True
2020-11-27
Il governo tiene chiusa la Lombardia. Fontana: «Ignorati i nostri sacrifici»
Roberto Speranza (Ansa)
Cambio di colori per alcune Regioni già nel fine settimana, o nei primissimi giorni di dicembre. Era questa la nuova classificazione quasi annunciata, dopo il miglioramento dei dati in Piemonte e Lombardia che sarebbero dovute passare in fascia arancione, mentre peggiorano in Sicilia, Puglia e Basilicata che si vedono in zona rossa, aspetta la conferma del Cts dopo il consueto monitoraggio, oggi all'esame della Cabina di regia. L'altra ipotesi, confermata, era che fosse necessario il nuovo dpcm per una diversa colorazione dell'Italia: a due sole tinte o monocolore. Dietro al dilemma cromatico si nasconde una preoccupazione più seria, ovvero l'attendibilità di tutti i 21 indicatori, con valori di soglia e di allerta, nel delineare l'andamento del coronavirus. Oltre all'Rt calcolato sulla base della sorveglianza integrata Iss, in particolar modo si vogliono ricontrollare il numero di nuovi casi di infezione confermata e il tasso dei posti letti occupati sia nelle terapie intensive, sia nei reparti di area medica per pazienti Covid.
In Piemonte «il contachilometri del contagio ha rallentato molto», ha dichiarato il governatore Alberto Cirio. Ieri i nuovi positivi sono stati 2.751, di cui 1.148 asintomatici, pari al 42% del totale e ancora alti i decessi: 72. Ad alimentare le speranze di lasciare la zona rossa c'è il calo dei ricoveri: 4.992 persone in reparto (- 103 rispetto al giorno precedente). Invariato il numero dei pazienti in terapia intensiva, 403, mentre aumentano ancora i guariti (+ 2.194). Meno ricoveri anche in Lombardia, calati di 118 unità per un totale di 7.996 pazienti nei reparti Covid e di 8 nelle terapie intensive dove ci sono 934 persone con insufficienze respiratorie, però in un solo giorno sono morte altre 207 persone. Da oggi «potremo chiedere di entrare nella zona arancione, anche perché i dati (di ieri, ndr) addirittura ci accrediterebbero in zona gialla, ma io non voglio precorrere i tempi», aveva dichiarato il presidente lombardo Attilio Fontana. Il governatore aveva aggiunto: «Noi da un punto di vista tecnico sono quindici giorni che saremmo entrati in zona arancione, però il dpcm pretende che una volta che si cambi classe, si debbano confermare i dati per almeno due settimane». L'assessore al Welfare, Giulio Gallera, ha sottolineato che «lo sforzo dei lombardi ha dato risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti». Quanto ai tempi per cambiare colorazione, ha fatto sapere che «ci stiamo confrontando con il governo, non so se partiremo il lunedì o già il sabato». Durante la serata di ieri, il governatore Fontana ha fatto però sapere dell'ennesimo schiaffone governativo alla Regione: «Nonostante la mia opposizione, il governo intende mantenere in vigore fino al 3 dicembre le attuali misure restrittive e, quindi, lasciare la Lombardia in zona rossa. Restare in zona rossa significa non fotografare la realtà dei fatti e non considerare i grandi sacrifici dei lombardi».
Sembra restino rosse anche Calabria e Val d'Aosta, e che scivolino in quella fascia Sicilia, Puglia e Basilicata. «Il colore della Sicilia? Non è un tema che mi appassiona», ha risposto il governatore, Nello Musumeci, lasciando capire che le restrizioni future dipendevano dalla Conferenza Stato -Regioni di ieri e dalla riunione odierna della Cabina di regia. In Basilicata il 25 novembre c'è stato un record di positivi, 380 su 2.585 tamponi effettuati e l'indice di contagio (1,46) è risultato il più alto in Italia. Per questo la Regione teme prossime restrizioni. Le teme anche la Puglia, con 1.436 nuovi casi positivi su 9.612 tamponi registrati e 52 decessi, 31 dei quali nella sola provincia di Foggia. Impennata anche dei ricoveri (+95) per un totale di 1.788. «Raddoppieremo le terapie intensive», ha annunciato il governatore, Michele Emiliano, durante la prima seduta del Consiglio regionale pugliese. «Raddoppieremo i posti letto. Siamo già arrivati a tre volte. Il nostro piano arriva a quattro e speriamo che basti, perché nessuno ci dice qual è il giorno del picco. Questa cosa va detta, e va detta qui. Quando noi proponemmo, all'inizio dell'estate, di fare tre grandi strutture di terapia intensiva, una a Nord, una al Centro e una a Sud della Puglia, il ministero ci disse: “No, rafforzate le strutture degli ospedali che già avete"». Esclusa la possibilità di riaprire ospedali dimessi «perché se tu converti gli ospedali e non hai il personale, è inutile convertirli», ha concluso Emiliano, che ha definito quella in Puglia «un'ondata dodici volte, a oggi, più alta di quella di marzo e aprile per numero di contagiati e per problematiche sanitarie annesse». Situazione non tranquilla in Veneto, che ha registrato quasi 4.000 nuovi casi in 24 ore e altri 72 decessi. La pressione aumenta sugli ospedali, da due giorni in fascia rossa dopo aver superato i 2.500 degenti nei reparti di malattie infettive e pneumologia. Giovedì i pazienti in area non critica erano 2.529, in terapia intensiva se ne contavano 323.
