicazione tra i reparti. Gli apparecchi usati durante i tre anni del conflitto erano infatti estremamente esposti a disturbi di origine atmosferica e scarsa o nulla era la possibilità di schermare le frequenze per nasconderle all’ascolto nemico. Per l’intercettazione delle stazioni di trasmissione nemiche, si fece ricorso all’uso del radiogoniometro, sviluppato al politecnico di Torino dal professor Alessandro Artom e sperimentato nei primi anni del Ventesimo secolo. Ultimo strumento, ma non meno importante nel bilancio delle comunicazioni strategiche nella Grande Guerra furono gli strumenti ottici e acustici. Questi comprendevano razzi segnalatori, bandiere dette a «lampo di colore» (drappi con strisce colorate che, cambiate di posizione, assumevano colore bianco o rosso componendo l’alfabeto morse), fumogeni utilizzati soprattutto nella ricognizione aerea. Tra i mezzi ottici più utilizzati figuravano gli eliografi, di gran lunga gli apparecchi più pratici per trasporto e utilizzo. Non soggetti a interruzioni nemiche come il telegrafo o il telefono in quanto privi di cavi, erano tuttavia molti limitati da una certa lentezza nella trasmissione dei dispacci, da limiti di portata e dalle condizione meteorologiche che, in particolare sul fronte alpino, potevano mutare più volte durante la giornata di combattimenti.
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La guerra del 15-18 fu un banco di prova per le nuove tecnologie di comunicazione, sfruttate a fondo dai Servizi d'Informazione del Regio Esercito, che ebbero un ruolo primario nell'esito finale del conflitto.In Italia il Servizio Informazioni militare nacque con lo Stato Sabaudo, per poi evolvere sino alla riforma preunitaria voluta dal generale Alfonso Lamarmora del 1855, che divideva in cinque principali branche i compiti degli ufficiali superiori, tra cui quelli di informazione sulla situazione delle truppe nemiche e sulle loro installazioni difensive e offensive. Le ultime due specialità riguardavano le cosiddette «missioni speciali» e l’organizzazione del «servizio segreto». Nella sezione «politica militare» dell’esercito sabaudo facente capo allo Stato Maggiore, al punto 4° del regolamento si elaboravano le relazioni da parte delle missioni militari all’estero e quelle dei diplomatici italiani al fine di raccogliere ed interpretare le tendenze politico-militari degli Stati esteri. A capo della sezione, durante la guerra di Crimea, fu nominato il generale Giuseppe Govone. Durante la seconda guerra d’Indipendenza, il generale sperimentò il largo uso di contrabbandieri, soldati in borghese e per la prima volta di piccioni viaggiatori per la trasmissione delle informazioni segrete. La riforma del 1882 istituiva la figura del Capo di Stato Maggiore con compiti di mobilitazione e pianificazione delle operazioni. All’interno dell’Ufficio dello Stato maggiore, ai cui vertici per primo sedette il generale Enrico Cosenz, i compiti della sezione dedicata al servizio segreto allargò le proprie competenze agli studi statistici sugli eserciti stranieri, alla ricognizione topografica, al servizio informazioni e rapporti con il personale diplomatico. Alla fine del secolo XIX il Servizio Informazioni del Regio Esercito era diviso in grandi quadranti geografici e provvide negli ultimi anni dell’ottocento alla prime sistematiche ricognizioni telefotografiche alle frontiere italiane. L’efficienza delle trasmissioni e la velocità di movimento delle truppe e dei dispacci fu aumentato esponenzialmente dallo sviluppo del telegrafo e dall’espansione continua della rete ferroviaria.All’atto della mobilitazione nel maggio 1915, il sistema informativo del Regio Esercito era gestito dall’Ufficio Informazioni e Cifra stabilitosi presso il Comando Supremo di Udine. Era diviso in sezioni che comprendevano sezioni informazione, polizia militare e controspionaggio, sezione cifra e traduttori ed interpreti. Gli ambiti degli uffici erano ulteriormente divisi tra informazione su componenti e movimenti delle truppe nemiche, studio della situazione politico-militare, ricezione ed analisi