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2020-11-21
Il governo si è accorto del pasticcio sugli aiuti alle aziende. Ma ora è tardi
Roberto Gualtieri (Ansa)
Avete presente il Titanic? Con l'orchestrina che ancora suonava nel salone, mentre la terza classe era sott'acqua e la nave già inclinata? È l'immagine del naufragio che sta per accadere sul fronte degli aiuti alle imprese. La magnifica corazzata della «potenza di fuoco» varata tra marzo e maggio sta facendo acqua da tutte le parti. L'orchestrina la dirige il ministro dell'Economia Roberto Gualtieri che l'altro ieri - di fronte alla precisa domanda del senatore Alberto Bagnai, finalizzata a sapere ci fosse pericolo di restituzione degli aiuti statali eccedenti 800.000 euro - con spavalda sicumera dichiarava in audizione al Senato che «tale pericolo non sussiste». Quindi possono stare tranquilli tutti gli imprenditori italiani che in questi giorni si consultano con i loro commercialisti e avvocati per cercare di reperire aiuti muovendosi nella selva di quasi 800 articoli disseminati in 6 decreti dal Cura Italia di marzo al Ristori bis di qualche giorno fa.
Invece noi, forse perché più vicini alla terza classe già sott'acqua, vediamo bene sia lo squarcio nella fiancata e sia l'acqua che entra impetuosa. E lo facciamo basandoci, come al solito, sugli atti. Dopo averne scritto diffusamente per tre giorni nella scorsa settimana, da ultimo, ci rifacciamo alla risposta fornita dal Mef a una interrogazione presentata lunedì 16 dagli onorevoli di Fratelli d'Italia Galeazzo Bignami e Marco Osnato. Con tale domanda si chiedeva se il governo avesse avviato una interlocuzione con la Commissione Ue al fine di evitare la restituzione degli aiuti eventualmente eccedenti il tetto di 800.000 euro previsto dal Temporary framework (Tf) del 19 marzo. Giova segnalare che, in molti casi, gli aiuti sono pure soggetti a tassazione, riducendo ancor più il beneficio netto ed aumentando lo sconcerto delle imprese.
Tale quesito era formulato a proposito di una delle tante norme che concorrono al raggiungimento di tale limite: lo stralcio del saldo e primo acconto Irap di cui all'articolo 24 del decreto Rilancio. La risposta del Mef è, a dir poco, imbarazzante. Dà infatti ormai per perso il negoziato con la Commissione relativamente alla definizione del beneficiario degli aiuti: non la singola persona giuridica, non l'«impresa unica» come definita ai fini del «de minimis», ma l'«unità economica», che è qualcosa che somiglia, ma nemmeno coincide perfettamente, con la definizione di gruppo societario. Insomma, un bel grattacapo per tutte le imprese italiane. Al Mef si sono resi conto della falla - di cui La Verità vi aveva già riferito in anteprima l'11 novembre, citando fonti riservate della Commissione - e nella risposta agli onorevoli, segnalano «che sono attualmente in corso contatti con i competenti servizi della Commissione europea» per ricondurre lo sgravio Irap entro il più alto limite di 3 milioni, consentito da una recente sezione del Tf (3.12). Con ciò segnalando le difficoltà in cui si dibattono e ammettendo candidamente che «tale iniziativa si è resa indispensabile in conseguenza della nozione di impresa unica ritenuta applicabile dalla Commissione europea anche alla disciplina di aiuti adottata mediante il richiamato Temporary framework». Viva la sincerità e «tutto molto bello», avrebbe detto Bruno Pizzul, se non fosse per due enormi macigni posti sulla strada di questo estremo tentativo dei tecnici di via XX Settembre: primo, lo sgravio Irap è stato concesso a tutte le imprese, senza condizioni, mentre la sezione 3.12 del Tf prevede che, per beneficiarne, ci sia stato un calo del fatturato (in un periodo del 2020 o fino al 30/6/2021) pari almeno al 30% rispetto ad un corrispondente periodo del 2019. Secondo, quella misura prevede un contributo commisurato ai costi fissi non coperti che, con lo sgravio Irap non c'entrano nulla.
