2019-02-14
Il liberismo va bene. Ma ora è il caso di rifare il ministero dell’Industria
Pure la Germania medita un fondo per la tutela dell'innovazione. Il mercato resta un faro, ma lo Stato deve indicare i settori chiave.Sembra un paradosso. Ma così non è. In un mondo che ha spinto forte l'acceleratore verso l'economia di mercato, il libero scambio, le liberalizzazioni e privatizzazioni e la contrazione del ruolo dello Stato nell'economia, ora emergono forti spinte ad un ritorno deciso del ruolo dello Stato imprenditore. Il caso recente delle affermazioni del ministro dell'economia tedesco, Peter Altmaier, sulla costituzione di un fondo sovrano tedesco per proteggere i campioni nazionali ha scosso le coscienze. L'idea è quella di dotare un veicolo di investimento, sotto controllo dello Stato, dei capitali necessari per difendere campioni nazionali come Siemens, Thyssenkrupp, Deutsche Bank, Daimler, Bmw e altre grandi realtà. Dopo le scorribande di aziende cinesi e la minaccia di fondi di venture capital americani che, grazie a enormi capitali, possono setacciare le società tecnologiche tedesche, anche il governo teutonico ha alzato la bandiera del protezionismo industriale. Oltre confine, la Francia ha da sempre mostrato, dietro un elegante charme liberal-mercatista, una sostanza napoleonica con un ecosistema politico e finanziario fortemente a sostegno di campioni nazionali, pronti ad espandersi oltralpe, nel territorio nordafricano, nell'area del medio oriente e in ogni altro terreno fertile a livello globale. Nel nostro Paese da anni ormai è stata insabbiata, nascosta e poi quasi definitivamente abbandonata la funzione di politica industriale del governo. Prima celando il ministero dell'Industria sotto l'effige delle più generiche Attività produttive e poi dello Sviluppo economico. Tutto ciò per non dare l'idea che lo Stato dovesse mantenere un intervento diretto nel sistema industriale. D'altronde il vento soffiava contro tutto ciò che odorava di dirigismo, statalismo e anti-mercatismo. Ciononostante, ancora oggi le più grandi aziende italiane sono quelle di matrice statale o che gravitano nell'orbita dello Stato, come Eni, Enel, Leonardo e, per lungo tempo e ancora in parte nonostante la parziale privatizzazione, Poste Italiane. Il recente ingresso dello Stato in aziende da risanare ha poi portato benefici, permettendo la rigenerazione di realtà in crisi: i recenti risultati di Monte dei Paschi dopo l'intervento statale sono positivi e incoraggianti. Migliore è stata sicuramente questa soluzione di salvataggio statale rispetto alle maldestre operazioni di mercato del fondo Atlante nel tentativo di salvare Veneto Banca e Popolare di Vicenza. Per non parlare poi dei raccapriccianti tentativi di applicare logiche di mercato al salvataggio di Etruria, Banca Marche, Carife e CariChieti con i piccoli risparmiatori chiamati a fare da capri espiatori. In nome del nuovo verbo del bail in sono stati azzerate obbligazioni e ricostituito il capitale, a scapito di suicidi e drammi famigliari di persone ridotte sul lastrico da scaltri piazzisti di carta straccia bancaria. Sempre in nome dei benefici taumaturgici del mercato, stile alcuni prodotti venduti in famose televendite, sono state arrangiate in maniera pasticciata le privatizzazioni di aziende storiche e all'avanguardia in Italia. Molte di queste aziende, di precedente matrice statale, una volta privatizzate sono divenute prede facili di speculatori e predatori che le hanno ridotte a brandelli, impoverite a livello competitivo e sotto il fardello di debiti, come nel caso di Tim, la ex Telecom Italia, sfiancata da anni di passaggi di mano e ancora alla ricerca di nuovi padroni. È auspicabile quindi il ritorno anche in Italia, e quanto prima, di una vera politica industriale, dove il governo direzioni lo sviluppo di alcuni settori chiave e sostenga attraverso un intervento diretto la creazione di poli produttivi di interesse strategico, di nuove infrastrutture fondamentali per uno sviluppo economico eterogeneo ed esteso sul territorio, che favorisca l'emergere di nuove e potenti realtà aziendali. Tre possono essere le direttrici d'azione per l'articolazione di una nuova politica industriale: la riattivazione di un ministero dell'Industria, e se il termine appare vetusto sia pure denominato con un termine più moderno e spendibile come «ministero della Smart Industry», un intervento più forte di Cassa depositi e prestiti nella realizzazione di infrastrutture e nella creazione di poli e campioni nazionali (come una possibile integrazione Mediaset-Tim), e un nuovo ruolo per Invitalia, capace di incidere di più nella direzione del settore tecnologico italiano. Il governo ha già mosso i primi tentativi nella direzione di una nuova politica industriale, forse ancora un po' timidi, ma che fanno intravedere la direzione da intraprendere. Ad esempio, l'emendamento che spinge l'afflusso di importanti risorse finanziarie dal risparmio italiano, altro grande patrimonio nostrano che deve essere salvaguardato da fameliche fauci internazionali, alle piccole e medie imprese italiane è un ottimo viatico. Un modo nuovo e smart di fare politica industriale italiana. Nei tempi che viviamo non sembra certo un paradosso.