2020-07-16
Il governo evita di decidere sul Mes e rischia grosso sugli aiuti europei
Charles Michel (Thierry Monasse/Getty Images)
Le acque nella coalizione sono troppo agitate, l'esecutivo preferisce non forzare la mano sul Salvastati. Si confida nel tour di Giuseppe Conte per il Recovery fund, ma per il premier si preparano belle parole e nient'altro.Salta il rinnovo delle 28 presidenze che era legato all'intesa in Parlamento sul Fondo. La maggioranza preferisce compattarsi in vista del voto sullo scostamento di bilancio.Lo speciale contiene due articoli.«Il Mes non è all'ordine del giorno», conclude così Conte la sua giornata in Aula. Doveva essere il D day per il fondo Salvastati. È invece saltato lo scambio tra le nomine e il sì da parte di Forza Italia. Da un lato ieri i vertici di Agcom e Privacy sono stati sostituiti con viva soddisfazione di Silvio Berlusconi, dall'altro, invece, la maggioranza è finita nel caos e non è riuscita a trovare la quadra per sostituire i presidenti e i membri delle 14 commissioni. Così il governo non se l'è sentita di forzare la mano sul Mes. Conte non ha avuto la certezza che il sostegno degli azzurri colmasse i buchi lasciati dai «no» dei grillini. È rimasta in piedi solo la risoluzione depositata da Emma Bonino, che come era ovvio, è stata votata solo da + Europa e dai parlamentari di Italia viva. Il governo ha dato parere negativo e si è limitato a raccogliere il via libera, alla Camera, alla risoluzione di maggioranza sulle comunicazioni in vista del Consiglio europeo. Nel testo compare l'invito al governo ad attivare il Next generation già quest'anno mentre non vi è alcun riferimento esplicito al Mes. Lo stesso Pd che fino a poche settimane fa era uscito allo scoperto nella persona del segretario Nicola Zingaretti, con un sostanziale aut aut, si è trovato a fare marcia indietro. «Con il Mes ci saranno a disposizione 36 miliardi di prestiti a tasso agevolato senza condizionalità e senza Troika. Ci sarà unico vincolo, quello degli investimenti diretti e indiretti per la sanità», ha detto confermando in Aula la contraddizione in termini della non condizionalità Piero De Luca, a nome del Pd. «Non è questo l'oggetto del prossimo vertice e non bisogna decidere ora sull'uso di queste misure ma proprio per questo chiediamo alle forze politiche di sgombrare il campo da dibattiti ideologici e di decidere, dopo l'intesa sul bilancio, in modo pragmatico sulla necessità reale di attivare gli strumenti previsti. Per questo l'auspicio è di raccogliere la sfida ambiziosa lanciata dal Pd e da Zingaretti: non perdiamo l'occasione di creare il sistema più efficiente di Europa», ha concluso lasciando il segno dell'arrampicata sugli specchi. Il fatto è che il tour che da oggi sosterrà il premier in Europa per cercare di concretizzare gli aiuti nell'ambito del Recovery fund non porterà a nulla. Al di là delle dichiarazioni francesi, la posizione della Germania non è cambiata e soprattutto manca all'orizzonte l'accordo sulla fiscalità comune. Di conseguenza la parte del Recovery fund legata ai prestiti sarà più facile da gestire e in ogni caso non prima dell'avvio del 2021. Mentre la parte del fondo legata alle elargizioni dirette e quindi da ripagare con le tasse comuni e trasversali ai vari Paesi membri (carbon tax e Web tax) resta un miraggio. Non ci sono tavoli né decisioni concrete. Il che lascia intendere che anche il prossimo viaggio di Conte andrà a vuoto nonostante l'insistente storytelling. «Il governo è impegnato a mettere a punto un articolato programma di riforme di medio-lungo periodo, con un orizzonte di legislatura e l'ambizione di rendere l'Italia più resiliente» ha detto sempre ieri in Aula Conte. «Se l'Ue», ha aggiunto, «sta cercando di rendere questa crisi una opportunità questo è tanto più vero per l'Italia. Questa crisi ha portato in evidenza criticità che bloccano il sistema economico italiano e che la politica non è riuscita ad affrontare». L'attuale «acuta sofferenza economica e sociale può e deve» essere affrontata con uno «sforzo corale di tutte le sue componenti per un percorso di rilancio di ampio respiro». Una retorica che si scontra con l'inchiesta diffusa ieri dal quotidiano inglese The Guardian. Si tratta di una ricostruzione delle negligenze operative e gestionali imputate tra gennaio e febbraio alle istituzioni europee, incapaci di riconoscere la gravità della situazione italiana, di coordinare una risposta adeguata e di fornire la