Richiamando il 3.12 del Tf, il governo segna inoltre un clamoroso autogol. Ammette infatti l'esistenza di aiuti statali con limiti più alti che, nonostante la Commissione li abbia ammessi sin dal 13/10, non hanno trovato alcuno spazio nei due decreti «Ristori» adottati fino a oggi. Quindi lo strumento c'era, si poteva utilizzare e non lo si è fatto. A peggiorare il quadro, per il futuro il governo rimanda la palla nel campo delle Regioni, inserendo la facoltà di sfruttare la sezione 3.12 del Tf, nell'articolo 107 della legge di bilancio per il 2021, dove affiora pure la possibilità di rimborsare i contributi eccedenti entro il 30/6/2021. Segno che il problema esiste, checché ne dica Gualtieri. Il quale non ha avuto dubbi, sempre giovedì in audizione, sull'altro tema posto sempre su queste colonne: conveniva forse chiedere almeno una parte degli aiuti sotto la causale «calamità naturale/cause eccezionali», anziché «grave turbamento dell'economia», dove quest'ultima è soggetta ai limiti anzidetti? Secondo il ministro abbiamo scelto la seconda opzione, perché la prima è soggetta a «un regime più stringente» con gravosi oneri di rendicontazione. Allora Gualtieri ci dovrebbe spiegare perché la Danimarca, il 20 marzo (stesso giorno della pubblicazione in Gazzetta ufficiale del Tf, che straordinario tempismo!) notificava alla Commissione una norma che concedeva aiuti alle imprese, a condizione che avessero perso almeno il 40% del fatturato, a partire dal 25% fino al 100% dei costi fissi (affitti, interessi, altre spese non rinegoziabili, ecc…), con ciò inondando con 5,4 miliardi di euro di aiuti un Paese che ha un'economia pari a un sesto della nostra. La decisione di approvazione di questo aiuto, è stata adottata dalla Commissione l'8 aprile, esattamente 3 mesi prima della decisione a favore dell'Italia per il contributo a fondo perduto che stanziava 6,2 miliardi di aiuti. In essa è spiegato per filo e per segno perché il Covid è una causa eccezionale che giustifica aiuti adeguati. Loro l'hanno fatto, noi abbiamo fatto tardi e poco. Sono i numeri che parlano da soli.
Altri (pochi) soldi al decreto Ristori
Il ministro del Tesoro Roberto Gualtieri metterà nuove risorse, circa 1,3-1,4 miliardi di euro, per finanziare le aziende che perderanno fatturato a seguito del peggioramento della fascia in cui risiedono.
Lo ha detto ieri il numero uno di via XX Settembre a Omibus su La7 precisando che i soldi sarebbero stati stanziati nel Consiglio dei ministri che si è tenuto ieri. «Metteremo altre risorse, circa 1,3-1,4 nel fondo che consente di finanziare i ristori in automatico alle regioni che peggiorano di fascia», ha detto. «Poi», ha proseguito Gualtieri, «per poter usare un'altra parte di risorse dovuta ad un andamento economico un po' migliore delle previsioni, chiederemo al Parlamento l'autorizzazione a uno scostamento che ci darà alcuni miliardi aggiuntivi per rafforzare le misure di sostegno economico e accompagnare l'economia nella fine d'anno».
Viene però da chiedersi, viste le cifre già stanziate, come mai il governo continui a stanziare per il decreto Ristori cifre tanto esigue. Il governo ha da poco fatto sapere che per coprire i fondi necessari fino a fine anni avrebbe stanziato altri sette miliardi.
È chiaro a tutti, dunque, che il miliardo e poco più dichiarato da Gualtieri, che molto probabilmente servirà da base per il decreto Ristori ter, non sarà sufficiente e servirà, ancora una volta, mettere mano al portafoglio.
Al momento, quindi, la prospettiva sembra essere quella di un decreto Ristori ter in arrivo a inizio 2021 e la probabile messa in cantiere di un decreto Ristori quater che andrà finanziato con altro deficit.
«Quando abbiamo fatto gli scostamenti per 100 miliardi saremmo dovuti andare a un deficit al 10,8%. Adesso», continua il ministro, «con tutta la riduzione delle entrate, con gli 1,4 miliardi che metteremo nel decreto di oggi (ieri per chi legge, ndr) che ci porta a 100 miliardi spesi, al netto delle risorse già messe nei decreti ristori uno e due, stiamo sotto il 10,8% di circa 6 miliardi».
Come ha spiegato ieri Gualtieri, «con cento miliardi di spesa il deficit è più basso perché abbiamo avuto più entrate. Le stime ci dicono che ci sarà una riduzione delle entrate, ma questo non fa saltare i conti, anzi abbiamo ancora margine rispetto a quanto ci eravamo dati precedentemente».
Gualtieri ieri ha sottolineato che per le nuove risorse non servirà un nuovo scostamento, anche se nei primi mesi del 2021 sarà comunque necessaria una nuova operazione di bilancio. Su questa Gualtieri spera di non trovare ostacoli da parte dell'opposizione.
Sempre nella giornata di ieri, il Movimento 5 stelle ha presentato un emendamento al decreto Ristori per regolamentare l'intera filiera della canapa, con anche la liberalizzazione della cannabis light, che ha un contenuto di principio attivo (Thc) al di sotto dello 0,5%. L'obiettivo della proposta è anche quello di regolare l'indotto distributivo, garantendo trasparenza delle informazioni e delle indicazioni relative ai prodotti commercializzati.
