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2020-10-15
Il governo incassa un altro scostamento. Ma tiene 23 miliardi chiusi in un cassetto
Roberto Gualtieri (Ansa)
Il Parlamento, dunque, continua ad autorizzare scostamenti di bilancio, con votazioni in cui occorre la maggioranza assoluta; e l'opposizione, a partire dalla Lega, ha ancora una volta evitato di concedere alibi al governo, attestandosi sull'astensione. Ieri pomeriggio poco dopo le 17, infatti, a Palazzo Madama è passata al primo colpo, con i numeri richiesti, la risoluzione dei capigruppo della maggioranza che dava l'ok allo sforamento (per i feticisti dei numeri d'Aula, era la risoluzione numero 100).
Va detto che, al di là della dialettica tra maggioranza e minoranza parlamentare, è anche normale che, vista la pesantissima incertezza che grava sul Recovery fund (sulla sua entità, sui suoi tempi, si potrebbe dire sulla sua stessa esistenza, vista la durezza e l'imprevedibilità del negoziato europeo in corso), l'Italia debba attrezzarsi per fare da sé, nella terra di nessuno - economicamente parlando - dei prossimi mesi. La relativa facilità con cui, da marzo in poi, sono stati autorizzati gli scostamenti si spiega esattamente così.
Il problema - però - è comprendere che cosa accada dopo queste autorizzazioni parlamentari. Il Parlamento dà semaforo verde al governo, ma poi è proprio l'esecutivo a impantanarsi clamorosamente, come ormai dimostrano dati diversi, provenienti da fonti differenti, ma tutti convergenti nel descrivere la paralisi operativa e di spesa.
Qualche giorno fa, è stato il centro studi di Confindustria a lanciare l'allarme nel suo Rapporto di previsione autunno 2020. Ecco cosa si legge alle pagine 31 e 32 di quel documento: «L'effettivo utilizzo delle risorse messe in campo con i Dl adottati dal governo in risposta all'emergenza può essere stimato pari a 76,8 miliardi di euro, circa 23 miliardi in meno di quanto indicato nei documenti di accompagnamento ai decreti». Dapprima il documento evoca come spiegazione un atteggiamento prudente del governo, ma poi avanza anche un altro fattore esplicativo: «Non è da escludere, però, che anche la farraginosità dei provvedimenti adottati e le difficoltà di implementazione possano incidere sull'effettiva erogazione delle risorse. Complessivamente, infatti, gli interventi decisi dal governo prevedono l'adozione di 208 decreti attuativi (137 nel decreto Rilancio, 37 nel decreto Agosto e 34 nel Cura Italia). Di questi, a oggi, ne sono stati adottati soltanto 64». Come si vede, secondo gli industriali, circa un quarto delle risorse risultano non spese, e meno di un terzo dei decreti necessari risultano effettivamente adottati.
Non differiscono molto dalle stime di Confindustria quelle di Openpolis, che allarga l'analisi anche ad altri provvedimenti governativi, oltre a quelli citati. Per il Cura Italia servivano 34 decreti attuativi e ne sono stati adottati solo 24; per il decreto Rilancio ne servivano 137 e ne sono stati adottati 52; per il decreto Semplificazioni ne mancherebbero 38; per il decreto agosto ancora 36.
Considerando anche altri decreti bisognosi di attuazione, il computo complessivo di Openpolis (valorizzato ieri dal Messaggero) parla di ben 200 provvedimenti ancora da varare, circa due su tre di quelli teoricamente necessari. La situazione si aggrava se si considera che in qualche caso ci sono termini temporali da rispettare, e in qualche caso no, il che rende tutto ancora più vago e indistinto.
Tutto ciò apre riflessioni su due piani. Per un verso, c'è una questione di tecnica legislativa: sapendo che si rischia il pantano burocratico, sarebbe bene adottare provvedimenti sostanzialmente autoapplicativi, con un forte grado di automaticità. Per altro verso, c'è la già sottolineata questione delle risorse disponibili ma bloccate: il rischio, molto concretamente, è che si dia l'annuncio mediatico di un intervento, si crei una legittima attesa nei cittadini, e che tutto sia invece inghiottito dalle sabbie mobili di un'attuazione lenta o addirittura inesistente.
Il che determina un corollario perfino surreale. Ovunque, si parla di spese che sarebbero necessarie: ad esempio, per un irrobustimento del trasporto pubblico locale, tema su cui le Regioni chiedono fondi, anche comprensibilmente, a maggior ragione in questa fase in cui si dovrebbero evitare vetture troppo affollate; oppure per esigenze sanitarie, con il ritornello ormai stucchevole dei favorevoli al Mes. Dov'è il paradosso? Sta nel fatto che le risorse ci sono, assolutamente autorizzate dal Parlamento, ma - per una ragione o per l'altra - sono ancora chiuse in qualche cassetto. Al punto che la prima cosa da fare sarebbe un controllo capillare dei decreti mancanti: per adottare quelli che sono ancora effettivamente indispensabili, e invece per eventualmente dirottare su esigenze nel frattempo sopravvenute (o accresciute) le risorse che sarebbero destinate a decreti attuativi ormai divenuti meno necessari o addirittura superflui, alla luce del tempo trascorso e della situazione mutata.
