In nome della «market democracy» qualsiasi cosa è permessa, poiché portatrice di benefici per tutti! La «democrazia del mercato» è il nuovo mantra, la nuova ideologia, cui molti aderiscono con un certo trasporto emotivo e fanatismo talebano. Tutto ciò che è frapposto all'affermazione del mercato è da combattere e rimuovere. Una certa deriva di estremismo ideologico considera il mercato la definitiva soluzione di ordine sociale, in funzione della quale è giustificata la creazione di organismi sovranazionali che ne garantiscano il funzionamento a discapito dei singoli Stati, delle singole regioni e dei popoli che a questi sono subordinati. I motivi a sostegno di una supremazia del mercato, rispetto allo Stato, sono molto semplici, e per molti versi condivisibili.
Il mercato permette una relazione diretta tra chi ha progetti e volontà e propone idee, prodotti e servizi a coloro che hanno strumenti e capitali. Senza alcuna intermediazione che abbia effetti distorsivi o peggio manipolativi, e che vada, nefastamente, a premiare soggetti mediocri anziché soggetti talentuosi e meritevoli. Tutto perfetto e condivisibile, purtroppo solo sul piano teorico. Guardando però con maggiore pragmatismo la realtà, non sempre il mercato è in grado di garantire benessere diffuso, equità e riconoscimento del merito. Sono molti gli studi, anche in epoca recente, che hanno evidenziato le forti disparità di un sistema di mercato senza controllo.
Il problema non risiede nel mercato di per sé, ma nelle forze che in esso operano. Il mercato infatti tende inevitabilmente ad avvantaggiare i soggetti più forti, quelli cioè dotati di maggiori risorse, in sintesi di maggiore capitale. Senza un'azione riequilibratrice, il mercato tende a dar vita al fenomeno del «winner takes it all»: il vincitore prende tutto. Un lampante esempio è rappresentato dalle nuove imprese big tech, osannate da molti con approccio religioso e fanatico, come se fossero nuovi oggetti di culto capaci di dare un senso alla vita delle persone. Grandi imprese nate e sviluppatesi in maniera mastodontica grazie alle dinamiche dei mercati finanziari.
Oggi a loro tutto è dovuto, grazie alla legge del più forte: possono svilupparsi in differenti ambiti industriali, essere «disruptive» e spazzare via settori e piccole economie, espandersi in settori regolamentati come quello bancario e sfuggire alla tassazione grazie a sofisticati sistemi di delocalizzazione delle sedi legali in nazioni compiacenti e complici. E questo il vero obiettivo della «market democracy»?
In realtà la democrazia indotta dal mercato, così come rappresentata dai suoi vati, dovrebbe agevolare gli scambi e le relazioni ma con il fine ultimo di realizzare benessere diffuso e maggiore eguaglianza.
In definitiva maggior progresso. Per questo il teorema del «mercato come soluzione suprema» è stato appoggiato negli ultimi anni in particolar modo da forze politiche social-democratiche. In nome dell'ideologia del progresso e dell'equità sociale gli estensori della socialdemocrazia hanno però completamente perso di vista la realtà. Una realtà in cui la forza dei motori del mercato e delle realtà sovranazionali che lo hanno sostenuto, ha avvantaggiato i più forti e creato sostanziali «oligopoli e monopoli di mercato», di fatto affermando una «market supremacy» anziché una «market democracy».
A scanso di equivoci queste affermazioni non vogliono giustificare il ritorno di assolutismi di Stato, bensì fornire una visione equilibrata della dicotomia Stato-Mercato. Lo Stato, e ancor di più le istituzioni civili dei popoli e degli ambiti territoriali, sono infatti i necessari meccanismi riequilibratori in grado di garantire che il mercato possa essere strumentale alla generazione di benessere diffuso. Pensate ad un mercato rionale. Se gli spazi all'interno del mercato del rione venissero assegnati solo in base alla forza dei singoli espositori, molti piccoli espositori, però portatori di valori e qualità produttive, verrebbero relegati ai margini e sparirebbero. Ancor peggio, verrebbero assorbiti da quei produttori che hanno semplicemente occupato maggiore spazio.