«Il contagio cresce per gli assembramenti. Non voglio gestire la diffusione a suon di ordinanze», ha dichiarato il governatore Luca Zaia nella consueta diretta Facebook. Ieri Lombardia, Veneto, Campania, Piemonte e Lazio sono state le Regioni con più casi giornalieri, secondo il bollettino che ha segnalato in Italia 29.003 nuovi casi e 822 morti, ma meno malati contemporaneamente nei reparti Covid ordinari (-275) e in rianimazione (-2). Aumenta il numero delle persone guarite e dimesse (+24.031) per un totale di 661.180.
Boccia delira: «Gesù? Nasca prima»
Sarà la «curva pandemica» a dire se quest'anno al cenone saremo con suocera e cognati o se, per la prima volta nella storia, dovremo limitarci «gli affetti più stretti» e organizzare una cena più intima. L'attuale dpcm scadrà il prossimo 3 dicembre ma il governo Conte è all'opera sulle nuove misure anche se, come ha anticipato il ministro della salute Roberto Speranza, «continueremo con il principio della proporzionalità delle misure restrittive». In attesa del rituale annuncio in tv del premier, stando alle anticipazioni, sarebbe infatti confermato il divieto di organizzare feste nei luoghi pubblici e privati, si raccomanderà di trascorrere i giorni di festa «con gli affetti più stretti», e prevedere un numero massimo di persone, da 6 a 8, alla stessa tavola, proteggendo comunque gli anziani e chi è più fragile per alcune patologie con l'uso della mascherina e il distanziamento. Un suggerimento, ma chissà se suonerà il campanello Babbo Natale-poliziotto per verificare e multare chi non rispetterà i numeri. Inoltre Speranza & Co. spingono per vietare lo spostamento anche tra quelle Regioni che entreranno nella fascia gialla di rischio perché, secondo il ministro degli affari regionali Francesco Boccia, «Gli ospedali sono ancora in affanno, non si può sostenere una terza ondata a gennaio facendo circolare milioni di persone». Unica eccezione potrebbe essere il ricongiungimento dei parenti di primo grado, genitori e figli, ma anche coniugi e partner conviventi e consentito il ritorno al domicilio anche per anziani soli che vivono in un'altra regione. Comunque il rigorista ministro della Salute l'ha ripetuto più volte: «Bisogna ridurre il più possibile le relazioni con le altre persone quando queste non sono indispensabili e bisogna restare a casa ogni volta che è possibile». Questo impedirebbe anche di raggiungere le seconde case dove gli italiani amano trascorrere le vacanze natalizie.
E per rafforzare il concetto pare sia intenzione del governo obbligare chi andrà all'estero per le vacanze natalizie ad osservare al ritorno una quarantena obbligatoria di due settimane. Ieri sera, a Palazzo Chigi si è parlato anche, ma senza decidere, del prolungamento degli orari di apertura dei negozi in modo da consentire lo scaglionamento limitando il rischio di contagio. Tra le ipotesi quella di chiudere i negozi alle ore 22 e lasciare aperti i centri commerciali nel fine settimana che saranno soltanto 2 utili per fare shopping. Continua ad essere esclusa la riapertura di bar e ristoranti dopo le ore 18 come si era ipotizzato la scorsa settimana, quando il governo aveva promesso ai governatori di poter concedere alcuni allentamenti sui locali pubblici. Una marcia indietro per paura dei contagi che fa escludere anche le aperture a pranzo nelle zone arancioni.