Resta il fatto che l'esecutivo pare andare avanti sempre con la stessa ricetta, quando si parla di ristori. Annunciare cifre esigue, per poi rifare i conti e scoprire che i fondi che servono sono ben di più di quelli previsti. È successo così per il primo e il secondo decreto Ristori e ora nulla lascia intendere che sarà diverso per i decreti ter e quater.
Proprio in un momento di difficoltà come quello che sta vivendo il Paese, sarebbe invece meglio avere le idee chiare sin da subito. Ma questo potrebbe non piacere agli elettori.
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Malgrado le rassicurazioni di Roberto Gualtieri, il Mef si arrende e ammette che sul «tetto» di 800.000 euro si è fatta confusione, come già spiegato dalla «Verità». Tecnici al lavoro, però la trattativa è in salitaIl ministro annuncia nuove risorse, circa 1,4 miliardi, per le imprese danneggiate dalla «retrocessione» della regione di appartenenza. Neppure queste basterannoLo speciale contiene due articoliAvete presente il Titanic? Con l'orchestrina che ancora suonava nel salone, mentre la terza classe era sott'acqua e la nave già inclinata? È l'immagine del naufragio che sta per accadere sul fronte degli aiuti alle imprese. La magnifica corazzata della «potenza di fuoco» varata tra marzo e maggio sta facendo acqua da tutte le parti. L'orchestrina la dirige il ministro dell'Economia Roberto Gualtieri che l'altro ieri - di fronte alla precisa domanda del senatore Alberto Bagnai, finalizzata a sapere ci fosse pericolo di restituzione degli aiuti statali eccedenti 800.000 euro - con spavalda sicumera dichiarava in audizione al Senato che «tale pericolo non sussiste». Quindi possono stare tranquilli tutti gli imprenditori italiani che in questi giorni si consultano con i loro commercialisti e avvocati per cercare di reperire aiuti muovendosi nella selva di quasi 800 articoli disseminati in 6 decreti dal Cura Italia di marzo al Ristori bis di qualche giorno fa.Invece noi, forse perché più vicini alla terza classe già sott'acqua, vediamo bene sia lo squarcio nella fiancata e sia l'acqua che entra impetuosa. E lo facciamo basandoci, come al solito, sugli atti. Dopo averne scritto diffusamente per tre giorni nella scorsa settimana, da ultimo, ci rifacciamo alla risposta fornita dal Mef a una interrogazione presentata lunedì 16 dagli onorevoli di Fratelli d'Italia Galeazzo Bignami e Marco Osnato. Con tale domanda si chiedeva se il governo avesse avviato una interlocuzione con la Commissione Ue al fine di evitare la restituzione degli aiuti eventualmente eccedenti il tetto di 800.000 euro previsto dal Temporary framework (Tf) del 19 marzo. Giova segnalare che, in molti casi, gli aiuti sono pure soggetti a tassazione, riducendo ancor più il beneficio netto ed aumentando lo sconcerto delle imprese.Tale quesito era formulato a proposito di una delle tante norme che concorrono al raggiungimento di tale limite: lo stralcio del saldo e primo acconto Irap di cui all'articolo 24 del decreto Rilancio. La risposta del Mef è, a dir poco, imbarazzante. Dà infatti ormai per perso il negoziato con la Commissione relativamente alla definizione del beneficiario degli aiuti: non la singola persona giuridica, non l'«impresa unica» come definita ai fini del «de minimis», ma l'«unità economica», che è qualcosa che somiglia, ma nemmeno coincide perfettamente, con la definizione di gruppo societario. Insomma, un bel grattacapo per tutte le imprese italiane. Al Mef si sono resi conto della falla - di cui La Verità vi aveva già riferito in anteprima l'11 novembre, citando fonti riservate della Commissione - e nella risposta agli onorevoli, segnalano «che sono attualmente in corso contatti con i competenti servizi della Commissione europea» per ricondurre lo sgravio Irap entro il più alto limite di 3 milioni, consentito da una recente sezione del Tf (3.12). Con ciò segnalando le difficoltà in cui si dibattono e ammettendo candidamente che «tale iniziativa si è resa indispensabile in conseguenza della nozione di impresa unica ritenuta applicabile dalla Commissione europea anche alla disciplina di aiuti adottata mediante il richiamato Temporary framework». Viva la sincerità e «tutto molto bello», avrebbe detto Bruno Pizzul, se non fosse per due enormi macigni posti sulla strada di questo estremo tentativo dei tecnici di via XX Settembre: primo, lo sgravio Irap è stato concesso a tutte le imprese, senza condizioni, mentre la sezione 3.12 del Tf prevede che, per beneficiarne, ci sia stato un calo del fatturato (in un periodo del 