L'Unione europea, a breve chiamata al voto, è oggi esposta a forti critiche perché molte delle sue istituzioni, teoricamente votate alla costituzione di una «market democracy» con accesso libero al mercato e generatrice di benessere diffuso, sembrano aver maggiormente prestato il fianco ai grandi interessi organizzati e alle multinazionali, quindi alla legge del più forte e del «winner takes it all». Al tempo stesso le istituzioni europee non sembrano essere state in grado di operare un equilibrio tra i macro interessi degli Stati aderenti. L'euro, come moneta unica e strumentale al disegno, virtuoso e ambizioso, di un mercato ampio e libero, sembra aver favorito più alcuni soggetti che altri. Di sicuro realtà come le nordiche Ikea e H&M hanno beneficiato di una moneta unica per espandersi nei mercati del Sud Europa, come l'Italia, facendo leva sulla capacità di vendere prodotti a prezzo basso che sono andati parzialmente a sostituire i prodotti dei piccoli mobilieri brianzoli e delle produzioni «a prezzo accessibile» italiane. Ma qual è stato il beneficio per il sistema produttivo italiano e per l'Europa nel suo complesso? Quale è stata l'azione riequilibratrice del mercato unico e delle istituzioni europee che lo hanno sostenuto? Non stupiamoci quindi della nascita di movimenti antieuro o euroscettici nel nostro Paese. La «market democracy» può essere raggiunta con un intervento attento delle istituzioni civili, capace di comprendere le necessità sociali e riequilibrarne gli effetti.
Il mercato è una splendida creazione che nel contesto europeo può realmente favorire il progresso, se opportunamente orientato ad esempio al tessuto delle piccole e medie imprese che spesso sono state precluse da un accesso agevole ai mercati, in particolare quelli internazionali e finanziari. Ancora molto può essere realizzato per creare infrastrutture di mercato cui accedano le imprese di minori dimensioni. Attraverso un impegno congiunto di istituzioni europee come la Bers e la Bei è possibile lavorare su progetti che disegnino architetture di mercato inclusive facendo leva in particolare sulle nuove tecnologie. È così possibile auspicare la creazione di piattaforme di mercato sul modello di Alibaba che agevolino l'incontro tra le piccole eccellenze produttive europee nell'artigianato, nelle produzioni eco-sostenibili dei territori montani, nelle innovazioni del design e della moda, nelle nicchie manifatturiere e la domanda internazionale. Parimenti è da caldeggiare la realizzazione di piattaforme che agevolino la raccolta di capitali finanziari da parte di start up in tutto l'ambito europeo e nell'euro-mediterraneo. La matrice storica e culturale europea pone da sempre l'Ue in posizione intermedia tra le derive più spinte del libero mercato e l'assolutismo di Stato. Ciò dovrebbe agevolare la ricerca di soluzioni dove le istituzioni siano fautrici di progetti collettivi che usino il mercato come fattore propulsivo dello sviluppo economico per l'intera Europa. Solo così è possibile realizzare una «market democracy», realmente foriera di benefici per tutti, non certo una «market supremacy» o peggio una «market dictatorship».
*Direttore del master
in Corporate Finance,
Università Bocconi
Alla sola pronuncia della parola bail in, in una accezione negativa, da parte del ministro dell'Economia, Giovanni Tria, è ripartito il tormentone sull'efficacia o meno di questa soluzione nella gestione delle crisi bancarie italiane. Non hanno certo fatto mancare il loro apporto al dibattito i soliti opinionisti che vivono costantemente in una torre d'avorio collocata ad una distanza siderale dalla realtà.
C'è chi infatti ha ricordato che il bail in, la soluzione che azzera il capitale dei soci, è una soluzione buona e giusta quale redde rationem nei confronti di sciagurati e irresponsabili capitalisti che hanno scelto amministratori incompetenti e malvagi. D'altronde, come sempre, questi sedicenti esperti dimenticano il contesto e ignorano che molti di questi «capitalisti» erano persone comuni, ingannate da qualche fidato impiegato di banca. Queste povere persone nulla sapevano sui rischi del loro investimento, tantomeno erano in grado di comprendere i fini meccanismi gestionali di una banca e di certo non avevano né la forza né la capacità di intervenire sui vertici aziendali. Non possiamo mica considerare questi piccoli risparmiatori alla stregua di grandi fondi d'investimento internazionali, dotati di ingenti capitali e con una pletora di avvocati a difenderne gli interessi! Purtroppo però la metafisica astratta di certe interpretazioni ortodosse dell'economia e del sistema finanziario trascende la realtà. Ora tornando alle banche di casa nostra sarebbe più opportuno orientare il dibattito in veste più pratica e concreta. Rispondendo a domande del tipo: come possiamo rendere il sistema bancario più forte? Come possiamo salvaguardare i piccoli risparmiatori?
