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2022-08-02
Il Mali fa a pezzi Macron e si stringe a Mosca
Emmanuel Macron (Ansa)
Si consolida la longa manus della Russia sul Mali. La giunta militare attualmente alla guida del Paese ha criticato duramente ieri la Francia. «Il governo di transizione chiede che il presidente Macron abbandoni definitivamente il suo atteggiamento neocoloniale, paternalistico e condiscendente per capire che nessuno può amare il Mali più dei maliani», ha dichiarato il portavoce del governo di Bamako, Abdoulaye Maiga, facendo propria la retorica terzomondista usualmente (e strumentalmente) alimentata da Mosca e Pechino. Non dimentichiamo che pochi giorni fa Emmanuel Macron aveva criticato i legami tra Bamako e i mercenari russi del Wagner Group. Del resto, i rapporti tra Parigi e Bamako si sono gravemente deteriorati nel corso degli ultimi sette mesi. A giugno, Bamako aveva annunciato il ritiro del proprio personale dal G5 Sahel: il quadro di coordinamento tra Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, volto a contrastare la minaccia jihadista nella regione. Un’alleanza in cui l’Eliseo esercitava una notevole influenza dal punto di vista politico.
Va inoltre ricordato che personale russo starebbe progressivamente accedendo alle basi militari maliani lasciate dai francesi: secondo quanto riferito a inizio giugno da Rfi, ciò sarebbe accaduto alle strutture di Menaka, Gossi e Timbuctù. Si tratta ovviamente di una conseguenza del ritiro delle truppe francesi dal Paese: un Paese in cui il sentimento di ostilità nei confronti di Parigi è man mano cresciuto, favorendo indirettamente Mosca e Ankara. Eh sì, perché, oltre ai russi, anche i turchi stanno cercando di guadagnare terreno in Mali. Lo scorso giugno, Recep Tayyip Erdogan ha avuto un colloquio telefonico con il presidente maliano, Assimi Goita. Secondo quanto riferito nell’occasione dall’agenzia di stampa turca Anadolu, «il presidente turco ha sottolineato che presto verranno presi provvedimenti per rafforzare le relazioni economiche e commerciali tra i due Paesi». D’altronde, al netto della retorica terzomondista, il Mali fa gola per le sue risorse minerarie.
Tra l’altro, l’influenza russa e turca si sta espandendo anche in altre aree del Sahel. Il golpe militare verificatosi in Burkina Faso a gennaio fu, per esempio, accompagnato da manifestazioni in cui venivano sventolate bandiere russe: il Daily Beast riportò anche che l’allora presidente Christian Kaboré era stato probabilmente deposto per essersi rifiutato di assumere mercenari del Wagner Group, come invece richiesto dalle alte sfere militari del Paese. Era febbraio scorso invece quando la giunta militare al potere nel Ciad accusò un gruppo di ribelli di intrattenere legami con i mercenari Wagner. Tutto questo, mentre a fine luglio il primo ministro del Burkina Faso, Albert Ouedraogo, ha avuto un incontro con l’inviata turca nel Paese, Nilgun Erdem Ari. Nell’occasione, quest’ultima ha affermato: «La Turchia è pronta a sostenere il Burkina Faso, che sta affrontando una difficile situazione di sicurezza, umanitaria e insicurezza alimentare».
È interessante notare come il Sahel sembri costituire l’ennesimo fronte in cui Mosca e Ankara paiono aver messo in piedi un meccanismo di cooperazione in funzione anti occidentale. Non trascuriamo infatti che nell’area la violenza dovuta al jihadismo resta particolarmente elevata. Senza poi contare i rischi che presenta la crisi alimentare innescata dall’invasione russa dell’Ucraina: una crisi che i traballanti accordi di Istanbul stanno cercando di scongiurare. Va da sé che l’accavallarsi di tali fattori non fa che aumentare l’instabilità regionale. E questo è un problema, visto che il Sahel risulta un importante crocevia per gli ingenti flussi migratori diretti verso l’Europa occidentale. Ebbene, alla luce di questo fattore la progressiva perdita di influenza da parte della Francia (e più in generale dell’Unione europea) è ancor più preoccupante. Turchia e Russia hanno infatti già dimostrato in passato di saper usare i flussi migratori come strumento di pressione geopolitica per colpire l’Ue (pensiamo all’accordo siglato nel 2016 tra Bruxelles e Ankara e alla crisi migratoria orchestrata da Mosca e Minsk alle frontiere polacche).