della corrispondenza e ufficio cifraggi e corrispondenza. Il controspionaggio e le operazioni di polizia militare erano affidate a ufficiali dei Carabinieri e della Pubblica Sicurezza. La Grande Guerra fu un banco di prova per tutti gli eserciti sul campo, perché si può considerare la capostipite della attuale guerra tecnologica. Soprattutto nel campo dello spionaggio e delle informazioni, oltre che in quello degli armamenti, il progresso tecnico della prima decade del Ventesimo secolo fornì strumenti che resero il conflitto uno spartiacque tra le guerre d’epoca moderna a quelle contemporanee. Accanto a queste novità, rimase in ogni caso importante l’acquisizione di notizie dagli interrogatori di disertori e prigionieri. I primi erano tenuti in massima considerazione in quanto più inclini a rivelare informazioni sul movimento, la posizione e l’armamento di truppe nemiche. Al servizio informazione venivano poi esaminati i documenti rinvenuti addosso ai soldati catturati o ai cadaveri, anche la corrispondenza privata o altri oggetti che potevano rivelare informazioni preziose. Ad esempio i numeri della posta da campo delle lettere dei soldati Austriaci potevano rivelarsi molto utili per la ricostruzione a tavolino della situazione militare del nemico in una determinata zona di operazioni. Questa fu in sostanza la struttura del servizio Informazioni all’entrata in guerra dell’Italia. Fin dai primi mesi del conflitto, i Servizi italiani dovettero affrontare una questione interna al Paese, quella dei sabotaggi da parte di emissari austriaci e della propaganda disfattista dei partiti ostili alla guerra, soprattutto da parte degli anarchici. La seconda attività, affidata ai Carabinieri nell’estate del 1915, riguardò i territori occupati durante la prima offensiva italiana dove fu necessario controllare le retrovie dall’attività di guerriglia di uomini della Landsturm rimasti nelle zone occupate dagli italiani, che colpivano con imboscate ufficiali italiani senza protezione. Per quanti riguardò invece la propaganda interna all’Esercito, quella a favore delle operazioni militari, fu organizzata la redazione di numerose testate «di trincea» e fu gestito dall’Ufficio Stampa del Regio Esercito l’afflusso di inviati di giornali nazionali ed esteri che risiedessero stabilmente nei pressi del fronte, controllati ed istruiti dagli addetti stampa militari. L’altro grande compito del Servizio Informazioni del Regio Esercito allo scoppio del conflitto fu quello della valutazione delle forze nemiche in campo, che determinò la decisione di Luigi Cadorna di dirigere la prima grande offensiva sul fronte dell’Isonzo, avendo ricevuto rassicurazioni da parte dei servizi italiani dell’inconsistenza di un ammassamento nemico tra il Cadore e il Trentino, dove gli interrogatori dei prigionieri avevano fatto intendere che la zona fosse unicamente presidiata da riservisti. La relativa tranquillità del fronte tra il Cadore e Trento si interruppe nei primi mesi del 1916 quando il Servizio Informazioni avvertì l’Ufficio Situazione di un consistente ammassamento di truppe e artiglierie nemiche nell’area, fatto confermato dai collegamenti dello spionaggio sia in territorio asburgico che in Svizzera (dove esisteva una rete informativa italiana nel Paese neutrale). Ancora una volta lo scetticismo di Cadorna fece sì che il Comando Supremo minimizzasse la portata di quella che sarà poi nota come l’«offensiva di primavera o Strafexpedition» volta a rompere il fronte italiano nella zona degli altipiani. L’azione Austroungarica sarà alla fine respinta grazie anche ad eventi sul fronte orientale, che generarono la necessità per il nemico di trasferire truppe in seguito all’offensiva russa. Il Comando italiano, in seguito al fallimento della spedizione austriaca, tornò a concentrare le forze lungo la linea dell’isonzo, con obiettivo Gorizia e il Carso. In questo caso il Servizio Informazioni giocò un ruolo importante nella distrazione del nemico dall’area dell’attacco. Tramite l’utilizzo degli uomini dell’intelligence dislocati a Berna iniziò una vasta