
I cittadini non si fidano di tecnocrati che in caso di problemi possono scappare all'estero e abbandonarli al loro destino. I populisti al contrario offrono un'identità e protezione dal lato oscuro del cosmopolitismo.In Europa, l'élite meritocratica è un'élite mercenaria i cui membri non si comportano diversamente dalle star del calcio che sono scambiate tra i club di maggior successo del continente. Si adattano perfettamente alla definizione di David Goodhart: le «persone da Ovunque». I banchieri olandesi di successo si trasferiscono a Londra. I competenti burocrati tedeschi si dirigono a Bruxelles. Le istituzioni e le banche europee, come le squadre di calcio, spendono un'enormità per comprare i «giocatori» migliori. Ma quando queste squadre iniziano a perdere, o l'economia a rallentare, i loro tifosi li abbandonano presto. Ciò si deve principalmente all'assenza di una qualsiasi relazione umana che leghi i giocatori ai loro tifosi, al di là della comune celebrazione della vittoria. Giocatori e tifosi non vengono dallo stesso quartiere, non hanno amici in comune o memorie condivise. Molti tra i primi non sono nemmeno dello stesso Paese della squadra in cui militano. Chiunque può ammirare le star acquistate, ma non ha alcun motivo razionale per provare dispiacere per loro. Agli occhi delle élite meritocratiche, il proprio successo al di fuori del Paese di provenienza è la dimostrazione del proprio talento. Ma agli occhi di molti, proprio questa mobilità è una ragione per non fidarsi delle élite. Le persone sviluppano fiducia nei propri leader non soltanto a causa della loro competenza, del loro coraggio e del loro impegno, ma anche perché percepiscono che, in un momento di crisi, essi si organizzeranno per resistere e presteranno il loro aiuto anziché precipitarsi verso l'uscita d'emergenza più vicina. Paradossalmente sono proprio le «competenze fungibili» delle attuali élite - il fatto che esse siano adatte allo stesso modo per gestire una banca in Bulgaria o in Bangladesh, oppure per insegnare ad Atene o a Tokyo - che rendono le persone così sospettose nei loro confronti. La gente teme che nei momenti difficili questi esponenti della meritocrazia sceglieranno di andarsene anziché condividere il costo legato al fatto di rimanere. In questo senso le élite meritocratiche differiscono fortemente dalle élite aristocratiche proprietarie di terreni, devote alle loro proprietà e che non potevano portarle con sé nel caso volessero fuggire. Differiscono anche dalle élite comuniste, che hanno sempre goduto di beni di consumo, servizi sanitari e educazione migliori ma non hanno mai avuto la possibilità di andare via; era più semplice emigrare per una persona comune. Le élite comuniste, come ha sostenuto lo storico Stephen Kotkin dell'università di Princeton, erano élite «senza via d'uscita», mentre le élite meritocratiche dei tempi della globalizzazione e dell'integrazione europea sono élite «senza lealtà». Le tradizionali élite aristocratiche avevano compiti e responsabilità, ed erano educate a rispettarli. Il fatto che generazioni di antenati, che li fissavano dai ritratti appesi alle pareti nelle sale dei loro castelli, avessero svolto un tempo quegli stessi compiti voleva dire prendere tali impegni sul serio. Nel Regno Unito, per esempio, la percentuale di giovani uomini delle classi superiori morti nella prima guerra mondiale è stata più alta della percentuale di giovani delle classi inferiori. Le nuove élite, invece, sono preparate per governare, ma nessuno ha insegnato loro a sacrificarsi. I loro figli non sono mai morti, né hanno mai combattuto, in una qualsiasi guerra. La natura e la fungibilità delle nuove élite le rendono praticamente indipendenti dalla nazione di provenienza. Non dipendono dal sistema educativo del loro Paese (visto che i figli frequentano le scuole private) o dal sistema sanitario nazionale pubblico (visto che possono permettersi ospedali migliori). Hanno perso la capacità di condividere le passioni delle loro comunità. La gente percepisce questa indipendenza delle élite come una perdita di potere dei cittadini. Le élite meritocratiche sono molto connesse ma le loro reti sono orizzontali. Il più illustre