Il coprifuoco, secondo i rumors, scatterebbe alle 23. A Natale e Capodanno si potrà andare oltre le 24. Se questi orari varranno anche per la vigilia, allora sarà risolto il nodo della Messa di Mezzanotte che altrimenti dovrà essere anticipata o accompagnata da deroga. Ma non ci sarebbe problema secondo il ministro piddino Boccia perché «Gesù Bambino può nascere due ore prima». Tutte decisioni che, tanto per cambiare, il governo prenderà probabilmente a ridosso del prossimo dpcm e dunque a ridosso del 3 dicembre, quando sarà più chiara la situazione dei contagi e la tenuta delle strutture sanitarie. E chissà che dopo la messa non sposti pure il Natale.
Continua a leggereRiduci
Nonostante la frenata dell'epidemia, la Regione resta in zona rossa fino al 3 dicembre insieme al Piemonte Puglia, Basilicata e Sicilia potrebbero entrare nella fascia più a rischio. Atteso per oggi il rapporto dell'IssIpotesi restrizioni per il Natale: negozi aperti fino alle 22, tetto di otto persone a tavola e coprifuoco posticipato. E per il ministro la messa di mezzanotte «si può anticipare»Lo speciale contiene tre articoliCambio di colori per alcune Regioni già nel fine settimana, o nei primissimi giorni di dicembre. Era questa la nuova classificazione quasi annunciata, dopo il miglioramento dei dati in Piemonte e Lombardia che sarebbero dovute passare in fascia arancione, mentre peggiorano in Sicilia, Puglia e Basilicata che si vedono in zona rossa, aspetta la conferma del Cts dopo il consueto monitoraggio, oggi all'esame della Cabina di regia. L'altra ipotesi, confermata, era che fosse necessario il nuovo dpcm per una diversa colorazione dell'Italia: a due sole tinte o monocolore. Dietro al dilemma cromatico si nasconde una preoccupazione più seria, ovvero l'attendibilità di tutti i 21 indicatori, con valori di soglia e di allerta, nel delineare l'andamento del coronavirus. Oltre all'Rt calcolato sulla base della sorveglianza integrata Iss, in particolar modo si vogliono ricontrollare il numero di nuovi casi di infezione confermata e il tasso dei posti letti occupati sia nelle terapie intensive, sia nei reparti di area medica per pazienti Covid. In Piemonte «il contachilometri del contagio ha rallentato molto», ha dichiarato il governatore Alberto Cirio. Ieri i nuovi positivi sono stati 2.751, di cui 1.148 asintomatici, pari al 42% del totale e ancora alti i decessi: 72. Ad alimentare le speranze di lasciare la zona rossa c'è il calo dei ricoveri: 4.992 persone in reparto (- 103 rispetto al giorno precedente). Invariato il numero dei pazienti in terapia intensiva, 403, mentre aumentano ancora i guariti (+ 2.194). Meno ricoveri anche in Lombardia, calati di 118 unità per un totale di 7.996 pazienti nei reparti Covid e di 8 nelle terapie intensive dove ci sono 934 persone con insufficienze respiratorie, però in un solo giorno sono morte altre 207 persone. Da oggi «potremo chiedere di entrare nella zona arancione, anche perché i dati (di ieri, ndr) addirittura ci accrediterebbero in zona gialla, ma io non voglio precorrere i tempi», aveva dichiarato il presidente lombardo Attilio Fontana. Il governatore aveva aggiunto: «Noi da un punto di vista tecnico sono quindici giorni che saremmo entrati in zona arancione, però il dpcm pretende che una volta che si cambi classe, si debbano confermare i dati per almeno due settimane». L'assessore al Welfare, Giulio Gallera, ha sottolineato che «lo sforzo dei lombardi ha dato risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti». Quanto ai tempi per cambiare colorazione, ha fatto sapere che «ci stiamo confrontando con il governo, non so se partiremo il lunedì o già il sabato». Durante la serata di ieri, il governatore Fontana ha fatto però sapere dell'ennesimo schiaffone governativo alla Regione: «Nonostante la mia opposizione, il governo intende mantenere in vigore fino al 3 dicembre le attuali misure restrittive e, quindi, lasciare la Lombardia in zona rossa. Restare in zona rossa significa non fotografare la realtà dei fatti e non considerare i grandi sacrifici dei lombardi». Sembra restino rosse anche Calabria e Val d'Aosta, e che scivolino in quella fascia Sicilia, Puglia e Basilicata. «Il colore della Sicilia? Non è un tema che mi appassiona», ha risposto il governatore, Nello Musumeci, lasciando capire che le restrizioni future dipendevano