Esecutivo salvo per quattro voti. Il centrodestra resta compatto
La maggioranza supera la prova delle votazioni in Parlamento sullo scostamento di bilancio e sulla Nadef, la Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza. I giallorossi si erano avvicinati a queste votazioni con molta preoccupazione, soprattutto al Senato: l'approvazione dello scostamento di bilancio prevede infatti la necessità di raggiungere la maggioranza assoluta, fissata a Palazzo Madama a quota 161, mentre sulla Nadef è sufficiente la maggioranza dei presenti. Alla fine, al Senato la risoluzione di maggioranza sullo scostamento di bilancio è passata con 165 sì, tre no e 121 astenuti, mentre la Nadef è stata approvata con 164 sì, 120 no e tre astenuti.
Sullo scostamento di bilancio l'opposizione di centrodestra si è astenuta (tranne i senatori Antonio Iannone di Fratelli d'Italia, Carlo Martelli e Gianluigi Paragone, ex M5s iscritti al gruppo misto che hanno votato contro. Sulla Nadef, invece, il centrodestra ha votato contro.
La maggioranza al Senato ha dunque superato la soglia dei 161 voti necessari per approvare lo scostamento di bilancio, collegato alla Nadef, per soli quattro voti, tra i quali quelli dei senatori a vita Mario Monti ed Elena Cattaneo. Sulla carta, a Palazzo Madama i giallorossi possono contare su 171 voti (95 M5s, 35 Pd, 18 Iv, 16 Misto e Maie, sette Autonomie. Ieri erano assenti quattro grillini (Cristiano Anastasi, per il Covid; Virginia La Mura, Tiziana Drago e Marinella Pacifico, queste ultime due in dissenso con il gruppo) e due senatori del Maie assenti per Covid, Adriano Cario e Ricardo Merlo. Sono stati 14 i voti favorevoli arrivati dal Misto, compresi Raffaele Fantetti e Sandra Lonardo, che hanno lasciato di recente Forza Italia. Nessuna crepa dunque nel centrodestra: a dispetto di quanto profetizzavano alcuni addetti ai lavori, Forza Italia non ha offerto alcun «aiutino» alla maggioranza, ma ha votato in perfetta sintonia con Lega e Fratelli d'Italia.
La risoluzione di maggioranza approvata ieri chiede al governo, tra l'altro, più risorse per il sistema sanitario, «proseguendo sulla strada intrapresa, promuovendo una rinnovata rete sanitaria territoriale»; «investimenti per la messa in sicurezza, riqualificazione o costruzione di scuole, asili nido, scuole dell'infanzia»; «misure di sostegno in favore del settore del turismo, dello spettacolo, delle attività commerciali e dei pubblici esercizi che risultino più colpiti dalla pandemia con perdite ingenti, significativi cali di fatturato e la sparizione di molte figure professionali».
«Ancora una volta il governo conferma di essere incapace di intendere e volere. Non è certo con gli strumenti contenuti nella nota di aggiornamento al Def che si possono contrastare gli effetti sulla pandemia e rilanciare l'economia del Paese», attaccano attraverso una nota i senatori della Lega Gian Marco Centinaio, già ministro dell'Agricoltura, Giorgio Maria Bergesio, capogruppo in commissione agricoltura a Palazzo Madama, Gianpaolo Vallardi, presidente della medesima commissione, Rosellina Sbrana, membro della commissione, e William De Vecchis.
«Al Senato», ha commentato il premier Giuseppe Conte, «c'è stato un ampio riscontro della tenuta della maggioranza: abbiamo superato il quorum minimo richiesto. Al Senato c'era una situazione più delicata perché abbiamo numeri più ristretti e qualche parlamentare non arruolato per la pandemia in corso e le precauzioni che vanno adottate». Qualche ora dopo, anche la Camera dei deputati ha approvato, con 324 voti favorevoli, 203 astenuti e nessun contrario, la risoluzione di maggioranza sullo scostamento di bilancio. La risoluzione di maggioranza sulla Nadef è invece passata con 325 sì, 199 contrari e sei astenuti.