La situazione complessiva è preoccupante. La leadership francese è significativamente azzoppata, mentre l’influenza di Bruxelles è sempre più traballante. L’Italia dovrebbe quindi spingere gli Stati Uniti a rafforzare urgentemente il fianco meridionale della Nato. È pur vero che il nuovo «strategic concept» dell’Alleanza atlantica cita il Sahel. Manca tuttavia ancora una visione organica su questo fronte.
Oltre all’inaffidabilità di Ankara, Washington deve capire che la Nato è eccessivamente sbilanciata a Est e che non considera ancora seriamente tutte le minacce che incombono dal Sahel e dal Nord Africa: a partire dalla Libia. Un altro Paese in cui tira preoccupante aria di spartizione tra Russia e Turchia.
Tensioni e nuove alleanze in Libia: Zar e Sultano pronti a spartirsela
Torna a salire la tensione in Libia. Nei giorni scorsi, si sono verificati scontri armati a Tripoli, con svariati morti. La situazione complessiva lascia intendere il probabile scoppio di una nuova guerra civile. Nel frattempo, il gioco delle alleanze e degli equilibri interni sta mutando.
Come riferito recentemente dal Guardian, si è formato un inedito asse tra il premier di Tripoli, Abdul Hamid Dbeibah, e il generale, Khalifa Haftar (ricordiamo che, alcuni mesi fa, quest’ultimo aveva dato il proprio endorsement a Fathi Bashagha, acerrimo rivale di Dbeibah).
Ebbene, come è venuto a costituirsi questo strano asse? Il mese scorso, il capo di stato maggiore delle milizie del generale della Cirenaica, Abdulrazek al-Nadoori, era stato invitato a Tripoli per dei colloqui. Non solo. Pochi giorni prima, Dbeibah aveva licenziato il direttore della National Oil Corporation, Mustafa Sanalla, che era notoriamente ai ferri corti con i manifestanti pro Haftar. Ora, al di là dei grovigli inerenti alla politica interna libica, l’aspetto più interessante di questa alleanza risiede nel suo versante internazionale. Dbeibah è storicamente uomo vicino alla Turchia, mentre Haftar è notoriamente spalleggiato da Russia ed Egitto. Non si può quindi escludere che l’asse tra il premier e il generale rappresenti una sorta di preludio per un accordo di spartizione del Paese tra Ankara e Mosca.
Recep Tayyip Erdogan mantiene una significativa influenza sull’Ovest della Libia e ha recentemente decretato una proroga di 18 mesi per la permanenza delle sue forze militari in loco. Vladimir Putin, dall’altra parte, continua ad estendere la propria longa manus sulla parte orientale del Paese, attraverso i temibili mercenari del Wagner Group. Tra l’altro, il Cremlino usa quest’area come trampolino di lancio per estendere la sua influenza sulla regione del Sahel. Non va infine trascurato che, nonostante interessi divergenti su vari fronti, Erdogan e Putin hanno talvolta creato meccanismi di cooperazione (si pensi soltanto allo spinoso dossier siriano). D’altronde, appena la settimana scorsa, la Russia ha offerto il suo aiuto alla Repubblica del Congo per organizzare una «conferenza volta alla riconciliazione nazionale in Libia».
