
Quando con il Carroccio c'era sintonia, i grillini si ponevano come forza anti establishment. Saltati in braccio al Pd, si candidano a diventare i difensori della conservazione. Persa l'innocenza, si sono salvate le poltrone.In principio uno valeva uno, poi uno, Luigi Di Maio, ha cominciato a valere un po' più di uno e così si è posto il problema di non umiliare il capo politico dei 5 stelle. Tranquilli, alla fine un ministero per accontentarlo si troverà e anche se lui non sarà vicepremier, il Conte bis, ossia l'esecutivo giallorosso con sfumature arancione (è previsto l'apporto anche di Leu) si farà. Tuttavia, avere accettato il principio che uno vale uno e mezzo e forse anche due è per il Movimento una novità, anzi una rivoluzione: forse il passaggio all'età matura. Già si era capito che i grillini si apprestavano a perdere l'innocenza, perché piano piano avevano perso per strada pezzi del loro programma, a cominciare dalla Tap per poi passare alla Tav (l'artificio con cui si erano opposti, consentendo però che il via libera all'opera fosse dato è un esempio di ipocrisia, ma anche di doppiogiochismo politico). Ma ora, con la nascita del Conte bis, si capisce che da movimento anti sistema i 5 stelle sono entrati di diritto a far parte del sistema, ovvero di un gioco partitico dove il fine giustifica i mezzi e per raggiungerlo si può salire su qualsiasi corriera, anche quella del Pd.Che l'obiettivo (ma quale?) si possa raggiungere sacrificando i propri principi lo dimostra ciò che è accaduto. A seguito del successo del 4 marzo dello scorso anno, Di Maio e compagni non cercarono un'alleanza con il Pd. Ritenendo che l'unione di un partito vincente con chi da quel partito era stato sconfitto, venne scartata dai grillini, i quali al Partito democratico chiesero di condividere i voti, non il programma e neppure i ministri. Infine la trattativa fu avviata con la Lega, ritenendo che il partito di Matteo Salvini, come i 5 stelle, rappresentasse una forza anti sistema, contraria cioè allo status quo e a chi fino a prima aveva governato. Non a caso, quando nacque, l'esecutivo guidato da Giuseppe Conte venne chiamato il governo del cambiamento, ovvero una squadra di ministri con un mandato preciso, quello di rompere gli schemi, le consuetudini, i programmi. Oggi per il Movimento, l'alleanza con il Pd, dunque con una forza di conservazione, che non vuole cambiare l'Europa e non ha intenzione di modificare le politiche del lavoro, dell'istruzione e dell'immigrazione, è un cambio di rotta. Si è passati dal governo del cambiamento al cambiamento del Movimento, dove la parte più interessante è quella che riguarda la democrazia interna ai 5 stelle.Fino a prima delle crisi, la linea era tracciata ed escludeva in maniera netta qualsiasi intesa con il Partito democratico, una linea ribadita in più occasioni e anche sostenuta dai principali protagonisti dei 5 stelle. Non solo, fino a prima della crisi innescata da Matteo Salvini, Di Maio era il capo politico dei grillini, la cui leadership non era stata messa in discussione neppure dopo la batosta elettorale del maggio scorso. Anzi, dopo la sconfitta, il vicepremier e ministro del Lavoro aveva chiesto una nuova investitura, sottoponendosi al giudizio della base attraverso la consultazione online. Un rito affidato alla piattaforma Rousseau, strumento gestito dall'associazione guidata da Casaleggio che spesso è stato oggetto di critica.Poi, però, a scompaginare i giochi e soprattutto la democrazia interna del Movimento è arrivata la crisi e davanti agli occhi dei parlamentari grillini si è aperto il baratro delle elezioni. Per due terzi di loro, o nella migliore delle ipotesi per la metà di loro, il voto avrebbe rappresentato un ritorno a casa. E così, all'improvviso, dall'eremo in cui pareva confinato, Beppe Grillo si è fatto vivo per far guadagnare ai suoi una via d'uscita. La ritirata prevede una retromarcia sul no al Pd, ma piano piano anche un dietrofront su tante altre cose, a cominciare dalla guida politica. I militanti avevano incoronato Di Maio capo? Un paio di mesi dopo si può anche stabilire che il nuovo capo è Giuseppe Conte, uno che fino a ieri si attribuiva una terzietà, forse sperando di divenire una riserva della Repubblica. Ma a scegliere Conte chi è stato? Nicola Zingaretti non pare, Sergio Mattarella neppure, Matteo Renzi neanche. No, a votare per lui, ancora una volta, sono le cancellerie straniere e pure Donald Trump, che da puzzone diventa un tipo profumato solo perché con un tweet dà un contributo a risolvere i guai di casa nostra. Sì, uno vale uno, ma le poltrone dei parlamentari valgono uno e mezzo e forse anche due. E dunque, per tenersele, si può perdere anche un po' di innocenza. Doveva essere il governo del cambiamento, per ora ha consentito che si cambiasse qualche faccia e per il resto tutto resta come prima. Giravolte e voltagabbana compresi.
Emmanuel Macron (Getty Images). Nel riquadro Virginie Joron
L’eurodeputata del Rassemblement National: «Il presidente non scioglie il Parlamento per non mostrare la sua debolezza ai partner europei. I sondaggi ci danno al 33%, invitiamo tutti i Repubblicani a unirsi a noi».
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L'evento organizzato dal quotidiano La Verità per fare il punto sulle prospettive della transizione energetica. Sul palco con il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin, il ministro dell'Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, il presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana, il presidente di Ascopiave Nicola Cecconato, il direttore Ingegneria e realizzazione di Progetto Terna Maria Rosaria Guarniere, l'Head of Esg Stakeholders & Just Transition Enel Maria Cristina Papetti, il Group Head of Soutainability Business Integration Generali Leonardo Meoli, il Project Engineering Director Barilla Nicola Perizzolo, il Group Quality & Soutainability Director BF Spa Marzia Ravanelli, il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il presidente di Generalfinance, Boconi University Professor of Corporate Finance Maurizio Dallocchio.
Kim Jong-un (Getty Images)
- Individuata dagli Usa una base sotterranea finora ignota, con missili intercontinentali lanciabili in tempi ultra rapidi: un duro colpo alla deterrenza del resto del mondo. La «lezione» iraniana: puntare sui bunker.
- Il regime vuole entrare nella ristretta élite di Paesi con un sistema di sorveglianza orbitale. Obiettivo: spiare i nemici e migliorare la precisione delle proprie armi.
- Pyongyang dispone già di 30-50 testate nucleari operative e arriverà a quota 300 entro il 2035. Se fosse attaccata, per reazione potrebbe distruggere Seul all’istante.