campagna di disinformazione che tese a far credere al nemico che l’obiettivo italiano fosse lo sfondamento in Cadore. Le tecniche impiegate dai Servizi italiani compresero l’utilizzo di falsa documentazione sul movimento ferroviario e l’uso di falsi messaggi redatti con l’inchiostro simpatico che imitavano la calligrafia di agenti noti al nemico. Tra le azioni più rilevanti ad opera dei Servizi italiani alla vigilia di Caporetto figurano la cosiddetta «Azione di Zurigo» portata a termine dal Servizio Informazioni della Regia Marina, che agì autonomamente dai Comandi del Regio Esercito. L’impresa fu il coronamento di lunghe indagini sul sabotaggio di due navi da guerra italiane avvenuto nel 1915, la «Benedetto Brin» e la «Leonardo» per mano austroungarica. La notte di carnevale del 1917 gli agenti dei Servizi della Marina italiana fecero irruzione all’interno del consolato austriaco, rinvenendo importanti documenti che contenevano i nomi di molte spie al soldo di Francesco Giuseppe, oltre ad una serie di tabulati grazie ai quali gli Italiani ebbero la chiave per decrittare molti messaggi segreti del nemico. A pochi mesi dall’impresa di Zurigo l’ombra di Caporetto segnò il periodo più buio della Grande Guerra per le truppe italiane. Il Servizio Informazioni dell’Esercito aveva previsto l’azione, grazie all’analisi incrociata dei rilievi fotogrammetrici, delle intercettazioni radio, degli interrogatori dei disertori e delle notizie che giungevano dagli informatori all’estero raccolte dai centri di Milano e Berna. La zona di attacco tra Tolmino e il Monte Santo lungo il medio Isonzo era stata circostanziata dal confronto delle informazioni disponibili. L’operato dei Servizi italiani fu efficace, tanto che la commissione d’inchiesta istituita dopo la disfatta scagionò pienamente l’Ufficio Informazioni che tra gli interrogatori dei disertori aveva decifrato un piano di attacco molto dettagliato rinvenuto sul cadavere di un ufficiale austriaco ripescato nell’Isonzo pochi giorni prima dell’offensiva. Nonostante la dovizia di particolari e l’analisi di fonti affidabili, gli avvertimenti dei Servizi furono trascurati dall’ufficio Situazione, fortemente influenzato dallo scettico Cadorna. Fu in seguito a Caporetto che l’intero sistema basato sul dualismo Ufficio Informazioni-Ufficio Situazione fu scardinato, mentre quest’ultimo veniva soppresso. Una più efficace razionalizzazione degli Uffici di comando portò anche ad una maggiore attenzione a quegli aspetti sul fronte interno che, dopo la ritirata oltre la linea del Piave, costituivano un rilevante pericolo per la tenuta morale dell’esercito. Molti furono infatti gli infiltrati tra i disertori e le spie austroungariche che operarono nelle trincee italiane e nelle retrovie al fine di stimolare la diserzione e l’adesione alle idee rivoluzionarie nel tentativo di creare in Italia una «seconda Russia» teatro della rivoluzione bolscevica. Per contrastare il fenomeno, i vertici militari italiani istituirono l’Ufficio Propaganda, un organo con il compito di sedare le tendenze disfattiste e spegnere i fuochi rivoluzionari che la vicinanza del fronte all’Emilia e alla Lombardia, culle del socialismo, rischiavano di essere ulteriormente alimentati. I compiti di questa sezione furono svolti non solo da Carabinieri, membri della Pubblica Sicurezza e militari ma anche da borghesi di provata fede patriottica dotati di particolari capacità oratorie. Il merito del nuovo Ufficio Informazioni nella parte finale della guerra, quella delle decisive battaglie del Piave, fu rimarchevole. Soprattutto grazie alla nuova collaborazione diretta con il Servizio Aeronautico dell’Esercito, che oltre alla ricognizione fotografica dettagliata delle forze nemiche, organizzò anche le prime forme di aviolancio di armi e di uomini nel Friuli occupato, con compiti di spionaggio e collegamento. Tra i mezzi più utilizzati dagli agenti italiani, grazie alla difficoltà di intercettazione, furono i piccioni viaggiatori. Tra i nuovi protagonisti dell’offensiva che porterà l’Italia alla vittoria finale, grazie anche