2020 o fino al 30/6/2021) pari almeno al 30% rispetto ad un corrispondente periodo del 2019. Secondo, quella misura prevede un contributo commisurato ai costi fissi non coperti che, con lo sgravio Irap non c'entrano nulla.Richiamando il 3.12 del Tf, il governo segna inoltre un clamoroso autogol. Ammette infatti l'esistenza di aiuti statali con limiti più alti che, nonostante la Commissione li abbia ammessi sin dal 13/10, non hanno trovato alcuno spazio nei due decreti «Ristori» adottati fino a oggi. Quindi lo strumento c'era, si poteva utilizzare e non lo si è fatto. A peggiorare il quadro, per il futuro il governo rimanda la palla nel campo delle Regioni, inserendo la facoltà di sfruttare la sezione 3.12 del Tf, nell'articolo 107 della legge di bilancio per il 2021, dove affiora pure la possibilità di rimborsare i contributi eccedenti entro il 30/6/2021. Segno che il problema esiste, checché ne dica Gualtieri. Il quale non ha avuto dubbi, sempre giovedì in audizione, sull'altro tema posto sempre su queste colonne: conveniva forse chiedere almeno una parte degli aiuti sotto la causale «calamità naturale/cause eccezionali», anziché «grave turbamento dell'economia», dove quest'ultima è soggetta ai limiti anzidetti? Secondo il ministro abbiamo scelto la seconda opzione, perché la prima è soggetta a «un regime più stringente» con gravosi oneri di rendicontazione. Allora Gualtieri ci dovrebbe spiegare perché la Danimarca, il 20 marzo (stesso giorno della pubblicazione in Gazzetta ufficiale del Tf, che straordinario tempismo!) notificava alla Commissione una norma che concedeva aiuti alle imprese, a condizione che avessero perso almeno il 40% del fatturato, a partire dal 25% fino al 100% dei costi fissi (affitti, interessi, altre spese non rinegoziabili, ecc…), con ciò inondando con 5,4 miliardi di euro di aiuti un Paese che ha un'economia pari a un sesto della nostra. La decisione di approvazione di questo aiuto, è stata adottata dalla Commissione l'8 aprile, esattamente 3 mesi prima della decisione a favore dell'Italia per il contributo a fondo perduto che stanziava 6,2 miliardi di aiuti. In essa è spiegato per filo e per segno perché il Covid è una causa eccezionale che giustifica aiuti adeguati. Loro l'hanno fatto, noi abbiamo fatto tardi e poco. Sono i numeri che parlano da soli.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-governo-si-e-accorto-del-pasticcio-sugli-aiuti-alle-aziende-ma-ora-e-tardi-2648998716.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="altri-pochi-soldi-al-decreto-ristori" data-post-id="2648998716" data-published-at="1605909619" data-use-pagination="False"> Altri (pochi) soldi al decreto Ristori Il ministro del Tesoro Roberto Gualtieri metterà nuove risorse, circa 1,3-1,4 miliardi di euro, per finanziare le aziende che perderanno fatturato a seguito del peggioramento della fascia in cui risiedono. Lo ha detto ieri il numero uno di via XX Settembre a Omibus su La7 precisando che i soldi sarebbero stati stanziati nel Consiglio dei ministri che si è tenuto ieri. «Metteremo altre risorse, circa 1,3-1,4 nel fondo che consente di finanziare i ristori in automatico alle regioni che peggiorano di fascia», ha detto. «Poi», ha proseguito Gualtieri, «per poter usare un'altra parte di risorse dovuta ad un andamento economico un po' migliore delle previsioni, chiederemo al Parlamento l'autorizzazione a uno scostamento che ci darà alcuni miliardi aggiuntivi per rafforzare le misure di sostegno economico e accompagnare l'economia nella fine d'anno». Viene però da chiedersi, viste le cifre già stanziate, come mai il governo continui a stanziare per il decreto Ristori cifre tanto esigue. Il governo ha da poco fatto sapere che per coprire i fondi necessari fino a fine anni avrebbe stanziato altri sette miliardi. È chiaro a tutti, dunque, che il miliardo e poco più dichiarato da Gualtieri, che molto probabilmente servirà da base per il decreto Ristori ter, non sarà sufficiente e servirà, ancora una volta, mettere mano al portafoglio. Al momento, quindi, la prospettiva sembra essere quella di un decreto Ristori ter in arrivo a inizio 2021 e la probabile messa in cantiere di un decreto Ristori quater che andrà finanziato con altro deficit. «Quando abbiamo fatto gli scostamenti per 100 miliardi saremmo dovuti andare a un deficit al 10,8%. Adesso», continua il ministro, «con tutta la riduzione delle entrate, con gli 1,4 miliardi che metteremo nel decreto di oggi (ieri per chi legge, ndr) che ci porta a 100 miliardi spesi, al netto delle risorse già messe nei decreti