dalla Conferenza Stato -Regioni di ieri e dalla riunione odierna della Cabina di regia. In Basilicata il 25 novembre c'è stato un record di positivi, 380 su 2.585 tamponi effettuati e l'indice di contagio (1,46) è risultato il più alto in Italia. Per questo la Regione teme prossime restrizioni. Le teme anche la Puglia, con 1.436 nuovi casi positivi su 9.612 tamponi registrati e 52 decessi, 31 dei quali nella sola provincia di Foggia. Impennata anche dei ricoveri (+95) per un totale di 1.788. «Raddoppieremo le terapie intensive», ha annunciato il governatore, Michele Emiliano, durante la prima seduta del Consiglio regionale pugliese. «Raddoppieremo i posti letto. Siamo già arrivati a tre volte. Il nostro piano arriva a quattro e speriamo che basti, perché nessuno ci dice qual è il giorno del picco. Questa cosa va detta, e va detta qui. Quando noi proponemmo, all'inizio dell'estate, di fare tre grandi strutture di terapia intensiva, una a Nord, una al Centro e una a Sud della Puglia, il ministero ci disse: “No, rafforzate le strutture degli ospedali che già avete"». Esclusa la possibilità di riaprire ospedali dimessi «perché se tu converti gli ospedali e non hai il personale, è inutile convertirli», ha concluso Emiliano, che ha definito quella in Puglia «un'ondata dodici volte, a oggi, più alta di quella di marzo e aprile per numero di contagiati e per problematiche sanitarie annesse». Situazione non tranquilla in Veneto, che ha registrato quasi 4.000 nuovi casi in 24 ore e altri 72 decessi. La pressione aumenta sugli ospedali, da due giorni in fascia rossa dopo aver superato i 2.500 degenti nei reparti di malattie infettive e pneumologia. Giovedì i pazienti in area non critica erano 2.529, in terapia intensiva se ne contavano 323. «Il contagio cresce per gli assembramenti. Non voglio gestire la diffusione a suon di ordinanze», ha dichiarato il governatore Luca Zaia nella consueta diretta Facebook. Ieri Lombardia, Veneto, Campania, Piemonte e Lazio sono state le Regioni con più casi giornalieri, secondo il bollettino che ha segnalato in Italia 29.003 nuovi casi e 822 morti, ma meno malati contemporaneamente nei reparti Covid ordinari (-275) e in rianimazione (-2). Aumenta il numero delle persone guarite e dimesse (+24.031) per un totale di 661.180. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-governo-tiene-chiusa-la-lombardia-fontana-ignorati-i-nostri-sacrifici-2649054518.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="boccia-delira-gesu-nasca-prima" data-post-id="2649054518" data-published-at="1606422211" data-use-pagination="False"> Boccia delira: «Gesù? Nasca prima» Sarà la «curva pandemica» a dire se quest'anno al cenone saremo con suocera e cognati o se, per la prima volta nella storia, dovremo limitarci «gli affetti più stretti» e organizzare una cena più intima. L'attuale dpcm scadrà il prossimo 3 dicembre ma il governo Conte è all'opera sulle nuove misure anche se, come ha anticipato il ministro della salute Roberto Speranza, «continueremo con il principio della proporzionalità delle misure restrittive». In attesa del rituale annuncio in tv del premier, stando alle anticipazioni, sarebbe infatti confermato il divieto di organizzare feste nei luoghi pubblici e privati, si raccomanderà di trascorrere i giorni di festa «con gli affetti più stretti», e prevedere un numero massimo di persone, da 6 a 8, alla stessa tavola, proteggendo comunque gli anziani e chi è più fragile per alcune patologie con l'uso della mascherina e il distanziamento. Un suggerimento, ma chissà se suonerà il campanello Babbo Natale-poliziotto per verificare e multare chi non rispetterà i numeri. Inoltre Speranza & Co. spingono per vietare lo spostamento anche tra quelle Regioni che entreranno nella fascia gialla di rischio perché, secondo il ministro degli affari regionali Francesco Boccia, «Gli ospedali sono ancora in affanno, non si può sostenere una terza ondata a gennaio facendo circolare milioni di persone». Unica eccezione potrebbe essere il ricongiungimento dei parenti di primo grado, genitori e figli, ma anche coniugi e partner conviventi e consentito il ritorno al domicilio anche per anziani soli che vivono in un'altra regione. Comunque il rigorista ministro della Salute l'ha ripetuto più volte: «Bisogna ridurre il più possibile le relazioni con le altre