È quindi altamente probabile che lo zar e il sultano puntino a escludere dal Paese nordafricano ogni significativa influenza occidentale. Uno scenario da incubo per l’Italia, che si ritroverebbe danneggiata sul piano economico, energetico, migratorio e geopolitico (in un momento in cui, tra l’altro, Turchia e Russia si stanno pesantemente infiltrando anche nei Balcani e nel Sahel). È alla luce di questo che Roma dovrebbe spingere Washington a rafforzare il fianco meridionale della Nato e a farsi conferire un ruolo di leadership in un tale quadro. Tutto questo, sottolineando l’inaffidabilità di Erdogan in seno all’Alleanza atlantica e tenendo d’occhio quell’Emmanuel Macron che già in passato ha spalleggiato Haftar e che ha ultimamente incontrato a Parigi due storici alleati del generale della Cirenaica, come il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman.
Certo: è pur vero che una corte della Virginia ha ritenuto pochi giorni fa Haftar responsabile di crimini di guerra.
Un fattore, questo, che teoricamente potrebbe azzoppare le sue mire politiche (ricordiamo infatti che si era candidato alle elezioni libiche l’anno scorso). Tuttavia la forza del generale risiede nel sostegno garantitogli dal Cremlino: un sostegno che, almeno per il momento, non sembra prossimo a venir meno. O l’Italia si muove per acquisire peso nella Nato o rischia di ritrovarsi attanagliata da Russia e Turchia nel Mediterraneo. Una prospettiva assolutamente pericolosa per il nostro interesse nazionale.
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Il governo militare attacca Parigi dopo le critiche ai legami del Paese coi mercenari Wagner: «Atteggiamento neocoloniale, paternalistico e condiscendente». L’ennesimo colpo all’influenza dell’Eliseo in Africa, a vantaggio di Russia e Turchia.Tensioni e nuove alleanze in Libia: Zar e Sultano pronti a spartirsela. Inedito asse tra il premier Abdul Hamid Dbeibah e il generale Khalifa Haftar. Scontri armati a Tripoli.Lo speciale comprende due articoli. Si consolida la longa manus della Russia sul Mali. La giunta militare attualmente alla guida del Paese ha criticato duramente ieri la Francia. «Il governo di transizione chiede che il presidente Macron abbandoni definitivamente il suo atteggiamento neocoloniale, paternalistico e condiscendente per capire che nessuno può amare il Mali più dei maliani», ha dichiarato il portavoce del governo di Bamako, Abdoulaye Maiga, facendo propria la retorica terzomondista usualmente (e strumentalmente) alimentata da Mosca e Pechino. Non dimentichiamo che pochi giorni fa Emmanuel Macron aveva criticato i legami tra Bamako e i mercenari russi del Wagner Group. Del resto, i rapporti tra Parigi e Bamako si sono gravemente deteriorati nel corso degli ultimi sette mesi. A giugno, Bamako aveva annunciato il ritiro del proprio personale dal G5 Sahel: il quadro di coordinamento tra Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, volto a contrastare la minaccia jihadista nella regione. Un’alleanza in cui l’Eliseo esercitava una notevole influenza dal punto di vista politico. Va inoltre ricordato che personale russo starebbe progressivamente accedendo alle basi militari maliani lasciate dai francesi: secondo quanto riferito a inizio giugno da Rfi, ciò sarebbe accaduto alle strutture di Menaka, Gossi e Timbuctù. Si tratta ovviamente di una conseguenza del ritiro delle truppe francesi dal Paese: un Paese in cui il sentimento di ostilità nei confronti di Parigi è man mano cresciuto, favorendo indirettamente Mosca e Ankara. Eh sì, perché, oltre ai russi, anche i turchi stanno cercando di guadagnare terreno in Mali. Lo scorso giugno, Recep Tayyip Erdogan ha avuto un colloquio telefonico con il presidente maliano, Assimi Goita. Secondo quanto riferito nell’occasione dall’agenzia di stampa turca Anadolu, «il presidente turco ha sottolineato che presto verranno presi provvedimenti per rafforzare le relazioni economiche e commerciali tra i due Paesi». D’altronde, al netto della