ristori uno e due, stiamo sotto il 10,8% di circa 6 miliardi». Come ha spiegato ieri Gualtieri, «con cento miliardi di spesa il deficit è più basso perché abbiamo avuto più entrate. Le stime ci dicono che ci sarà una riduzione delle entrate, ma questo non fa saltare i conti, anzi abbiamo ancora margine rispetto a quanto ci eravamo dati precedentemente». Gualtieri ieri ha sottolineato che per le nuove risorse non servirà un nuovo scostamento, anche se nei primi mesi del 2021 sarà comunque necessaria una nuova operazione di bilancio. Su questa Gualtieri spera di non trovare ostacoli da parte dell'opposizione. Sempre nella giornata di ieri, il Movimento 5 stelle ha presentato un emendamento al decreto Ristori per regolamentare l'intera filiera della canapa, con anche la liberalizzazione della cannabis light, che ha un contenuto di principio attivo (Thc) al di sotto dello 0,5%. L'obiettivo della proposta è anche quello di regolare l'indotto distributivo, garantendo trasparenza delle informazioni e delle indicazioni relative ai prodotti commercializzati. Resta il fatto che l'esecutivo pare andare avanti sempre con la stessa ricetta, quando si parla di ristori. Annunciare cifre esigue, per poi rifare i conti e scoprire che i fondi che servono sono ben di più di quelli previsti. È successo così per il primo e il secondo decreto Ristori e ora nulla lascia intendere che sarà diverso per i decreti ter e quater. Proprio in un momento di difficoltà come quello che sta vivendo il Paese, sarebbe invece meglio avere le idee chiare sin da subito. Ma questo potrebbe non piacere agli elettori.
Vediamo i dettagli: per quel che riguarda i rimpatri, la modifica del regolamento sul concetto di «Paese terzo sicuro» consentirà agli Stati europei di respingere una richiesta di asilo senza entrare nel merito della singola pratica, ma dichiarando la domanda stessa come «irricevibile» già al momento della presentazione se il richiedente avrebbe potuto ottenere asilo in un altro Paese considerato sicuro. Gli Stati potranno applicare il concetto di Paese terzo sicuro sulla base di tre elementi: l’esistenza di un legame tra il richiedente asilo e il Paese terzo; se il richiedente ha transitato attraverso il Paese terzo prima di raggiungere l’Ue; se esiste un accordo con un Paese terzo sicuro che garantisce che la domanda di asilo sarà esaminata. Il Consiglio ha finalmente messo nero su bianco la lista dei Paesi di origine da considerare sicuri: oltre a quelli candidati a far parte dell’Unione, troviamo anche Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Kosovo, Marocco e Tunisia. Ricorderete tutti che alcuni magistrati italiani hanno bloccato il rimpatrio di immigrati provenienti da Egitto e Bangladesh, perché considerati non sicuri: ora la nuova lista dovrebbe mettere fine a ogni dubbio. «Abbiamo un afflusso molto elevato di migranti irregolari», ha spiegato il ministro per l’Immigrazione della Danimarca, Rasmus Stoklund, il cui Paese detiene la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue, «e i paesi europei sono sotto pressione. Migliaia di persone annegano nel Mar Mediterraneo o subiscono abusi lungo le rotte migratorie, mentre i trafficanti di esseri umani guadagnano fortune. Ciò dimostra che l’attuale sistema crea strutture di incentivi malsane e un forte fattore di attrazione, difficili da eliminare. La Danimarca e la maggior parte degli Stati membri dell’Ue si sono battuti per l’esame delle domande di asilo in paesi terzi sicuri, al fine di eliminare gli incentivi a intraprendere viaggi pericolosi verso l’Ue».
In sostanza, gli Stati europei potranno realizzare centri per l’esame delle domande di asilo nei Paesi di partenza o di transito dei migranti, bloccando chi non ha i requisiti ancora prima che inizi il viaggio. «Sugli hub per i rimpatri», ha sottolineato Magnus Brunner, commissario Ue per gli Affari interni e la Migrazione, «si tratta di negoziati tra gli Stati membri e poi con i Paesi terzi. Sarebbe positivo, naturalmente, se più parti unissero le forze. Penso ai Paesi Bassi, che stanno discutendo con l’Uganda. La Germania ha già aderito ai colloqui. Così come l’Italia e l’Albania».
A margine dell’intesa, tuttavia, arriva anche la notizia meno piacevole di un accordo con Italia e Grecia che permetterà a Berlino di riconsegnare tutti i migranti che sono arrivati nei due Paesi, sono stati lì registrati e poi hanno scelto di trasferirsi in Germania. Lo ha riferito ieri il quotidiano tedesco Bild spiegando che le norme dovrebbero essere operative a partire da giugno 2026.