persone quando queste non sono indispensabili e bisogna restare a casa ogni volta che è possibile». Questo impedirebbe anche di raggiungere le seconde case dove gli italiani amano trascorrere le vacanze natalizie. E per rafforzare il concetto pare sia intenzione del governo obbligare chi andrà all'estero per le vacanze natalizie ad osservare al ritorno una quarantena obbligatoria di due settimane. Ieri sera, a Palazzo Chigi si è parlato anche, ma senza decidere, del prolungamento degli orari di apertura dei negozi in modo da consentire lo scaglionamento limitando il rischio di contagio. Tra le ipotesi quella di chiudere i negozi alle ore 22 e lasciare aperti i centri commerciali nel fine settimana che saranno soltanto 2 utili per fare shopping. Continua ad essere esclusa la riapertura di bar e ristoranti dopo le ore 18 come si era ipotizzato la scorsa settimana, quando il governo aveva promesso ai governatori di poter concedere alcuni allentamenti sui locali pubblici. Una marcia indietro per paura dei contagi che fa escludere anche le aperture a pranzo nelle zone arancioni. Il coprifuoco, secondo i rumors, scatterebbe alle 23. A Natale e Capodanno si potrà andare oltre le 24. Se questi orari varranno anche per la vigilia, allora sarà risolto il nodo della Messa di Mezzanotte che altrimenti dovrà essere anticipata o accompagnata da deroga. Ma non ci sarebbe problema secondo il ministro piddino Boccia perché «Gesù Bambino può nascere due ore prima». Tutte decisioni che, tanto per cambiare, il governo prenderà probabilmente a ridosso del prossimo dpcm e dunque a ridosso del 3 dicembre, quando sarà più chiara la situazione dei contagi e la tenuta delle strutture sanitarie. E chissà che dopo la messa non sposti pure il Natale.
iStock
Veniamo al profeta, Pellegrino Artusi, il Garibaldi della cucina tricolore. Scrivendo il libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), l’uomo di Forlimpopoli trapiantato a Firenze creò un’identità gastronomica comune nel Paese da poco unificato, raccogliendo le ricette tradizionali delle varie Regioni - e subregioni - italiane valorizzando le tipicità e diffondendone la conoscenza. È così che suscitò uno slancio di orgoglio nazionale per le diverse cucine italiane che, nei secoli, si sono caratterizzate ognuna in maniera diversa, attraverso i vari coinvolgimenti storici, la civiltà contadina, la cucina di corte (anche papale), quella borghese, le benefiche infiltrazioni e contaminazioni di popoli e cucine d’oltralpe e d’oltremare, e, perché no, anche attraverso la fame e la povertà.
Orio Vergani, il custode, giornalista e scrittore milanese (1898-1960), è una figura di grande rilievo nella storia della cucina patria. Fu lui insieme ad altri innamorati a intuire negli anni Cinquanta del secolo scorso il rischio che correvano le buone tavole del Bel Paese minacciate dalla omologazione e dall’appiattimento dei gusti, insidiate da una cucina industriale e standardizzata. Fu lui a distinguere i pericoli nel turismo di massa e nell’alta marea della modernizzazione. Il timore e l’allarme sacrosanto di Vergani erano dettati dalla paura di perdere a tavola l’autenticità, la qualità e il legame col territorio della nostra tradizione gastronomica. Per combattere la minaccia, l’invitato speciale fondò nel 1953 l’Accademia italiana della cucina sottolineando già nel nome la diversità dell’arte culinaria nelle varie parti d’Italia.
L’Accademia, istituzione culturale della Repubblica italiana, continua al giorno d’oggi, con le sue delegazioni in sessanta Paesi del mondo e gli 8.000 soci, a portare avanti il buon nome della cucina italiana. Non è un caso se a sostenere il progetto all’Unesco siano stati tre attori, due dei quali legati al «profeta» romagnolo e al «custode» milanese: la Fondazione Casa Artusi di Forlimpopoli e l’Accademia italiana della cucina nata, appunto, dall’intuizione di Orio Vergani. Terzo attore è la rivista La cucina Italiana, fondata nel 1929. Paolo Petroni, presidente dell’Accademia, commenta: «Il riconoscimento dell’Unesco rappresenta una grandissima medaglia al valore, per noi. La festeggeremo il terzo giovedì di marzo in tutte le delegazioni del mondo e nelle sedi diplomatiche con una cena basata sulla convivialità e sulla socialità. Il menu? Libero. Ogni delegazione lo rapporterà al territorio e alla tradizione.