Dare risposta a queste domande è urgente, soprattutto in una fase storica in cui la trasformazione digitale sta investendo proprio un settore nevralgico per l'economia come quello bancario. L'Italia è ancora molto indietro nello sviluppo di campioni del Fintech. Molte banche tradizionali sono ancora alle prese con i crediti deteriorati da smaltire e la loro evoluzione verso modelli Fintech è pachidermica. Le start up italiche della finanza digitale, pur presenti e battagliere, sono ancora di dimensioni troppo piccole per incidere sulle dinamiche del settore. All'estero però nuovi operatori del Fintech stanno affermandosi, in modo così eclatante, da far ipotizzare a breve un grande scossone. Alcuni di questi nuovi attori, come la svedese Klarna, l'olandese Adyen, l'inglese Revolut, la teutonica N26, hanno ormai acquisito dimensioni significative nonché capitalizzazioni da capogiro. Da qualche parte noi dovremo pur partire e qualche soluzione pragmatica ed efficace va trovata e in fretta. Una soluzione potrebbe esserci, in linea con la situazione odierna italiana.
La vituperata banca Mps, da tempo sotto protezione dello Stato e in via di risanamento, potrebbe essere la risposta. La storica banca senese, finita agonizzante e ad un passo dall'estrema unzione dopo le scorribande di una certa politica «progressista», può diventare la nuova araba fenice digitale. Mai occasione era stata tanto propizia. Sotto il controllo dello Stato e in una fase di completa riorganizzazione può essere orientata a quegli investimenti e ad un cambio di modello gestionale per renderla il campione nazionale Fintech. In questo momento Mps è più elastica al cambiamento e potrebbe approfittare di questa fase per accelerare nella trasformazione digitale. Inoltre, per ergersi a campione nazionale con mire anche sovranazionali, potrebbe fare da attrattore e acquirente di molti pezzi validi del Fintech italiano che potrebbero cambiarne il modello operativo. Investendo in una Mps digitale lo Stato Italiano potrebbe così incentivare e valorizzare una nuova imprenditoria digitale allettata dalla possibilità di finire nel perimetro di un grande gruppo Fintech di stampo nazionale. Mps può contare su buone basi, grazie alla banca online Widiba, avviata proprio alcuni fa nel pieno della crisi. Il ruolo dello Stato può essere doppiamente efficace e benefico: da un lato agevolare il salvataggio e dall'altro dare una direzione strategica alla banca. Poi ad un certo punto lo Stato dovrebbe fermarsi e agevolare un passaggio di mercato. Il trasferimento del testimone al mercato potrebbe avvenire attraverso una quotazione in Borsa che coinvolga anche i piccoli risparmiatori. Agendo così verrebbe sanata e modernizzata una banca, garantita l'occupazione, e creata ricchezza da restituire ai contribuenti che con le proprie tasse hanno sostenuto la nazionalizzazione.
Stato e mercato sono in assoluta antitesi? Chi lo dice non ha contezza dell'economia reale. Stato e Mercato posso andare a braccetto in molteplici occasioni. Come nel grande progetto di una Fintech di Stato, poi quotata e con una pletora di piccolissimi azionisti italiani. Anche a Genova sono alle prese con una delicata operazione di ristrutturazione e rilancio di banca Carige. Sarebbe meglio evitare di far pronunciare la parola bail in ai genovesi. Ne verrebbe fuori qualcosa di altamente imbarazzante.
*Direttore del master in Corporate Finance, Università Bocconi
Sembra un paradosso. Ma così non è. In un mondo che ha spinto forte l'acceleratore verso l'economia di mercato, il libero scambio, le liberalizzazioni e privatizzazioni e la contrazione del ruolo dello Stato nell'economia, ora emergono forti spinte ad un ritorno deciso del ruolo dello Stato imprenditore. Il caso recente delle affermazioni del ministro dell'economia tedesco, Peter Altmaier, sulla costituzione di un fondo sovrano tedesco per proteggere i campioni nazionali ha scosso le coscienze.
