2019-05-16
Lo Stato asociale targato Ue ed euro ha storpiato pure il senso del mercato
Va bene il capitalismo, ma pensare che risolva tutti i problemi di uguaglianza è un errore. Per Bruxelles è ora di mettere paletti.In nome della «market democracy» qualsiasi cosa è permessa, poiché portatrice di benefici per tutti! La «democrazia del mercato» è il nuovo mantra, la nuova ideologia, cui molti aderiscono con un certo trasporto emotivo e fanatismo talebano. Tutto ciò che è frapposto all'affermazione del mercato è da combattere e rimuovere. Una certa deriva di estremismo ideologico considera il mercato la definitiva soluzione di ordine sociale, in funzione della quale è giustificata la creazione di organismi sovranazionali che ne garantiscano il funzionamento a discapito dei singoli Stati, delle singole regioni e dei popoli che a questi sono subordinati. I motivi a sostegno di una supremazia del mercato, rispetto allo Stato, sono molto semplici, e per molti versi condivisibili. Il mercato permette una relazione diretta tra chi ha progetti e volontà e propone idee, prodotti e servizi a coloro che hanno strumenti e capitali. Senza alcuna intermediazione che abbia effetti distorsivi o peggio manipolativi, e che vada, nefastamente, a premiare soggetti mediocri anziché soggetti talentuosi e meritevoli. Tutto perfetto e condivisibile, purtroppo solo sul piano teorico. Guardando però con maggiore pragmatismo la realtà, non sempre il mercato è in grado di garantire benessere diffuso, equità e riconoscimento del merito. Sono molti gli studi, anche in epoca recente, che hanno evidenziato le forti disparità di un sistema di mercato senza controllo. Il problema non risiede nel mercato di per sé, ma nelle forze che in esso operano. Il mercato infatti tende inevitabilmente ad avvantaggiare i soggetti più forti, quelli cioè dotati di maggiori risorse, in sintesi di maggiore capitale. Senza un'azione riequilibratrice, il mercato tende a dar vita al fenomeno del «winner takes it all»: il vincitore prende tutto. Un lampante esempio è rappresentato dalle nuove imprese big tech, osannate da molti con approccio religioso e fanatico, come se fossero nuovi oggetti di culto capaci di dare un senso alla vita delle persone. Grandi imprese nate e sviluppatesi in maniera mastodontica grazie alle dinamiche dei mercati finanziari. Oggi a loro tutto è dovuto, grazie alla legge del più forte: possono svilupparsi in differenti ambiti industriali, essere «disruptive» e spazzare via settori e piccole economie, espandersi in settori regolamentati come quello bancario e sfuggire alla tassazione grazie a sofisticati sistemi di delocalizzazione delle sedi legali in nazioni compiacenti e complici. E questo il vero obiettivo della «market democracy»? In realtà la democrazia indotta dal mercato, così come rappresentata dai suoi vati, dovrebbe agevolare gli scambi e le relazioni ma con il fine ultimo di realizzare benessere diffuso e maggiore eguaglianza. In definitiva maggior progresso. Per questo il teorema del «mercato come soluzione suprema» è stato appoggiato negli ultimi anni in particolar modo da forze politiche social-democratiche. In nome dell'ideologia del progresso e dell'equità sociale gli estensori della socialdemocrazia hanno però completamente perso di vista la realtà. Una realtà in cui la forza dei motori del mercato e delle realtà sovranazionali che lo hanno sostenuto, ha avvantaggiato i più forti e creato sostanziali «oligopoli e monopoli di mercato», di fatto affermando una «market supremacy» anziché una «market democracy». A scanso di equivoci queste affermazioni non vogliono giustificare il ritorno di assolutismi di Stato, bensì fornire una visione equilibrata della dicotomia Stato-Mercato. Lo Stato, e ancor di più le istituzioni civili dei popoli e degli ambiti territoriali, sono infatti i necessari meccanismi riequilibratori in grado di garantire che il mercato possa essere strumentale alla generazione di benessere diffuso. Pensate ad un mercato rionale. Se gli spazi all'interno del mercato del rione venissero assegnati solo in base alla forza dei singoli espositori, molti piccoli espositori, però portatori di valori e qualità produttive, verrebbero relegati ai margini e sparirebbero. Ancor peggio, verrebbero assorbiti da quei produttori che hanno semplicemente occupato maggiore spazio.L'Unione europea, a breve chiamata al voto, è oggi esposta a forti critiche perché molte delle sue istituzioni, teoricamente votate alla costituzione di una «market democracy» con accesso libero al mercato e generatrice di benessere diffuso, sembrano aver maggiormente prestato il fianco ai grandi interessi organizzati e alle multinazionali, quindi alla legge del più forte e del «winner takes it all». Al tempo stesso le istituzioni europee non sembrano essere state in grado di operare un equilibrio tra i macro interessi degli Stati aderenti. L'euro, come moneta unica e strumentale al disegno, virtuoso e ambizioso, di un mercato ampio e libero, sembra aver favorito più alcuni soggetti che altri. Di sicuro realtà come le nordiche Ikea e H&M hanno beneficiato di una moneta unica per espandersi nei mercati del Sud Europa, come l'Italia, facendo leva sulla capacità di vendere prodotti a prezzo basso che sono andati parzialmente a sostituire i prodotti dei piccoli mobilieri brianzoli e delle produzioni «a prezzo accessibile» italiane. Ma qual è stato il beneficio per il sistema produttivo italiano e per l'Europa nel suo complesso? Quale è stata l'azione riequilibratrice del mercato unico e delle istituzioni europee che lo hanno sostenuto? Non stupiamoci quindi della nascita di movimenti antieuro o euroscettici nel nostro Paese. La «market democracy» può essere raggiunta con un intervento attento delle istituzioni civili, capace di comprendere le necessità sociali e riequilibrarne gli effetti.Il mercato è una splendida creazione che nel contesto europeo può realmente favorire il progresso, se opportunamente orientato ad esempio al tessuto delle piccole e medie imprese che spesso sono state precluse da un accesso agevole ai mercati, in particolare quelli internazionali e finanziari. Ancora molto può essere realizzato per creare infrastrutture di mercato cui accedano le imprese di minori dimensioni. Attraverso un impegno congiunto di istituzioni europee come la Bers e la Bei è possibile lavorare su progetti che disegnino architetture di mercato inclusive facendo leva in particolare sulle nuove tecnologie. È così possibile auspicare la creazione di piattaforme di mercato sul modello di Alibaba che agevolino l'incontro tra le piccole eccellenze produttive europee nell'artigianato, nelle produzioni eco-sostenibili dei territori montani, nelle innovazioni del design e della moda, nelle nicchie manifatturiere e la domanda internazionale. Parimenti è da caldeggiare la realizzazione di piattaforme che agevolino la raccolta di capitali finanziari da parte di start up in tutto l'ambito europeo e nell'euro-mediterraneo. La matrice storica e culturale europea pone da sempre l'Ue in posizione intermedia tra le derive più spinte del libero mercato e l'assolutismo di Stato. Ciò dovrebbe agevolare la ricerca di soluzioni dove le istituzioni siano fautrici di progetti collettivi che usino il mercato come fattore propulsivo dello sviluppo economico per l'intera Europa. Solo così è possibile realizzare una «market democracy», realmente foriera di benefici per tutti, non certo una «market supremacy» o peggio una «market dictatorship».*Direttore del master in Corporate Finance, Università Bocconi