L’Unesco ha riconosciuto la cucina italiana patrimonio immateriale andando oltre alle ricette e al semplice nutrimento, considerandola un sistema culturale, rafforzando il ruolo dell’Italia come ambasciatrice di un modello culturale nel mondo in quanto la nostra cucina è una pratica sociale viva, che trasmette memoria, identità e legame con il territorio, valorizzando la convivialità, i rituali, la condivisione famigliare, come il pranzo della domenica, la stagionalità e i gesti quotidiani, oltre a promuovere inclusione e sostenibilità attraverso ricette antispreco tramandate da generazione in generazione. Il riconoscimento non celebra piatti specifici come è stato fatto con altri Paesi, ma l’intera arte culinaria e culturale che lega comunità, famiglie e territori attraverso il cibo. Riconosce l’intelligenza delle ricette tradizionali nate dalla povertà contadina, che insegnano a non sprecare nulla, un concetto di sostenibilità ancestrale. Incarna il legame tra la natura, le risorse locali e le tradizioni culturali, riflettendo la diversità dei paesaggi italiani».
Peccato che non tutti la pensino così, vedi l’attacco del critico e scrittore britannico di gastronomia Giles Coren sul Times. Dopo aver bene intinto la penna nell’iperbole, nella satira e nell’insulto, Coren è partito all’attacco alla baionetta contro, parole sue, il riconoscimento assegnato dall’Unesco, riconoscimento prevedibile, servile, ottuso e irritante. Dice l’opinionista prendendosela anche con i suoi connazionali snob: «Da quando scrivo di ristoranti, combatto contro la presunta supremazia del cibo italiano. Perché è un mito, un miraggio, una bugia alimentata da inglesi dell’alta borghesia che, all’inizio degli anni Novanta, trasferirono le loro residenze estive in Toscana».
Risponde Petroni: «Credo che l’articolo di Coren sia una burla, lo scherzo di uno che in fondo, e lo ha dimostrato in altri articoli, apprezza la cucina italiana. Per etichettare il tutto come burla, basta leggere la parte in cui elogia la cucina inglese candidandola al riconoscimento Unesco per il valore culturale del “toast bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio”, gli “spaghetti con il ketchup”, il “Barolo britannico”, i “noodles cinesi incollati alla tovaglia” e altre perle di questo genere. C’è da sottolineare, invece, che la risposta dell’Unesco è stata unanime: i 24 membri del comitato intergovernativo per la salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale hanno votato all’unanimità in favore della cucina italiana. Non c’è stato nemmeno un astenuto. La prima richiesta fu bocciata. Nel 2023 l’abbiamo ripresentata. È la parola “immateriale” che ci bloccò. È difficile definire una cucina immateriale senza cadere nel materiale. Per esempio l’Unesco non ha dato il riconoscimento alla pizza in quanto pizza, ma all’arte napoletana della pizza. Il cammino è stato molto difficile ma, alla fine, siamo riusciti a unificare la pratica quotidiana, i gesti, le parole, i rituali di una cucina variegata e il risultato c’è stato. La cucina italiana è la prima premiata dall’Unesco in tutta la sua interezza».
Se Coren ha scherzato, Alberto Grandi, docente all’Università di Parma, autore del libro La cucina italiana non esiste, è andato giù pesante nell’articolo su The Guardian. Basta il titolo per capire quanto: «Il mito della cucina tradizionale italiana ha sedotto il mondo. La verità è ben diversa». «Grandi è arrivato a dire che la pizza l’hanno inventata gli americani e che il vero grana si trova nel Wisconsin. Che la cucina italiana non risalga al tempo dei Romani lo sanno tutti. Prima della scoperta dell’America, la cucina era un’altra cosa. Quella odierna nasce nell’Ottocento da forni e fornelli borghesi. Se si rimane alla civiltà contadina, si rimane alle zuppe o poco più. Le classi povere non avevano carne da mangiare». Petroni conclude levandosi un sassolino dalla scarpa: l’esultanza dei cuochi stellati, i «cappelloni», come li chiama, è comprensibile ma loro non c’entrano: «Sono contento che approvino il riconoscimento, ma sia chiaro che questo va alla cucina italiana famigliare, domestica».