retorica terzomondista, il Mali fa gola per le sue risorse minerarie. Tra l’altro, l’influenza russa e turca si sta espandendo anche in altre aree del Sahel. Il golpe militare verificatosi in Burkina Faso a gennaio fu, per esempio, accompagnato da manifestazioni in cui venivano sventolate bandiere russe: il Daily Beast riportò anche che l’allora presidente Christian Kaboré era stato probabilmente deposto per essersi rifiutato di assumere mercenari del Wagner Group, come invece richiesto dalle alte sfere militari del Paese. Era febbraio scorso invece quando la giunta militare al potere nel Ciad accusò un gruppo di ribelli di intrattenere legami con i mercenari Wagner. Tutto questo, mentre a fine luglio il primo ministro del Burkina Faso, Albert Ouedraogo, ha avuto un incontro con l’inviata turca nel Paese, Nilgun Erdem Ari. Nell’occasione, quest’ultima ha affermato: «La Turchia è pronta a sostenere il Burkina Faso, che sta affrontando una difficile situazione di sicurezza, umanitaria e insicurezza alimentare». È interessante notare come il Sahel sembri costituire l’ennesimo fronte in cui Mosca e Ankara paiono aver messo in piedi un meccanismo di cooperazione in funzione anti occidentale. Non trascuriamo infatti che nell’area la violenza dovuta al jihadismo resta particolarmente elevata. Senza poi contare i rischi che presenta la crisi alimentare innescata dall’invasione russa dell’Ucraina: una crisi che i traballanti accordi di Istanbul stanno cercando di scongiurare. Va da sé che l’accavallarsi di tali fattori non fa che aumentare l’instabilità regionale. E questo è un problema, visto che il Sahel risulta un importante crocevia per gli ingenti flussi migratori diretti verso l’Europa occidentale. Ebbene, alla luce di questo fattore la progressiva perdita di influenza da parte della Francia (e più in generale dell’Unione europea) è ancor più preoccupante. Turchia e Russia hanno infatti già dimostrato in passato di saper usare i flussi migratori come strumento di pressione geopolitica per colpire l’Ue (pensiamo all’accordo siglato nel 2016 tra Bruxelles e Ankara e alla crisi migratoria orchestrata da Mosca e Minsk alle frontiere polacche). La situazione complessiva è preoccupante. La leadership francese è significativamente azzoppata, mentre l’influenza di Bruxelles è sempre più traballante. L’Italia dovrebbe quindi spingere gli Stati Uniti a rafforzare urgentemente il fianco meridionale della Nato. È pur vero che il nuovo «strategic concept» dell’Alleanza atlantica cita il Sahel. Manca tuttavia ancora una visione organica su questo fronte. Oltre all’inaffidabilità di Ankara, Washington deve capire che la Nato è eccessivamente sbilanciata a Est e che non considera ancora seriamente tutte le minacce che incombono dal Sahel e dal Nord Africa: a partire dalla Libia. Un altro Paese in cui tira preoccupante aria di spartizione tra Russia e Turchia. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-mali-fa-a-pezzi-macron-e-si-stringe-a-mosca-2657789034.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="tensioni-e-nuove-alleanze-in-libia-zar-e-sultano-pronti-a-spartirsela" data-post-id="2657789034" data-published-at="1659391390" data-use-pagination="False"> Tensioni e nuove alleanze in Libia: Zar e Sultano pronti a spartirsela Torna a salire la tensione in Libia. Nei giorni scorsi, si sono verificati scontri armati a Tripoli, con svariati morti. La situazione complessiva lascia intendere il probabile scoppio di una nuova guerra civile. Nel frattempo, il gioco delle alleanze e degli equilibri interni sta mutando. Come riferito recentemente dal Guardian, si è formato un inedito asse tra il premier di Tripoli, Abdul Hamid Dbeibah, e il generale, Khalifa Haftar (ricordiamo che, alcuni mesi fa, quest’ultimo aveva dato il proprio endorsement a Fathi Bashagha, acerrimo rivale di Dbeibah). Ebbene, come è venuto a costituirsi questo strano asse? Il mese scorso, il capo di stato maggiore delle milizie del generale della Cirenaica, Abdulrazek