2024-01-17
Il mercato boccia il Mes ma torna il pressing
Paschal Donohoe e il direttore generale Pierre Gramegna (Ansa)
All’Eurogruppo critiche all’Italia per la decisione di non ratificare il trattato di riforma. Anche se i dati su spread e titoli di Stato mostrano che per gli investitori il nostro Paese è solido. E il capo di Intesa getta altra acqua sul fuoco: «Meccanismo sopravvalutato».Sembrava si fosse placata l’ondata di polemiche e livore sollevatasi dopo il voto con cui la Camera il 21 dicembre ha bocciato la ratifica della riforma del trattato del Mes. Invece no. L’Eurogruppo di lunedì è stato l’occasione per riattizzare il fuoco che ancora cova sotto la cenere. Venticinque giorni in cui l’Italia ha collocato agevolmente a tassi decrescenti in pochi giorni ben 28,2 di miliardi di titoli di Stato (circa due rate del Pnrr!), con lo spread tornato intorno a 155, non sono bastati a ricondurre alla realtà le vedove del Mes. Un segnale esplicito che gli investitori hanno una lettura netta e favorevole del rapporto rischio/rendimento dei nostri Bot e Btp. I quali stanno beneficiando in pieno della discesa di tutta la parte medio-lunga della curva dei tassi che coinvolge da qualche settimana i principali titoli governativi mondiali. Basti pensare che solo tre mesi fa il rendimento del Btp decennale era quasi al 5% e ieri ha chiuso intorno al 3,8%. In uno scenario di domanda effervescente, c’è fiducia verso l’Italia e non spaventa affatto un debito/Pil in prospettiva stabile intorno al 140%.Certamente non mancano le minacce all’orizzonte, ma in questo momento i problemi maggiori sono a Parigi e a Berlino e a Roma l’orologio non è fermo né sul 2011, né sul 2018. I mercati sanno che - a prescindere dal livello del debito - il Paese produce, fattura, esporta e dispone di un flusso di entrate rilevante, in crescita e capace di rendere sostenibile e coprire i pagamenti degli interessi. In questo caso, il flusso conta più dello stock. E senza debito non ci può essere credito e risparmio, «per la contraddizion che nol cosente».E non sanno che farsene del Meccanismo europeo di (in)stabilità, quello sì foriero - sia nella versione in vigore, che in quella bocciata - di potenziali problemi per il nostro debito.Invece siamo stati costretti a leggere (La Repubblica) del ministro Giancarlo Giorgetti messo «di fatto» sotto processo a Bruxelles. Di una Ue intenta a studiare un fantomatico piano B e degli esponenti di punta di Eurogruppo e Mes - il presidente Paschal Donohoe e il direttore generale Pierre Gramegna - pronti a manifestare le rispettive doglianze. Il primo ha fatto notare che «se l’Europa dovesse affrontare una difficoltà finanziaria seria in una banca, ci mancherebbe uno strumento veramente importante che aiuterebbe a proteggere i contribuenti, le famiglie e le piccole imprese dal costo». Il secondo ha espresso il proprio «rammarico» perché si è «sprecata un’opportunità per rafforzare l’Unione bancaria».Insomma pare proprio che, con la mancanza del prestito «paracadute» del Mes al Fondo di risoluzione unico (Srf) per la gestione dei dissesti bancari, l’Eurozona sia stata privata di «un’arma decisiva» a causa della scelta «inconcepibile» dell’Italia. Secondo quanto riportato da Milano Finanza, sarebbe già pronta la ritorsione contro l’Italia, negandole la sede della costituenda Autorità antiriciclaggio, pronta a insediarsi in Germania. Pur avanzata come mera ipotesi, l’importante è avvalorare il «ce la faranno pagare» di Giorgetti che esiste solo nella fantasia dei retroscenisti di professione.A Donohoe - a cui pare stare così a cuore la protezione di contribuenti, famiglie e imprese - andrebbe fatto notare che lo strumento «veramente importante» di cui lamenta l’assenza arriverebbe solo dopo il passaggio di uno tsunami sul risparmio. Infatti, il ministro irlandese sa, ma finge di non sapere, due cose. La prima è che il prestito del Mes (fino a 68 miliardi) al Srf sarebbe arrivato solo quando quest’ultimo fondo avesse esaurito la propria disponibilità (circa 75 miliardi). La seconda è che il Srf interverrebbe in un dissesto bancario solo dopo il famigerato bail in di azionisti, obbligazionisti e depositanti oltre 100.000 euro, fino all’8% del passivo. Niente male come protezione per famiglie e imprese. Invocare uno strumento che, per ristrutturare una banca, rade al suolo i risparmiatori. Se e quando servirà, Donohoe sa che una crisi bancaria sarà gestita con i contributi delle altre banche e, come extrema ratio, con l’intervento dello Stato. A Gramegna vorremmo invece far notare che - se gli sta tanto a cuore rafforzare l’Unione bancaria - il prestito del Mes è solo un insignificante arnese in fondo alla cassetta degli attrezzi e dovrebbe invece dolersi della mancanza del terzo pilastro che è l’assicurazione comune sui depositi. I primi due pilastri sono la Vigilanza unica e il Comitato di risoluzione unico con il Srf, faticosamente concepiti e avviati tra 2014 e 2015, dopo ben 16 anni di vita dell’Eurozona. Il terzo è sepolto in un cassetto almeno dal 2019, per esclusiva colpa dei tedeschi che insistono per assegnare un coefficiente di rischio ai titoli di Stato posseduti dalle banche. Un modo eccellente per destabilizzare il nostro sistema bancario.In un’unione bancaria piena e completa, come quella degli Usa, questi sono i tre pilastri che la reggono. E nessuno oltreoceano si è inventato il Mes e i suoi improbabili prestiti paracadute. Là c’è l’agenzia federale di garanzia dei depositi (Fdic), con la garanzia piena e illimitata del governo federale. E tanto basta e avanza.Chi queste cose le sa, come il ceo di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, ieri ha messo una pietra sopra al Mes, definendolo, dal punto di vista dell’efficacia e della necessità di utilizzo, «sopravvalutato».Allora Gramegna e Donohoe che si lamentano dell’incompletezza dell’Unione bancaria dovrebbero in primo luogo fare mea culpa e indirizzare il dito verso Berlino e non verso Roma che, bloccando la riforma del Mes, ha solo sfiorato una pagliuzza, mentre la trave viene bloccata altrove.
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