A chi si deve il maggior merito del riconoscimento Unesco? «A Maddalena Fossati, la direttrice de La cucina italiana. È stata lei a rivolgersi all’Accademia e alla Fondazione Casa Artusi. Il documento l’abbiamo preparato con il prezioso aiuto di Massimo Montanari, accademico onorario, docente all’Università di Bologna, e presentato con il sostegno del sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi».
Continua a leggereRiduci
Gianluigi Cimmino (Imagoeconomica)
Yamamay ha sempre scelto testimonial molto riconoscibili. Oggi il volto del brand è Rose Villain. Perché questa scelta?
«Negli ultimi tre anni ci siamo avvicinati a due canali di comunicazione molto forti e credibili per i giovani: la musica e lo sport. Oggi, dopo il crollo del mondo degli influencer tradizionali, è fondamentale scegliere un volto autentico, coerente e riconoscibile. Gran parte dei nostri investimenti recenti è andata proprio in questa direzione. Rose Villain rappresenta la musica, ma anche una bellezza femminile non scontata: ha un sorriso meraviglioso, un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici, donne che si riconoscono nel brand anche per la vestibilità, che riteniamo tra le migliori sul mercato. È una voce importante, un personaggio completo. Inoltre, il mondo musicale oggi vive molto di collaborazioni: lo stesso concetto che abbiamo voluto trasmettere nella campagna, usando il termine «featuring», tipico delle collaborazioni tra artisti. Non a caso, Rose Villain aveva già collaborato con artisti come Geolier, che è stato nostro testimonial l’anno scorso».
I volti famosi fanno vendere di più o il loro valore è soprattutto simbolico e di posizionamento del brand?
«Oggi direi soprattutto posizionamento e coerenza del messaggio. La vendita non dipende più solo dalla pubblicità: per vendere bisogna essere impeccabili sul prodotto, sul prezzo, sull’assortimento. Viviamo un momento di consumi non esaltanti, quindi è necessario lavorare su tutte le leve. Non è che una persona vede lo spot e corre subito in negozio. È un periodo “da elmetto” per il settore retail».
È una situazione comune a molti brand, in questo momento.
«Assolutamente sì. Noi non possiamo lamentarci: anche questo Natale è stato positivo. Però per portare le persone in negozio bisogna investire sempre di più. Il traffico non è più una costante: meno persone nei centri commerciali, meno in strada, meno negli outlet. Per intercettare quel traffico serve investire in offerte, comunicazione, social, utilizzando tutti gli strumenti che permettono soprattutto ai giovani di arrivare in negozio, magari grazie a una promozione mirata».
Guardando al passato, c’è stato un testimonial che ha segnato una svolta per Yamamay?
«Sicuramente Jennifer Lopez: è stato uno dei primi casi in cui una celebrità ha firmato una capsule collection. All’epoca era qualcosa di totalmente nuovo e ci ha dato una visibilità internazionale enorme. Per il mondo maschile, Cristiano Ronaldo ha rappresentato un altro grande salto di qualità. Detto questo, Yamamay è nata fin dall’inizio con una visione molto chiara».
Come è iniziata questa avventura imprenditoriale?
«Con l’incoscienza di un ragazzo di 28 anni che rescinde un importante contratto da manager perché vuole fare l’imprenditore. Ho coinvolto tutta la famiglia in questo sogno: creare un’azienda di intimo, un settore che ho sempre amato. Dico spesso che ero già un grande consumatore, soprattutto perché l’intimo è uno dei regali più fatti. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno».
Oggi Yamamay è un marchio internazionale. Quanti negozi avete nel mondo?
«Circa 600 negozi in totale. Di questi, 430 sono in Italia e circa 170 all’estero».
Il vostro è un settore molto competitivo. Qual è oggi il vostro principale elemento di differenziazione?
«Il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo scelto di non seguire la strada degli aumenti facili nel post Covid, quando il mercato lo permetteva. Abbiamo continuato invece a investire su prodotto, innovazione, collaborazioni e sostenibilità. Posso dire con orgoglio che Yamamay è uno dei marchi di intimo più sostenibili sul mercato. La sostenibilità per noi non è una moda né uno strumento di marketing: è un valore intrinseco. Anche perché abbiamo in casa una delle massime esperte del settore, mia sorella Barbara, e siamo molto attenti a non fare greenwashing».
Quali sono le direttrici di crescita future?