al-Nadoori, era stato invitato a Tripoli per dei colloqui. Non solo. Pochi giorni prima, Dbeibah aveva licenziato il direttore della National Oil Corporation, Mustafa Sanalla, che era notoriamente ai ferri corti con i manifestanti pro Haftar. Ora, al di là dei grovigli inerenti alla politica interna libica, l’aspetto più interessante di questa alleanza risiede nel suo versante internazionale. Dbeibah è storicamente uomo vicino alla Turchia, mentre Haftar è notoriamente spalleggiato da Russia ed Egitto. Non si può quindi escludere che l’asse tra il premier e il generale rappresenti una sorta di preludio per un accordo di spartizione del Paese tra Ankara e Mosca. Recep Tayyip Erdogan mantiene una significativa influenza sull’Ovest della Libia e ha recentemente decretato una proroga di 18 mesi per la permanenza delle sue forze militari in loco. Vladimir Putin, dall’altra parte, continua ad estendere la propria longa manus sulla parte orientale del Paese, attraverso i temibili mercenari del Wagner Group. Tra l’altro, il Cremlino usa quest’area come trampolino di lancio per estendere la sua influenza sulla regione del Sahel. Non va infine trascurato che, nonostante interessi divergenti su vari fronti, Erdogan e Putin hanno talvolta creato meccanismi di cooperazione (si pensi soltanto allo spinoso dossier siriano). D’altronde, appena la settimana scorsa, la Russia ha offerto il suo aiuto alla Repubblica del Congo per organizzare una «conferenza volta alla riconciliazione nazionale in Libia». È quindi altamente probabile che lo zar e il sultano puntino a escludere dal Paese nordafricano ogni significativa influenza occidentale. Uno scenario da incubo per l’Italia, che si ritroverebbe danneggiata sul piano economico, energetico, migratorio e geopolitico (in un momento in cui, tra l’altro, Turchia e Russia si stanno pesantemente infiltrando anche nei Balcani e nel Sahel). È alla luce di questo che Roma dovrebbe spingere Washington a rafforzare il fianco meridionale della Nato e a farsi conferire un ruolo di leadership in un tale quadro. Tutto questo, sottolineando l’inaffidabilità di Erdogan in seno all’Alleanza atlantica e tenendo d’occhio quell’Emmanuel Macron che già in passato ha spalleggiato Haftar e che ha ultimamente incontrato a Parigi due storici alleati del generale della Cirenaica, come il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman. Certo: è pur vero che una corte della Virginia ha ritenuto pochi giorni fa Haftar responsabile di crimini di guerra. Un fattore, questo, che teoricamente potrebbe azzoppare le sue mire politiche (ricordiamo infatti che si era candidato alle elezioni libiche l’anno scorso). Tuttavia la forza del generale risiede nel sostegno garantitogli dal Cremlino: un sostegno che, almeno per il momento, non sembra prossimo a venir meno. O l’Italia si muove per acquisire peso nella Nato o rischia di ritrovarsi attanagliata da Russia e Turchia nel Mediterraneo. Una prospettiva assolutamente pericolosa per il nostro interesse nazionale.
Sergio Mattarella (Ansa)
Si torna quindi all’originale, fedeli al manoscritto autografo del paroliere, che morì durante l’assedio di Roma per una ferita alla gamba. Lo certifica il documento oggi conservato al Museo del Risorgimento di Torino.
La svolta riguarderà soprattutto le cerimonie militari ufficiali. Lo Stato Maggiore della Difesa, in un documento datato 2 dicembre, ha infatti inviato l’ordine a tutte le forze armate: durante gli eventi istituzionali e le manifestazioni militari nelle quali verrà eseguito l’inno nella versione cantata - che parte con un «Allegro marziale» -, il grido in questione dovrà essere omesso. E viene raccomandata «la scrupolosa osservanza» a tutti i livelli, fino al più piccolo presidio territoriale, dalla Guardia di Finanza all’Esercito. Ovviamente nessuno farà una piega se allo stadio i tifosi o i calciatori della nazionale azzurra (discorso che vale per tutti gli sport) faranno uno strappo alla regola, anche se la strada ormai è tracciata.