«Ottimo lavoro! Le misure di solidarietà stanno dando il via all’attuazione del Patto su migrazione e asilo. E tutte adottate in tempi record. Il Patto, insieme alle proposte sul rimpatrio e sui Paesi sicuri, rivede la nostra politica migratoria. È molto di più: solidarietà. Sicurezza. Responsabilità. Ed efficienza», ha scritto e su X la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Sempre Brunner ha inoltre commentato: «Direi che oggi, con queste riforme, stiamo mettendo in ordine la casa europea e queste riforme che abbiamo concordato oggi sono la base per avere una politica migratoria in atto nell’interesse degli europei. Questo è importante, garantire che abbiamo il controllo su chi può entrare nell’Ue, chi può rimanere e chi deve lasciare di nuovo l’Unione Europea».
Inevitabilmente soddisfatto il ministro dell’Interno italiano, Matteo Piantedosi: «La svolta che il governo italiano ha chiesto in materia di migrazione c’è stata, finalmente abbiamo ottenuto una lista europea di Paesi di origine sicuri, riformato completamente il concetto di Paese terzo sicuro e ci avviamo a realizzare un sistema europeo per i rimpatri realmente efficace. In un momento decisivo per le politiche europee, ha prevalso l’approccio italiano. Gli Stati membri potranno finalmente applicare le procedure accelerate di frontiera (così come previsto dal protocollo Italia-Albania) e a questo si aggiunge l’importante novità che i ricorsi giudiziari non avranno più effetto sospensivo automatico della decisione di rimpatrio. Inoltre», aggiunge, «la definizione di una lista europea dei Paesi terzi sicuri, dove compaiono oltre ai Paesi candidati alla adesione anche Paesi quali Egitto, Tunisia e Bangladesh è in linea con i provvedimenti già adottati dall’Italia». «Accogliamo con grande soddisfazione», commenta Carlo Fidanza, capodelegazione di Fdi-Ecr al Parlamento europeo, «l’accordo. È un risultato che conferma quanto l’Italia guidata abbia fornito una linea chiara e coerente all’Europa sull’immigrazione».
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Il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa (Ansa)
«Il discorso di Vance a Monaco e i numerosi tweet del presidente Trump sono diventati ufficialmente dottrina statunitense. E come tali, dobbiamo riconoscerlo e agire di conseguenza», riflette il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, nel suo intervento all’Institute Jacques Delors. «Cosa significa? Abbiamo bisogno di qualcosa di più di una semplice energia rinnovata. Dobbiamo lavorare insieme per costruire un’Europa che comprenda che i rapporti tra gli Alleati e le alleanze del secondo dopoguerra sono cambiati. Sappiamo già che Europa e Stati Uniti non condividono la stessa visione dell’ordine internazionale».
Costa, in buona sostanza, accusa Washington di non avere rispetto: «Gli alleati non minacciano l’interferenza nella vita politica. Nella vita politica interna di questi alleati, ci si rispetta, si rispetta la sovranità gli uni degli altri. Sicuramente molti europei non condividono la stessa visione degli americani su diversi temi ed è naturale che loro non condividano la nostra; quello che non possiamo accettare è questa la minaccia di interferenza nella vita politica dell’Europa». Quindi chiosa: «Gli Stati Uniti non possono sostituirsi ai cittadini europei per scegliere quali siano i partiti buoni e quelli cattivi. Gli Stati Uniti non possono sostituirsi all’Europa sulla visione che abbiamo della libertà di espressione, e su questo bisogna essere chiari», ha aggiunto. «La nostra storia ci ha insegnato che non esiste libertà di espressione senza libertà di informazione. E la libertà di informazione esiste solo quanto più c’è rispetto per il pluralismo. E così non esiste mai libertà di informazione se c’è il monopolio di una sola piattaforma. E non ci sarà libertà di espressione se la libertà di informazione dei cittadini viene sacrificata per difendere gli interessi degli oligarchi tecnologici degli Stati Uniti». Il riferimento è diretto a Elon Musk, che nelle ore precedenti aveva paragonato l’Unione europea al Terzo Reich su X.
Insomma, Costa non l’ha presa bene, ma non è il solo. Anche buona parte dei dem italiani sono sulla stessa lunghezza d’onda. Filippo Sensi , senatore del Pd, ha persino invocato una manifestazione su modello di quella che fu di Michele Serra. «Sarebbe ora, stavolta in Campidoglio per raggiungere il Colosseo illuminato dalla bandiera dell’Unione. Per dire dove siamo, chi siamo, per cosa vale la pena di combattere. Chi ci sta?». Anche la segretaria del Pd Elly Schlein coglie l’occasione. Più per attaccare il governo che per sventolare europeismo. «Questa convergenza nell’attacco all’Ue dimostra quanto sia reale il rischio che denunciamo da mesi. O l’Europa fa un salto in avanti di integrazione politica oppure rischia di essere schiacciata e messa al margine dalle grandi potenze che la circondano e che trovano un obiettivo comune nell’indebolirla. L’Europa sarà federale o non sarà» chiarisce convinta. Poi l’affondo al governo: «Non può far finta di nulla ammiccando in modo subalterno agli attacchi di Trump. La strategia di Putin e anche di Trump è evidente: dividerci, per renderci più vulnerabili singolarmente. E purtroppo trovano sponda in alcuni governi nazionalisti europei. Il governo Meloni non si presti a questo gioco e non si faccia utilizzare per andare contro anche agli stessi interessi dei cittadini italiani».