L'idea è quella di dotare un veicolo di investimento, sotto controllo dello Stato, dei capitali necessari per difendere campioni nazionali come Siemens, Thyssenkrupp, Deutsche Bank, Daimler, Bmw e altre grandi realtà. Dopo le scorribande di aziende cinesi e la minaccia di fondi di venture capital americani che, grazie a enormi capitali, possono setacciare le società tecnologiche tedesche, anche il governo teutonico ha alzato la bandiera del protezionismo industriale.
Oltre confine, la Francia ha da sempre mostrato, dietro un elegante charme liberal-mercatista, una sostanza napoleonica con un ecosistema politico e finanziario fortemente a sostegno di campioni nazionali, pronti ad espandersi oltralpe, nel territorio nordafricano, nell'area del medio oriente e in ogni altro terreno fertile a livello globale.
Nel nostro Paese da anni ormai è stata insabbiata, nascosta e poi quasi definitivamente abbandonata la funzione di politica industriale del governo. Prima celando il ministero dell'Industria sotto l'effige delle più generiche Attività produttive e poi dello Sviluppo economico. Tutto ciò per non dare l'idea che lo Stato dovesse mantenere un intervento diretto nel sistema industriale. D'altronde il vento soffiava contro tutto ciò che odorava di dirigismo, statalismo e anti-mercatismo. Ciononostante, ancora oggi le più grandi aziende italiane sono quelle di matrice statale o che gravitano nell'orbita dello Stato, come Eni, Enel, Leonardo e, per lungo tempo e ancora in parte nonostante la parziale privatizzazione, Poste Italiane. Il recente ingresso dello Stato in aziende da risanare ha poi portato benefici, permettendo la rigenerazione di realtà in crisi: i recenti risultati di Monte dei Paschi dopo l'intervento statale sono positivi e incoraggianti. Migliore è stata sicuramente questa soluzione di salvataggio statale rispetto alle maldestre operazioni di mercato del fondo Atlante nel tentativo di salvare Veneto Banca e Popolare di Vicenza. Per non parlare poi dei raccapriccianti tentativi di applicare logiche di mercato al salvataggio di Etruria, Banca Marche, Carife e CariChieti con i piccoli risparmiatori chiamati a fare da capri espiatori.
In nome del nuovo verbo del bail in sono stati azzerate obbligazioni e ricostituito il capitale, a scapito di suicidi e drammi famigliari di persone ridotte sul lastrico da scaltri piazzisti di carta straccia bancaria. Sempre in nome dei benefici taumaturgici del mercato, stile alcuni prodotti venduti in famose televendite, sono state arrangiate in maniera pasticciata le privatizzazioni di aziende storiche e all'avanguardia in Italia. Molte di queste aziende, di precedente matrice statale, una volta privatizzate sono divenute prede facili di speculatori e predatori che le hanno ridotte a brandelli, impoverite a livello competitivo e sotto il fardello di debiti, come nel caso di Tim, la ex Telecom Italia, sfiancata da anni di passaggi di mano e ancora alla ricerca di nuovi padroni. È auspicabile quindi il ritorno anche in Italia, e quanto prima, di una vera politica industriale, dove il governo direzioni lo sviluppo di alcuni settori chiave e sostenga attraverso un intervento diretto la creazione di poli produttivi di interesse strategico, di nuove infrastrutture fondamentali per uno sviluppo economico eterogeneo ed esteso sul territorio, che favorisca l'emergere di nuove e potenti realtà aziendali. Tre possono essere le direttrici d'azione per l'articolazione di una nuova politica industriale: la riattivazione di un ministero dell'Industria, e se il termine appare vetusto sia pure denominato con un termine più moderno e spendibile come «ministero della Smart Industry», un intervento più forte di Cassa depositi e prestiti nella realizzazione di infrastrutture e nella creazione di poli e campioni nazionali (come una possibile integrazione Mediaset-Tim), e un nuovo ruolo per Invitalia, capace di incidere di più nella direzione del settore tecnologico italiano. Il governo ha già mosso i primi tentativi nella direzione di una nuova politica industriale, forse ancora un po' timidi, ma che fanno intravedere la direzione da intraprendere. Ad esempio, l'emendamento che spinge l'afflusso di importanti risorse finanziarie dal risparmio italiano, altro grande patrimonio nostrano che deve essere salvaguardato da fameliche fauci internazionali, alle piccole e medie imprese italiane è un ottimo viatico. Un modo nuovo e smart di fare politica industriale italiana. Nei tempi che viviamo non sembra certo un paradosso.





