2021-09-16
Il maxi studio sulle terapie precoci. «Crollo dei morti e -80% di ricoveri»
La ricerca della fondazione Hume: «Seguire gli infetti a casa aumenta del 25% la forza della campagna vaccinale». Con un mix di farmaci, la letalità del virus diventa simile a quella dell’influenza stagionaleTutto quello che avreste voluto sapere sulle cure domiciliari precoci e non avete mai osato chiedere (anzi, l’avete chiesto, ma non vi hanno mai risposto) lo trovate finalmente in un prezioso e documentatissimo studio di Mario Menichella, divulgatore scientifico impegnato con la fondazione David Hume (www.fondazionehume.it), guidata da Luca Ricolfi. Il lavoro è gigantesco, ha occupato l’autore per tutta l’estate, ed è basato su oltre 130 riferimenti bibliografici: insomma, sarà dura ignorarlo anche per i pasdaran anti terapie. La tesi di partenza, enunciata da Menichella, è tanto forte quanto attraente: «Il Covid-19 è una malattia curabile», non solo grazie ai vaccini, ma anche con il contributo delle terapie domiciliari «con la loro elevata efficacia dell’ordine dell’80-85% nell’evitare le ospedalizzazioni». Non solo: secondo Menichella, un altro aiuto potrebbe venire dall’uso tempestivo di integratori.In base alla tesi della Fondazione Hume, «l’implementazione ufficiale di un serio protocollo di cure domiciliari equivarrebbe ad aumentare di ben 25 punti la copertura di una campagna vaccinale del 60% degli over 50, portandola quindi “virtualmente” all’85%». Non solo: «La combinazione di un protocollo di cura domiciliare vero», non «aspetta e spera», annota Menichella, «con un mix di integratori naturali avrebbe, in termini di ospedalizzazioni evitate, un impatto pari a una vaccinazione dell’86% degli italiani (o degli over 50, visto che la vaccinazione dei giovani non sposta i risultati)». Altro dato (il più rilevante di tutti, come vedremo): «Se si usassero i due nuovi approcci in aggiunta ai vaccini (e non al loro posto), i morti totali sarebbero poco più di quelli annui di una normale influenza». Come si vede, siamo in presenza di qualcosa di eccezionalmente importante, se fosse confermato: non si tratta di accantonare i vaccini (anzi), ma di usare anche un’altra arma aggiuntiva, finora inspiegabilmente tenuta bloccata. Procediamo con ordine. Menichella, citando il professore americano Peter McCullough, parte da una critica serrata del modo in cui (sia negli Usa sia in Europa) sono state trattate le terapie come la cenerentola della situazione. Menichella attacca anche quella che definisce la «fantasiosa narrativa dell’immunità di gregge da raggiungere, quando qualsiasi esperto di vaccini sa che tale concetto si applica solo ai vaccini “sterilizzanti” (ovvero a quelli che bloccano l’ingresso del virus nelle cellule e ne impediscono la replicazione), non ai vaccini anti Covid attuali, che sono leaky (cioè in molti casi lasciano trasmettere l’infezione a terzi, naturalmente se il vaccinato si infetta). Con tutti i vaccini anti Covid attuali l’immunità di gregge», scrive il ricercatore della fondazione Hume, «è una chimera». Dopo di che, Menichella spiega che le terapie, per avere efficacia, debbono essere in primo luogo precoci (la tempestività è un fattore decisivo), e poi basate non su un solo farmaco, ma su un mix di farmaci: antivirali, antinfiammatori, anticoagulanti. A questo proposito, Menichella cita in dettaglio non solo il protocollo messo a punto da Mc Cullough, ma anche quello dell’Istituto Mario Negri guidato dal professor Giuseppe Remuzzi. In particolare, sia uno studio dello stesso Remuzzi con il prof Fredy Suter sia un altro lavoro curato da ricercatori inglesi e australiani (pubblicato sulla rivista The Lancet) appaiono particolarmente promettenti e potrebbero rappresentare una svolta. Ad esempio, attraverso un farmaco chiamato budesonide e somministrato attraverso uno spray nasale, «le ospedalizzazioni», annota Menichella, «sono state abbattute dell’80%, […] un tasso praticamente paragonabile a quello ottenibile con una campagna vaccinale di massa».Attenzione: in molti casi, come Menichella spiega con dovizia di particolari, si tratta di «farmaci low cost»: e ciò farebbe anche cadere l’argomento di chi paragona il costo complessivamente basso di una dose di vaccino con quelli di alcuni particolari farmaci, o anche con il costo altissimo di un trattamento in terapia intensiva. Dunque, prosegue Menichella, «le terapie ci sono e in molte parti del pianeta le stanno applicando con successo». E allora perché insistere con la formula «tachipirina e vigile attesa»? Perché rinunciare a protocolli seri di terapia domiciliare precoce? Perché il governo procede lentissimamente e i medici di base molto spesso non visitano a casa e non si prendono responsabilità? Quanti morti si sarebbero potuti evitare con questo approccio integrato? E qui arriva la parte sensazionale della ricerca. Oltre al dato già citato sul possibile crollo delle ospedalizzazioni grazie alle cure domiciliari precoci, ci sarebbe anche una caduta verticale dei tassi di letalità, cioè di mortalità. Scrive Menichella: «In Italia prima della campagna vaccinale» la letalità «si aggirava intorno al 2%». Ancora: «Dopo la campagna vaccinale in un paese come il Regno Unito», la letalità «è circa 9 volte inferiore» (0,30%), ed è già un risultato importantissimo. Ma, calcolando «la letalità che si avrebbe aggiungendo alle vaccinazioni cure domiciliari precoci con un protocollo serio», il tasso crollerebbe allo 0,05%. E se poi si usasse anche la prevenzione tramite opportuni integratori, conclude Menichella, il tasso si schiaccerebbe ancora allo 0,005%. Saremmo cioè «ad appena il 5 per mille, da confrontarsi con l’1 per mille dell’influenza stagionale in epoca pre Covid stimato dall’Iss». Insomma, siamo davanti a quella che la fondazione Hume definisce la nostra «polizza di assicurazione». E davvero non si comprende perché l’Aifa in molti casi attenda il via libera dell’autorità europea (ma per sdoganare la terza dose di vaccino non ha aspettato…). Né per quale ragione per i vaccini si sia proceduto con autorizzazioni anche d’emergenza per accelerarne l’uso, mentre in questo caso, per i farmaci adatti alle terapie domiciliari precoci (pur in assenza di numerosi e gravi effetti collaterali), questa accelerazione non ci sia stata. Le domande sono sul tavolo: occorre che qualcuno dia risposte convincenti.
Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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