Per confermare la bontà della decisione del Colle basta ricordare le indicazioni che il Maestro Riccardo Muti diede ai 3.000 coristi (professionisti e amatori, dai 4 agli 87 anni) radunati a Ravenna lo scorso giugno per l’evento dal titolo agostiniano «Cantare amantis est» (Cantare è proprio di chi ama). Proprio in quell’occasione, come avevamo raccontato su queste pagine, il grande direttore d’orchestra - che da decenni cerca di spazzare via dall’opera italiana le aggiunte postume, gli abbellimenti non richiesti e gli acuti non scritti dagli autori, ripulendo le partiture dalle «bieche prassi erroneamente chiamate tradizioni» - ordinò a un coro neonato ma allo stesso tempo immenso: «Il “sì” finale non si canta, nel manoscritto non c’è».
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Scott Bessent (Ansa)
Partiamo da Washington, dove il Pil non solo non rallenta, ma accelera. Nel terzo trimestre dell’anno, da luglio a settembre, l’economia americana è cresciuta del 4,3%. Non un decimale in più o in meno: un punto pieno sopra le attese, ferme a un modesto 3,3%. Un dato arrivato in ritardo, complice lo stop federale che ha paralizzato le attività pubbliche, ma che ha avuto l’effetto di una doccia fredda per gli analisti più pessimisti. Altro che frenata da dazi: rispetto al secondo trimestre, l’incremento è stato dell’1,1%. Altro che economia sotto anestesia. Una successo che spinge Scott Bessent, segretario del Tesoro, a fare pressioni sulla Fed perché tagli i tassi e riveda al ribasso dal 2% all’1,5% il tetto all’inflazione. Il motore della crescita? I consumi, tanto per cambiare. Gli americani hanno continuato a spendere come se i dazi fossero un concetto astratto da talk show. Nel terzo trimestre i consumi sono saliti del 3,5%, dopo il più 2,5% dei mesi precedenti. A spingere il Pil hanno contribuito anche le esportazioni e la spesa pubblica, in un mix poco ideologico e molto concreto. La morale è semplice: mentre la politica discute, l’economia va avanti. E spesso prende un’altra direzione.
E l’Europa? Doveva essere la prima vittima collaterale della guerra commerciale. Anche qui, però, i numeri si ostinano a non obbedire alle narrazioni. L’Italia, per esempio, a novembre ha visto rafforzarsi il saldo commerciale con i Paesi extra Ue, arrivato a più 6,9 miliardi di euro, contro i 5,3 miliardi dello stesso mese del 2024. Quanto agli Stati Uniti, l’export italiano registra sì un calo, ma limitato: meno 3%. Una flessione che somiglia più a un raffreddore stagionale che a una polmonite da dazi. Non esattamente lo scenario da catastrofe annunciata.
Anche la Bce, che per statuto non indulge in entusiasmi, ha dovuto prendere atto della resilienza dell’economia europea. Le nuove proiezioni parlano di una crescita dell’eurozona all’1,4% nel 2025, in rialzo rispetto all’1,2% stimato a settembre, e dell’1,2% nel 2026, contro l’1,0 precedente. Non è un boom, certo, ma nemmeno il deserto postbellico evocato dai più allarmisti. Soprattutto, è un segnale: l’Europa cresce nonostante tutto, e nonostante tutti. E poi c’è la Cina, che osserva il dibattito globale con il sorriso di chi incassa. Nei primi undici mesi del 2025 Pechino ha messo a segno un surplus commerciale record di oltre 1.000 miliardi di dollari, con esportazioni superiori ai 3.400 miliardi. Altro che isolamento: la fabbrica del mondo continua a macinare numeri, mentre l’Occidente discute se i dazi siano il male assoluto o solo un peccato veniale.
Alla fine, la lezione è sempre la stessa. I dazi fanno rumore, le previsioni pure. Ma l’economia parla a bassa voce e con i numeri. E spesso, come in questo caso, si diverte a smentire chi aveva già scritto il copione del disastro. Le cassandre restano senza applausi. Le statistiche, ancora una volta, si prendono la scena.