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Giulio Sapelli (Ansa)
Un cambiamento che resisterà anche una volta che Trump non ci sarà più?
«La classe dirigente americana è molto cambiata. Le trasformazioni sono iniziate negli anni Ottanta con la crescente influenza delle università francesi (con il pensiero decostruttivista di Derrida e Foucault) sull’élite universitaria nordamericana. Questo ha provocato una reazione culturale che ha colpito sia il fronte democratico che quello repubblicano. Tradizionalmente, si pensava che la scuola del multilateralismo fosse di matrice democratica. I “leostraussiani della costa atlantica”, seguaci di Leo Strauss, un importante pensatore critico di Machiavelli, sostenevano l’impetuosità e la necessità dell’intervento americano all’estero. Per motivi umanitari e per portare la libertà».
Era anche l’essenza della dottrina dei neocon…
«Esattamente. Il culmine l’abbiamo avuto con la scenetta di Powell».
La fialetta con le armi chimiche…
«Il tutto a giustificare l’intervento per motivi umanitari in Iraq nel 2003. Il “trumpismo” rappresenta la reazione di una parte dell’establishment americano a questo pensiero dominante. Nasce da un altro filone di pensiero che parte sempre da Leo Strauss, ma che impone agli Stati Uniti la ripresa di temi tradizionalisti originali, inclusa la dottrina Monroe, e dell’intervento per salvaguardare l’interesse americano».
Sempre all’interventismo americano si arriva.
«Come spiegato da Alfred Hirschman in International trade and national power, la politica commerciale è spesso un mezzo per espandere il potere. L’establishment è cambiato radicalmente perché si è creata una cultura di destra completamente nuova, diversa dalla destra classica. Non qualificabile affatto, come fa qualcuno senza basi, nella cultura fascista o nazionalista. È una destra di reazione alla cultura woke. Molti intellettuali americani rifiutano la negazione delle radici giudaico-cristiane dell’Occidente. E si oppongono all’immigrazione gestita dal mercato, vale a dire dai trafficanti di uomini. Nella storia, sempre, le immigrazioni sono state controllate dagli Stati».
C’è una nascita del cattolicesimo negli Stati Uniti secondo lei?
«Di sicuro vedo come il fenomeno woke sia figlio di un intreccio fra neoateismo, transumanesimo e antisemitismo. Questo connubio mi fa veramente paura, e le posizioni trumpiane non sono la cura per questa situazione. Il rischio è che la cura sia peggiore del male».
Venendo al documento National security strategy?
«Segna un ritorno all’importanza degli Stati nazionali. Un ritorno al trattato di Vestfalia, dove ogni Stato è libero di avere la sua religione. Tuttavia, Trump esprime queste idee in forma caricaturale, con cadute di stile come quando si schiera esplicitamente a favore dei partiti di destra. Una cosa che di solito si fa ma non si scrive. Almeno in un documento come quello. Ma è innegabile che vi siano implicazioni rilevanti sul futuro dell’Unione europea. Intanto non è riuscita a darsi una Costituzione. E non può esistere uno Stato contemporaneo senza una costituzione. Invece si è affidata a una “burocrazia celeste”. Personificata alla perfezione da una figura come Ursula von der Leyen, figlia del primo direttore generale dell’Ue».
Ma in Europa i partiti euroscettici non vogliono una Costituzione.
«Nessuna di queste forze politiche pone l’accento sulla necessità di avere una Costituzione europea. Come anche i mandarini. Ecco perché intravedo uno scenario molto negativo. Accanto al ritorno degli Stati nazionali vedo anche il fallimento storico della borghesia europea. Il dirigismo europeo in campo ambientale ha finito per privarla di ampi margini in termini di capacità di azione e proprietà privata. L’esempio dello stop al motore termico è emblematico. I borghesi proprietari delle industrie automobilistiche sono stati espropriati della facoltà di decidere come utilizzare la loro proprietà da un insieme di trattati e decisioni prese da un Parlamento eletto su base nazionale, il quale però si limita ad approvare regolamenti e direttive di una Commissione non eletta. Questo ha distrutto l’industria europea, rendendola sempre più dipendente dalla Cina e strutturalmente dipendente dal fallimento del modello tedesco, che si fondava sull’accordo bipartisan Merkel e Schröder con la Russia».