economista di Sofia, in Bulgaria, avrà una notevole familiarità con i suoi colleghi in Svezia, ma non avrà alcuna conoscenza o alcun interesse per i suoi concittadini che non hanno superato i propri esami di natura tecnocratica. Egli dubita fortemente di poter imparare alcunché da loro.Non stupisce, dunque, che al cuore del fascino esercitato dal nuovo populismo europeo ci sia la lealtà - vale a dire la lealtà incondizionata ai gruppi etnici, religiosi o sociali. I populisti promettono alle persone che essi non le giudicheranno solamente sulla base dei loro meriti. Promettono solidarietà, se non addirittura giustizia. Mentre le élite meritocratiche interpretano la società come fosse una scuola composta da studenti con il massimo dei voti che si contendono le borse di studio a fronte di altri che hanno abbandonato gli studi e combattono nelle strade, i populisti sostengono una visione della società come una famiglia i cui membri si aiutano l'un l'altro non soltanto perché ciascuno se lo merita, ma perché tutti condividono qualcosa. Al cuore della sfida populista c'è la battaglia sulla natura e sugli obblighi delle élite. A differenza di un secolo fa, i leader ribelli di oggi non sono interessati alla nazionalizzazione delle industrie. Promettono invece di nazionalizzare le élite. Non promettono di salvare le persone ma di stare al loro fianco. Promettono di ristabilire i vincoli nazionali e ideologici che sono stati rimossi dalla globalizzazione. Elogiano le persone perché non parlano lingue straniere e perché non hanno alcun posto in cui trasferirsi. In breve, quello che i populisti promettono ai loro elettori non è la competenza ma la vicinanza. Promettono di ristabilire il legame tra le élite e il popolo. E un numero crescente di persone, in Europa, ritiene attraente questa promessa. Il filosofo americano John Rawls parlava a nome di molti liberali quando sosteneva che essere un perdente all'interno di una società meritocratica non sarebbe stato così doloroso quanto esserlo in una società apertamente ingiusta. Nella sua concezione, la giustizia delle regole del gioco avrebbe fatto riconciliare le persone con l'eventualità del fallimento. Oggi sembra che il grande filosofo possa essersi sbagliato. La crisi delle élite meritocratiche spiega almeno in parte la crisi della leadership in Europa. La frequente richiesta di leadership ha due significati molto diversi, a seconda di dove sia pronunciata. A Bruxelles e in molte capitali, la domanda di leadership sottintende la resistenza alla pressione populista e il coraggio di attuare le politiche pubbliche più razionali ed efficaci. In questi luoghi dove si riuniscono le élite del continente, tale richiesta di leadership rimanda a un esame da superare grazie alle risposte giuste. Queste élite vedono la crisi politica dell'Unione europea essenzialmente come una crisi di comunicazione, con Bruxelles che avrebbe semplicemente sbagliato a spiegare efficacemente le proprie politiche. Ma nelle parti deindustrializzate e depresse del continente, la domanda di leadership vuol dire qualcosa di molto diverso: è una domanda di sacrificio e lealtà. Le persone si aspettano che i leader dichiarino la propria disponibilità personale a fornire una copertura rispetto al costo della crisi e a esibire pubblicamente i loro obblighi di tipo familiare verso le proprie società. Da questo punto di vista, al fondo di tutto la crisi del progetto europeo non è tanto il risultato di un deficit democratico quanto una richiesta di ripensare la visione meritocratica della società. Sfortunatamente per l'Europa, lo scontro tra élite meritocratiche e populisti ha assunto la forma di uno scontro politico tra un Partito dell'uscita e un Partito della lealtà. Non è un caso che, più spesso di quanto sia mai accaduto negli ultimi 50 anni, i generali vadano di moda non solo in Russia ma anche in Occidente. Basti pensare alla composizione dell'amministrazione Trump per capire che la promessa dei populisti è un governo fatto di generali che sanno come difendere il loro Paese e di top manager provenienti dal mondo degli affari abituati a prendere decisioni spietate.
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