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Paolo Barletta, Ceo Arsenale S.p.a. (Ansa)
Il contributo di Simest è pari a 15 milioni e passa dalla Sezione Infrastrutture del Fondo 394/81, plafond in convenzione con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, dedicato alle imprese italiane impegnate in grandi commesse estere che valorizzano la filiera nazionale. In termini di struttura, il capitale sociale congiunto copre la componente di rischio industriale, mentre la componente del fondo saudita sostiene la rampa di avvio del progetto, riducendo il fabbisogno di capitale a carico dei partner italiani e rafforzando la bancabilità dell’iniziativa nel Paese ospitante, presentata come modello pubblico-privato nel segmento ferroviario di lusso.
L’intesa è inserita nella collaborazione Italia-Arabia Saudita, richiamando l’apertura della sede Simest a Riyadh e il Memorandum of Understanding tra Cdp, Simest e Jiacc. «Dream of the Desert» è indicato come progetto apripista di un modello pubblico-privato nel trasporto ferroviario di lusso.
«Dream of the Desert è un progetto simbolo per il nostro gruppo e per l’industria ferroviaria internazionale. Valorizza le Pmi italiane e costituisce un caso apripista di partnership pubblico-privata nel settore ferroviario di lusso. L’accordo siglato con Simest e le istituzioni saudite conferma come la collaborazione tra imprese e istituzioni possa creare valore duraturo e promuovere le eccellenze italiane nel mondo», commenta Paolo Barletta, amministratore delegato di Arsenale.
Regina Corradini D’Arienzo, amministratore delegato di Simest, aggiunge: «L’intesa sottoscritta con un primario attore industriale come Arsenale per la realizzazione di un progetto strategico per il Made in Italy, conferma il rafforzamento del ruolo di Simest a sostegno del tessuto produttivo italiano e delle sue filiere. Attraverso la prima operazione realizzata nell’ambito del Plafond di equity del fondo pubblico di Investimenti infrastrutturali», continua la numero uno del gruppo, «Simest interviene direttamente come socio per accrescere la competitività delle nostre imprese impegnate in progetti infrastrutturali ad alto valore aggiunto, favorendo al contempo l’espansione del Made in Italy in mercati strategici ad elevato potenziale di crescita, come quello saudita. Lo strumento, sviluppato da Simest sotto la regia del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e in collaborazione con Cassa depositi e prestiti, si inserisce pienamente nell’azione del Sistema Italia, che, sotto la regia della Farnesina, vede il coinvolgimento di Cdp, Simest, Ice e Sace. Un approccio integrato volto a garantire alle imprese italiane un supporto strutturato e complementare, dall’azione istituzionale a quella finanziaria, per affrontare con efficacia le principali sfide della competitività internazionale».
Sul piano industriale, Arsenale dichiara un treno interamente progettato, prodotto e allestito in Italia: gli hub Cpl (Brindisi) e Standgreen (Bergamo) operano con Cantieri ferroviari italiani (Cfi) come general contractor, coordinando una rete di Pmi (design, meccanica avanzata, ingegneria, lusso e hospitality). Per il committente estero, questa configurazione «turnkey (chiavi in mano, ndr.)» concentra in un unico soggetto il coordinamento di produzione, integrazione e allestimento; per l’ecosistema italiano, sposta volumi e valore aggiunto lungo la catena domestica, fino alla finitura degli interni ad alto contenuto di design.
Il prodotto sarà un treno di ultra lusso con itinerari da uno a due notti: partenza da Riyadh e collegamenti verso destinazioni iconiche del Regno, tra cui Alula (sito Unesco) e Hail, fino al confine con la Giordania. Gli interni sono firmati dall’architetto e interior designer Aline Asmar d’Amman, fondatore dello studio Culture in Architecture. La prima carrozza è stata consegnata a settembre 2025; l’avvio operativo è previsto per fine 2026, con prenotazioni aperte da novembre 2025.