all’opera dei Servizi, figurarono i disertori nemici. Che a partire dall’ultimo anno di guerra non rappresentarono solo una fonte informativa, bensì una forza attiva nell’offensiva italiana. L’Ufficio Informazioni del Regio Esercito fu tra i comandi che organizzarono i disertori dell’ Imperialregio esercito in battaglioni, tra cui figuravano soprattutto Cecoslovacchi e Romeni. Dopo la battaglia del Solstizio il Servizio segreto italiano registrò due fattori determinanti per la scelta delle tempistiche dell’attacco finale che porterà alla vittoria del 4 novembre 1918: il forte malcontento e la crisi politica nei territori asburgici e l’imminente crollo della Bulgaria, alleato-chiave degli Imperi Centrali per la tenuta del fronte orientale. I metodi e i mezzi dei Servizi italiani nella trasmissione dei dispacci e delle informazioni videro un’evoluzione specialmente nell’ultima parte del conflitto. Inizialmente le comunicazioni crittografate (scritte in linguaggio cifrato) venivano soprattutto trasportate da staffette, il metodo fino ad allora più usato. Rilevante fu anche l’uso, a partire dal 1917 per l’Esercito italiano, di piccioni viaggiatori. Questi avevano il vantaggio di essere difficilmente intercettabili e di poter viaggiare ad una velocità media tra i 60 e gli 80 Km/h. Tuttavia il loro limite era quello di non poter volare nelle ore notturne, costringendo all’uso di soldati sottoposti a grandi rischi e al fuoco nemico. Anche le trasmissioni telegrafiche ebbero un uso rilevante durante la Grande Guerra. Ma anche in questo caso la messa in funzione della rete prevedeva una serie di interventi complicati da parte degli uomini del Genio, e una volta installata, la rete telegrafica aerea era esposta spesso al tiro del nemico. Soltanto verso la fine della guerra furono approntate linee interrate, che necessitarono di impegnative opere di scavo. Agli albori, ma utilizzata dai reparti fu la telefonia da campo, uno dei mezzi più apprezzati dalle truppe e cresciuti nell’impiego negli ultimi mesi del conflitto. L’enorme vantaggio della comunicazione verbale immediata era tuttavia controbilanciata dalle limitazioni della tecnologia di allora, che limitava a pochi chilometri la portata dei campali dalle centrali. La mancanza di schermature rendeva inoltre le linee telefoniche facilmente intercettatili dal nemico. Un altro grande protagonista della comunicazione della Grande Guerra fu senza dubbio la radio, nel cui sviluppo l’Italia vantava i progressi di Guglielmo Marconi. Anche nel caso delle radiotrasmissioni, alcuni inconvenienti di natura tecnica resero vulnerabile questa innovazione nel campo della comunicazione tra i reparti. Gli apparecchi usati durante i tre anni del conflitto erano infatti estremamente esposti a disturbi di origine atmosferica e scarsa o nulla era la possibilità di schermare le frequenze per nasconderle all’ascolto nemico. Per l’intercettazione delle stazioni di trasmissione nemiche, si fece ricorso all’uso del radiogoniometro, sviluppato al politecnico di Torino dal professor Alessandro Artom e sperimentato nei primi anni del Ventesimo secolo. Ultimo strumento, ma non meno importante nel bilancio delle comunicazioni strategiche nella Grande Guerra furono gli strumenti ottici e acustici. Questi comprendevano razzi segnalatori, bandiere dette a «lampo di colore» (drappi con strisce colorate che, cambiate di posizione, assumevano colore bianco o rosso componendo l’alfabeto morse), fumogeni utilizzati soprattutto nella ricognizione aerea. Tra i mezzi ottici più utilizzati figuravano gli eliografi, di gran lunga gli apparecchi più pratici per trasporto e utilizzo. Non soggetti a interruzioni nemiche come il telegrafo o il telefono in quanto privi di cavi, erano tuttavia molti limitati da una certa lentezza nella trasmissione dei dispacci, da limiti di portata e dalle condizione meteorologiche che, in particolare sul fronte alpino, potevano mutare più volte durante la giornata di combattimenti.
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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