In questo momento l’Unione europea non ha una strategia di pacificazione del quadrante Ucraina, perché di fatto sembra quasi che stia per intestarsi una sconfitta, quella di Kiev, non supportando il tentativo.
«È paradossale come tutto sia capovolto. Ci si aspetterebbe che a invocare l’uso delle armi e il riarmo fossero le forze di destra tradizionale, invece sono le forze cosiddette democratiche filo Ue che rifiutano il piano americano. E che pensano si possa addirittura creare un esercito comune. Molti esponenti di quelle forze, in un dibattito pubblico al Senato anni fa, mi hanno vilipeso e bollato come “guerrafondaio” semplicemente perché a suo tempo mi ero opposto all’abolizione della leva. Che ora prima o poi ritornerà».
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Xi Jinping (Ansa)
I dati delle Dogane cinesi, pubblicati l’8 dicembre, spiegano tutto. A novembre l’export della Cina è balzato del 5,9%, l’import è salito dell’1,9%, e il surplus mensile ha raggiunto 111,68 miliardi di dollari. Nei primi undici mesi dell’anno il surplus ha superato i mille miliardi, con un aumento del 22,1% rispetto al 2024. Numeri che indicano una Cina ancora in grado di muoversi con agilità nelle rotte globali. Con gli Stati Uniti, però, la situazione è opposta. Le esportazioni verso il mercato americano sono crollate del 28,6% a 33,8 miliardi, lontane dai 47,3 miliardi dell’anno precedente. I dazi restano al 47,5% medio sui prodotti cinesi. Una barriera altissima. Inevitabile che le aziende cinesi devino le vendite verso altri mercati.
Ed è qui che scatta l’irritazione di Trump. L’Europa assorbe ciò che l’America respinge. Lo scorso mese il flusso verso l’Ue infatti è cresciuto del 14,8%, secondo quanto riporta la Reuters. Un trend già evidente nel 2024, quando le esportazioni cinesi verso l’Europa avevano superato i 516 miliardi di dollari. L’Europa diventa così la valvola di compensazione della Cina. Quella che permette a Pechino di mantenere attivo il motore dell’export anche mentre gli Stati Uniti montano barriere.
Per Trump questa dinamica non è un incidente collaterale. È un problema strategico. Lui vede la scena in termini di competizione commerciale globale. Se gli Stati Uniti chiudono il loro mercato a un concorrente, lo fanno per ridurre la capacità di quel concorrente di crescere. Ma se un altro grande mercato, come l’Europa, raccoglie tutto ciò che l’America respinge, l’effetto dei dazi si diluisce. Washington alza un muro. Bruxelles costruisce un ponte. Risultato: il traffico scorre, solo spostandosi di qualche centinaio di chilometri.
È qui che si accende il Trump imprenditore. Nella sua visione, l’Europa si comporta come un «free rider commerciale»: beneficia del confronto tra Stati Uniti e Cina senza pagarne il costo politico. Acquista prodotti più economici, vede scendere i prezzi al consumo, non alza barriere, non si espone. In pratica, mantiene la Cina in piedi mentre gli Stati Uniti cercano di metterla alle corde. Da questa lettura derivano parte dei suoi attacchi sempre più duri verso Bruxelles. Non è un giudizio culturale sul Vecchio Continente. È una reazione da uomo di affari che vede i propri strumenti perdere potenza. E che percepisce l’Europa come un competitor passivo-aggressivo: non attacca, ma sottrae efficacia. Non sceglie il blocco americano, ma ne usa i risultati per garantirsi prezzi migliori. Il ragionamento di Trump si muove lungo due assi. Primo: la Cina va fermata. Secondo: nessun grande mercato deve aiutare Pechino a compensare il colpo. L’Europa lo sta facendo, anche se non dichiaratamente. Per questo, agli occhi di Trump, diventa un bersaglio. Non principale. Ma necessario. La pressione verso Bruxelles è un modo per riprendere il controllo del campo di gioco. Per chiudere anche la seconda uscita di sicurezza cinese. Per impedire che l’export deviato continui a trovare strade aperte.
Intanto la Cina procede. Il Politburo punta su più domanda interna, politiche fiscali attive e una monetaria accomodante. Ma la vera forza resta l’export. Le merci scorrono, cambiano rotta, si adattano. La guerra dei dazi non ha fermato la Cina. Ha ridisegnato le mappe. E nella nuova mappa l’Europa è il porto dove attraccano sempre più container cinesi. Trump, nel suo linguaggio pragmatico, vede esattamente questo. E reagisce. Perché per lui la partita non è ideologica. È una questione di affari. E in questa partita, la Cina resta l’avversario più importante.
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