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Matteo Hallissey (Ansa)
Il video è accompagnato da un post: «Abbiamo messo in atto», scrive l’ex perfetto sconosciuto Hallisey, «un flash mob pacifico pro Ucraina all’interno di un convegno filorusso organizzato dall’Anpi all’università Federico II di Napoli. Dopo aver atteso il termine dell’evento con Alessandro Di Battista e il professor D’Orsi e al momento delle domande, decine di studenti e attivisti pro Ucraina di +Europa, Ora!, Radicali, Liberi Oltre, Azione e della comunità ucraina hanno mostrato maglie e bandiere ucraine. È vergognoso che non ci sia stata data la possibilità di fare domande e che l’attivista che stava interloquendo con i relatori sia stato aggredito e spinto da un rappresentante dell’Anpi fino a rompere il microfono. Anch’io sono stato aggredito violentemente», aggiunge il giovane radicale, «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi sulla sua partecipazione alla sfilata di gala di Russia Today a Mosca due mesi fa. Chi rivendica la storia antifascista e partigiana non può non condannare queste azioni di fronte a una manifestazione pacifica».
Rivedendo più volte il video al Var, di aggressioni non ne abbiamo viste, a parte come detto qualche spinta, ma va detto pure che quando Hallissey scrive «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi», omette di precisare che quella domanda è stata posta al professore, ma in maniera tutt’altro che pacata: le urla del buon Matteo sono scolpite nel video da lui stesso, ripetiamo, pubblicato. Per quel che riguarda la rottura del microfono, le immagini, viste e riviste non chiariscono se il fallo c’è o no: si vede un giovane attivista che contende un microfono a D’Orsi, ma i frame non permettono di accertare se alla fine si sia rotto o sia rimasto intero.
Quello che è certo è che ieri sono piovuti nelle redazioni i soliti comunicati di solidarietà, non solo da parte di Azione, degli stessi Radicali e di Benedetto Della Vedova, ma anche del capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, che su X ha vergato un severo post: «Solidarietà a Matteo Hallissey, presidente dei Radicali italiani», ha scritto Bignami, «aggredito a un evento Anpi per aver provato a porre domande in un flash mob pacifico. Da chi ogni giorno impartisce lezioni di democrazia ma reagisce con violenza, non accettiamo lezioni». Non si comprende, come abbiamo detto, dove sia la violenza, perché per una volta bisogna pur mettere da parte il politically correct e l’ipocrisia dilagante e dire le cose come stanno: dal video emerge in maniera cristallina la natura provocatoria del flash mob pro Ucraina, e da quelle urla e da quegli atteggiamenti, per noi che abbiamo purtroppo l’abitudine a pensar male, anche se si fa peccato, fa capolino pure che magari l’obiettivo era proprio quello di scatenare una reazione violenta da parte dei partecipanti al convegno.
Non lo sapremo mai: quello che sappiamo è che i Radicali, sigla che nella politica italiana ha avuto un ruolo di primissimo piano per tante battaglie condotte in primis dal compianto Marco Pannella, sono ormai ridotti a praticare forme di puro macchiettismo politico, pur di ottenere un po’ di visibilità: ricorderete lo show di Riccardo Magi, deputato di +Europa, che vaga nell’aula di Montecitorio vestito da fantasma. A proposito di Magi: il congresso che lo scorso febbraio ha rieletto segretario di +Europa il deputato fantasma è stato caratterizzato da innumerevoli polemiche e altrettante ombre. Poche ore prima della chiusura del tesseramento, il 31 dicembre, dalla provincia di Napoli, in particolare da Giugliano e Afragola, arrivano la bellezza di 1.900 nuovi iscritti, praticamente un terzo dell’intera platea di tesserati, iscritti che poi si traducono in delegati che eleggono i vertici del partito. Una conversione di massa alla causa radicale degli abitanti di questi due popolosi comuni del Napoletano in sostanza stravolge gli equilibri congressuali. Tra accuse e controaccuse, un giovanissimo militante, alla fine dello stesso congresso, sconfigge nella corsa alla presidenza di +Europa uno storico esponente del partito come Benedetto Della Vedova. Si tratta proprio di Matteo Hallissey.
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