«Sicuramente l’internazionale, più come presenza reale che come notorietà, e il digitale: l’e-commerce è un canale dove possiamo crescere ancora molto. Inoltre stiamo investendo tantissimo nel menswear. È un mercato in forte evoluzione: l’uomo oggi compra da solo, non delega più alla compagna o alla mamma. È un cambiamento culturale profondo e la crescita sarà a doppia cifra nei prossimi anni. La società è cambiata, è più eterogenea, e noi dobbiamo seguirne le evoluzioni. Penso anche al mondo Lgbtq+, che è storicamente un grande consumatore di intimo e a cui guardiamo con grande attenzione».
Capodanno è un momento simbolico anche per l’intimo. Che consiglio d’acquisto dai ai vostri clienti per iniziare bene l’anno?
«Un consiglio semplicissimo: indossate intimo rosso a Capodanno. Mutande, boxer, slip… non importa. È una tradizione che non va persa, anzi va rafforzata. Il rosso porta amore, ricchezza e salute. E le tradizioni belle vanno rispettate».
Continua a leggereRiduci
Thierry Breton (Ansa)
«Condanniamo fermamente la decisione degli Stati Uniti di imporre restrizioni di viaggio a cinque individui europei, tra cui l’ex commissario Thierry Breton. Reagiremo», è stato il commento postato sull’account X della Commissione, «la libertà di parola è il fondamento della nostra forte e vivace democrazia europea. Ne siamo orgogliosi. La proteggeremo. Perché la Commissione europea è la custode dei nostri valori», ha cinguettato con piglio autoreferenziale Ursula von der Leyen, cui ha fatto eco la sua vice Kaja Kallas: «La decisione degli Stati Uniti è un tentativo di sfidare la nostra sovranità. L’Europa continuerà a difendere i suoi valori: libertà di espressione, regole digitali eque e il diritto di regolamentare il nostro spazio». Sembrerebbero parole giuste e coraggiose, se non fosse che il bersaglio della decisione di Rubio è la stessa persona che della libertà di espressione ha fatto strame, ideando la famigerata legge del Dsa (Digital services act), che impone alle grandi piattaforme misure di moderazione arbitrarie che di fatto limitano il free speech.
È Breton che il 12 agosto 2024 ha vergato di suo pugno, su carta intestata dell’esecutivo Ue, una lettera senza precedenti in cui, alla vigilia di un’intervista di Elon Musk a Donald Trump su X, ha minacciato Musk di «censura preventiva». Una pesante interferenza nella campagna elettorale Usa due mesi prima delle presidenziali, coronata dalla gravosa multa di 120 milioni di euro comminata dall’Ue a Musk tre settimane fa per violazioni di obblighi di trasparenza previsti dal Dsa, indicando tra i «problemi rilevati» perfino il design della «spunta blu». E non è tutto: a gennaio scorso, Breton non si è fatto problemi nel dichiarare che l’Unione «ha gli strumenti per bloccare qualsiasi ingerenza straniera, come ha fatto in Romania (dove le elezioni sono state invalidate su pressione europea, ndr) e come dovrà fare, se necessario, anche in Germania».
Che il Dsa uccida non soltanto il Primo emendamento ma anche le aziende americane è un altro dato di fatto: l’Unione europea incassa più dalle multe (a Meta, Google, Apple e X) che dalle tasse pagate dalle aziende tecnologiche europee. Per l’amministrazione Trump, però, la questione è soprattutto di principio: «Per troppo tempo, gli ideologi in Europa hanno guidato iniziative organizzate per costringere le piattaforme Usa a punire i punti di vista americani a cui si oppongono.
L’amministrazione Trump non tollererà più questi vergognosi atti di censura extraterritoriale», ha scritto senza mezzi termini Rubio. Christopher Landau, vice segretario di Stato, ha ricordato la missiva di Breton come «una delle lettere più agghiaccianti che abbia mai letto», mentre l’ambasciatore americano presso l’Ue, Andrew Puzder, ha ricordato che «ironia della sorte, le aziende statunitensi che stanno soffrendo delle politiche oppressive di Bruxelles, delle multe e dell’eccedenza normativa sono proprio le aziende che possono portare l’Ue nell’economia dell’Ia (…) investendo e creando posti di lavoro, ma non a rischio di multe paralizzanti (…) che censurano la libertà di parola e ostacolano la crescita economica».
La revoca del visto impedirà a Breton di partecipare agli eventi pianificati negli Stati Uniti, comprese le conferenze tecnologiche. Chi di censura ferisce, di censura perisce.
Continua a leggereRiduci