2019-05-30
Di Maio mette il governo
in mano a 50.000 grillini
Per superare la batosta, il M5s prende la scorciatoia del voto online sul suo vicepremier. Solo le dimissioni però potevano fermare i dissidi. Ora Matteo Salvini alzerà la posta, sperando che Giggino dimezzato non cada. Nel caso comunque a guadagnarci sarebbe la Lega.Un leader che avesse preso una legnata elettorale che ha tramortito il partito, nella prima Repubblica si sarebbe dimesso all'istante. E infatti fu così per Amintore Fanfani, che lasciò la segreteria della Dc travolto dalla sconfitta del referendum sul divorzio. Ma anche nella seconda Repubblica abbiamo visto segretari farsi da parte la sera stessa della batosta. Nel 2009 Walter Veltroni si dimise dalla guida del Pd dopo tre sconfitte nette, la prima alle politiche contro Silvio Berlusconi, la seconda alle regionali e la terza quando si votò in Sardegna. Nonostante le elezioni avessero riguardato meno di 1 milione di elettori, quella sarda fu la goccia che fece traboccare il vaso. Nella terza Repubblica, ammesso e non concesso che quella in cui stiamo vivendo lo sia, l'istituto dell'addio del leader sembra invece un po' più complicato. Matteo Renzi quando prese la sberla del referendum uscì dalla porta per rientrare dalla finestra, governando a Palazzo Chigi per interposte persone, tra le quali Maria Elena Boschi e Luca Lotti. Nemmeno le sconfitte alle amministrative - che fecero perdere al Pd tutto ciò che si poteva perdere - lo convinsero a fare le valigie e, se fosse stato per lui, sarebbe rimasto anche dopo la débâcle del 4 di marzo. Ancora si ricorda quando annunciò in conferenza stampa che sarebbe rimasto per vigilare sulla formazione del nuovo governo e solo la levata di scudi lo indusse a desistere dal restare incollato alla poltrona.Dunque, visti i precedenti, non stupisce che Luigi Di Maio non abbia fatto il beau geste di offrire la lettera di dimissioni dopo aver perso la metà dei voti. Al contrario, il capo politico del Movimento 5 stelle, sollecitato dai suoi a fare un passo indietro, ha preferito sottoporsi al giudizio della Rete. Nemmeno un istante gli è passato per la testa di farsi giudicare dai compagni di partito. Conoscendo in quanti, fra i grillini, gli vorrebbero fare la pelle e soffiargli la poltrona, il vicepremier ha preferito affrontare il verdetto della piattaforma Rousseau, probabilmente convinto che sarà meno inflessibile di quello dei colleghi onorevoli. Del resto, il ministro del Lavoro è già stato benedetto da Beppe Grillo, il capo carismatico del Movimento, il quale ne ha preso le difese sul suo blog, scrivendo che «Luigi non ha commesso alcun reato» e dunque «deve continuare la battaglia che stava combattendo prima». Tradotto, Di Maio non è un mariuolo, ma solo un perdente, dunque è necessario dargli una seconda chance.Basterà a tranquillizzare gli animi di chi già si vedeva pronto a prendere il posto di capo politico del Movimento o comunque a ridistribuire gli incarichi privando Di Maio di qualche poltrona? Probabilmente no. Perché la probabile riconferma del suo ruolo da parte della Rete non sarà sufficiente a spegnere i malumori delle diverse anime grilline. Anche se non verranno allo scoperto, il malcontento perdurerà. Soprattutto se Matteo Salvini insisterà - come è nelle cose -a pretendere una sterzata leghista del governo. A poche ore dal successo elettorale, il Capitano ha fatto l'elenco di ciò che vuole fare nei prossimi mesi: in cima alla lista per prima c'è la Tav, subito seguita dal taglio delle tasse e dall'autonomia regionale. Certo, il ministro dell'Interno starà attento a non premere troppo sull'acceleratore e infatti lunedì ha mandato avanti la flat tax, argomento più digeribile anche per i pentastellati. Del resto, come ha fatto capire, alla Lega conviene avere un Giggino dimezzato a Palazzo Chigi: con lui in bilico sarà più facile trattare, mentre se il suo posto venisse preso da uno come Alessandro Di Battista o da un tipo come Roberto Fico, la convivenza diventerebbe difficile e forse impossibile. L'ala dura e pura grillina potrebbe essere tentata dalla rottura, anche per non intestarsi un altro possibile crollo assecondando Salvini. Con dei pentastellati in cerca di gloria e disposti a passare all'opposizione, probabilmente pure allo stesso capitano leghista converrebbe andare alla rottura il prima possibile, almeno per capitalizzare il successo delle europee e ritornare in Parlamento con altri numeri. Insomma, la partita di Di Maio non è solo la sua personale partita, ma un po' anche quella del governo e della legislatura, perché nessuno sa davvero immaginare che cosa accadrebbe e quanto durerebbe l'esecutivo senza di lui. Dunque, alla fine, Rousseau o non Rousseau, Casaleggio o meno, la consultazione con ogni probabilità confermerà il vicepremier, il quale potrà tirare un respiro di sollievo per non aver dovuto superare le forche caudine dei compagni. E lo tirerà anche Giuseppe Conte, il cui destino è inevitabilmente legato all'uomo che lo ha scelto. Nel caso invece le cose andassero diversamente, l'unico che potrà non dispiacersi troppo sarà Salvini, il quale imbarcandosi in una nuova e defatigante campagna elettorale immagino che si consolerà pensando a quanti leghisti porterà in Parlamento con il 34 per cento.
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