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Confindustria: «Dei 100 stanziati negli scorsi mesi, un quarto non utilizzato. Colpa anche di provvedimenti farraginosi».La maggioranza assoluta in Senato raggiunta per un pelo. Approvata pure la Nadef.Lo speciale contiene due articoli.Il Parlamento, dunque, continua ad autorizzare scostamenti di bilancio, con votazioni in cui occorre la maggioranza assoluta; e l'opposizione, a partire dalla Lega, ha ancora una volta evitato di concedere alibi al governo, attestandosi sull'astensione. Ieri pomeriggio poco dopo le 17, infatti, a Palazzo Madama è passata al primo colpo, con i numeri richiesti, la risoluzione dei capigruppo della maggioranza che dava l'ok allo sforamento (per i feticisti dei numeri d'Aula, era la risoluzione numero 100).Va detto che, al di là della dialettica tra maggioranza e minoranza parlamentare, è anche normale che, vista la pesantissima incertezza che grava sul Recovery fund (sulla sua entità, sui suoi tempi, si potrebbe dire sulla sua stessa esistenza, vista la durezza e l'imprevedibilità del negoziato europeo in corso), l'Italia debba attrezzarsi per fare da sé, nella terra di nessuno - economicamente parlando - dei prossimi mesi. La relativa facilità con cui, da marzo in poi, sono stati autorizzati gli scostamenti si spiega esattamente così.Il problema - però - è comprendere che cosa accada dopo queste autorizzazioni parlamentari. Il Parlamento dà semaforo verde al governo, ma poi è proprio l'esecutivo a impantanarsi clamorosamente, come ormai dimostrano dati diversi, provenienti da fonti differenti, ma tutti convergenti nel descrivere la paralisi operativa e di spesa. Qualche giorno fa, è stato il centro studi di Confindustria a lanciare l'allarme nel suo Rapporto di previsione autunno 2020. Ecco cosa si legge alle pagine 31 e 32 di quel documento: «L'effettivo utilizzo delle risorse messe in campo con i Dl adottati dal governo in risposta all'emergenza può essere stimato pari a 76,8 miliardi di euro, circa 23 miliardi in meno di quanto indicato nei documenti di accompagnamento ai decreti». Dapprima il documento evoca come spiegazione un atteggiamento prudente del governo, ma poi avanza anche un altro fattore esplicativo: «Non è da escludere, però, che anche la farraginosità dei provvedimenti adottati e le difficoltà di implementazione possano incidere sull'effettiva erogazione delle risorse. Complessivamente, infatti, gli interventi decisi dal governo prevedono l'adozione di 208 decreti attuativi (137 nel decreto Rilancio, 37 nel decreto Agosto e 34 nel Cura Italia). Di questi, a oggi, ne sono stati adottati soltanto 64». Come si vede, secondo gli industriali, circa un quarto delle risorse risultano non spese, e meno di un terzo dei decreti necessari risultano effettivamente adottati. Non differiscono molto dalle stime di Confindustria quelle di Openpolis, che allarga l'analisi anche ad altri provvedimenti governativi, oltre a quelli citati. Per il Cura Italia servivano 34 decreti attuativi e ne sono stati adottati solo 24; per il decreto Rilancio ne servivano 137 e ne sono stati adottati 52; per il decreto Semplificazioni ne mancherebbero 38; per il decreto agosto ancora 36.Considerando anche altri decreti bisognosi di attuazione, il computo complessivo di Openpolis (valorizzato ieri dal Messaggero) parla di ben 200 provvedimenti ancora da varare, circa due su tre di quelli teoricamente necessari. La situazione si aggrava se si considera che in qualche caso ci sono termini temporali da rispettare, e in qualche caso no, il che rende tutto ancora più vago e indistinto. Tutto ciò apre riflessioni su due piani. Per un verso, c'è una questione di tecnica legislativa: sapendo che si rischia il pantano burocratico, sarebbe bene adottare provvedimenti sostanzialmente autoapplicativi, con un forte grado di automaticità. Per altro verso, c'è la già sottolineata questione delle risorse disponibili ma bloccate: il rischio, molto concretamente, è che si dia l'annuncio mediatico di un intervento, si crei una legittima attesa nei cittadini, e che tutto sia invece inghiottito dalle sabbie mobili di un'attuazione lenta o addirittura inesistente. Il che determina un corollario perfino surreale. Ovunque, si parla di spese che sarebbero necessarie: ad esempio, per un irrobustimento del trasporto pubblico locale, tema su cui le Regioni chiedono fondi, anche comprensibilmente, a maggior ragione in questa fase in cui si dovrebbero evitare vetture troppo affollate; oppure per esigenze sanitarie, con il ritornello ormai stucchevole dei favorevoli al Mes. Dov'è il paradosso? Sta nel fatto che le risorse ci sono, assolutamente autorizzate dal Parlamento, ma - per una ragione o per l'altra - sono ancora chiuse in qualche cassetto. Al punto che la prima cosa da fare sarebbe un controllo capillare dei decreti mancanti: per adottare quelli che sono ancora effettivamente indispensabili, e invece per eventualmente dirottare su esigenze nel frattempo sopravvenute (o accresciute) le risorse che sarebbero destinate a decreti attuativi ormai divenuti meno necessari o addirittura superflui, alla luce del tempo trascorso e della situazione mutata. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-governo-incassa-un-altro-scostamento-ma-tiene-23-miliardi-chiusi-in-un-cassetto-2648214526.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="esecutivo-salvo-per-quattro-voti-il-centrodestra-resta-compatto" data-post-id="2648214526" data-published-at="1602746897" data-use-pagination="False"> Esecutivo salvo per quattro voti. Il centrodestra resta compatto La maggioranza supera la prova delle votazioni in Parlamento sullo scostamento di bilancio e sulla Nadef, la Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza. I giallorossi si erano avvicinati a queste votazioni con molta preoccupazione, soprattutto al Senato: l'approvazione dello scostamento di bilancio prevede infatti la necessità di raggiungere la maggioranza assoluta, fissata a Palazzo Madama a quota 161, mentre sulla Nadef è sufficiente la maggioranza dei presenti. Alla fine, al Senato la risoluzione di maggioranza sullo scostamento di bilancio è passata con 165 sì, tre no e 121 astenuti, mentre la Nadef è stata approvata con 164 sì, 120 no e tre astenuti. Sullo scostamento di bilancio l'opposizione di centrodestra si è astenuta (tranne i senatori Antonio Iannone di Fratelli d'Italia, Carlo Martelli e Gianluigi Paragone, ex M5s iscritti al gruppo misto che hanno votato contro. Sulla Nadef, invece, il centrodestra ha votato contro. La maggioranza al Senato ha dunque superato la soglia dei 161 voti necessari per approvare lo scostamento di bilancio, collegato alla Nadef, per soli quattro voti, tra i quali quelli dei senatori a vita Mario Monti ed Elena Cattaneo. Sulla carta, a Palazzo Madama i giallorossi possono contare su 171 voti (95 M5s, 35 Pd, 18 Iv, 16 Misto e Maie, sette Autonomie. Ieri erano assenti quattro grillini (Cristiano Anastasi, per il Covid; Virginia La Mura, Tiziana Drago e Marinella Pacifico, queste ultime due in dissenso con il gruppo) e due senatori del Maie assenti per Covid, Adriano Cario e Ricardo Merlo. Sono stati 14 i voti favorevoli arrivati dal Misto, compresi Raffaele Fantetti e Sandra Lonardo, che hanno lasciato di recente Forza Italia. Nessuna crepa dunque nel centrodestra: a dispetto di quanto profetizzavano alcuni addetti ai lavori, Forza Italia non ha offerto alcun «aiutino» alla maggioranza, ma ha votato in perfetta sintonia con Lega e Fratelli d'Italia. La risoluzione di maggioranza approvata ieri chiede al governo, tra l'altro, più risorse per il sistema sanitario, «proseguendo sulla strada intrapresa, promuovendo una rinnovata rete sanitaria territoriale»; «investimenti per la messa in sicurezza, riqualificazione o costruzione di scuole, asili nido, scuole dell'infanzia»; «misure di sostegno in favore del settore del turismo, dello spettacolo, delle attività commerciali e dei pubblici esercizi che risultino più colpiti dalla pandemia con perdite ingenti, significativi cali di fatturato e la sparizione di molte figure professionali». «Ancora una volta il governo conferma di essere incapace di intendere e volere. Non è certo con gli strumenti contenuti nella nota di aggiornamento al Def che si possono contrastare gli effetti sulla pandemia e rilanciare l'economia del Paese», attaccano attraverso una nota i senatori della Lega Gian Marco Centinaio, già ministro dell'Agricoltura, Giorgio Maria Bergesio, capogruppo in commissione agricoltura a Palazzo Madama, Gianpaolo Vallardi, presidente della medesima commissione, Rosellina Sbrana, membro della commissione, e William De Vecchis. «Al Senato», ha commentato il premier Giuseppe Conte, «c'è stato un ampio riscontro della tenuta della maggioranza: abbiamo superato il quorum minimo richiesto. Al Senato c'era una situazione più delicata perché abbiamo numeri più ristretti e qualche parlamentare non arruolato per la pandemia in corso e le precauzioni che vanno adottate». Qualche ora dopo, anche la Camera dei deputati ha approvato, con 324 voti favorevoli, 203 astenuti e nessun contrario, la risoluzione di maggioranza sullo scostamento di bilancio. La risoluzione di maggioranza sulla Nadef è invece passata con 325 sì, 199 contrari e sei astenuti.
Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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