necessaria assistenza. Risposta inadeguata secondo il giornale britannico fin da quando, a metà gennaio, lo European centre for disease control and prevention organizzò la prima conference call sul Covid-19 riuscendo a radunare meno della metà degli Stati membri. Con sottovalutazioni in serie, iniziative improvvide (fra cui lo sperpero di mascherine di produzione europea), attenzione privilegiata della Commissione ad altre priorità come la Brexit. «Il 26 febbraio, con il numero di infetti che triplicava ogni 48 ore, il premier italiano Giuseppe Conte ha chiesto aiuto agli altri Stati membri», scrive The Guardian. «Un messaggio urgente è stato trasmesso da Roma al quartier generale della Commissione europea a Bruxelles», prosegue. «Ma quello che è successo dopo è stato uno choc: la chiamata di soccorso è stata accolta con silenzio», si legge ancora nell'articolo. In pratica, nessuno Stato membro avrebbe risposto alla richiesta di Roma, ha dichiarato il commissario Janez Lenarcic. «Il che significava che non solo l'Italia non era preparata, nessuno lo era». Una magra consolazione che al contrario serve a spiegare anche quanto succederà nei prossimi mesi in sede di trattative sul Recovery fund. Il vecchio Continente non è preparato a gestire eventi negativi, non ha mai previsto exit strategy valutarie né sa come affrontare eventi geopolitici. Bruxelles è gestita dalla burocrazia esattamente come l'Urss degli ultimi tempi. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-governo-evita-di-decidere-sul-mes-e-rischia-grosso-sugli-aiuti-europei-2646414695.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="effetto-domino-niente-commissioni" data-post-id="2646414695" data-published-at="1594838952" data-use-pagination="False"> Effetto domino: niente commissioni Contrordine, compagni! La fame (di poltrone) era tanta, il banchetto era enorme, ma le liti tra i commensali e il timore che la rissa degenerasse in modo devastante per la sorte stessa di governo e maggioranza ha fatto rinviare a data da destinarsi la prossima spartizione, in teoria programmata per ieri sera. Così, tra Camera e Senato, non si è proceduto al rinnovo delle 28 poltronissime delle presidenze di Commissione (14 alla Camera e 14 al Senato), con corredo di un altro centinaio abbondante di premi di consolazione (56 vicepresidenti e 56 segretari, tra Montecitorio e Palazzo Madama). A determinare il rinvio sono stati soprattutto due fattori. Per un verso, il fatto che il quadripartito giallorosso (Pd, M5s, Italia viva, Leu) non sia riuscito a comporre esigenze e aspettative reciproche. Troppo diviso e con troppe pretese interne il Pd, non di rado con liti tra correnti diverse per la medesima presidenza di Commissione; troppo spaventato il M5s (che di fatto chiedeva in blocco la conferma di tutte le sue presidenze uscenti, per evitare la definitiva esplosione della polveriera grillina); troppo pretenziosa - essendo un partitino del 2% - Italia viva, con i renziani che hanno presentato richieste giudicate da tutti esose e inaccettabili; e infine troppo debole Leu per imporre alcunché. Ma per altro verso, ha giocato anche un altro fattore, che ci eravamo permessi di anticipare più volte nei giorni scorsi. Il coltello del rinnovo delle Commissioni ha una lama ma non ha un manico: ci si taglia a forza di maneggiarlo. Nel senso che, facendo contento un premiato, si determinano almeno cinque scontenti che ambivano a quella stessa posizione. Il che, specie al Senato, in una condizione di debolezza già acclarata della maggioranza, è un rischio troppo grande per la sfibrata coalizione giallorossa. Anche perché, se ieri è stata in qualche modo aggirata - ancora una volta - la questione del Mes, non potrà essere aggirato, a breve, un altro voto delicatissimo, quello per un nuovo scostamento di bilancio, dove - com'è noto - serve addirittura la maggioranza assoluta. In occasione degli scostamenti precedenti, in piena emergenza Covid, un'opposizione fin troppo generosa e attenta più del governo all'interesse nazionale disse sì, dando via libera, pur vedendo di fatto respinte - una dopo l'altra - tutte le sue richieste e priorità (a partire da quella di un indispensabile alleggerimento fiscale). Ma stavolta il clima è cambiato: nessuno a Palazzo Chigi può pensare che l'opposizione sia in vena di regali. Morale: la prima necessità è quella di serrare le fila dei quattro partiti della coalizione. A quel punto, cinicamente, il rinvio e le promesse disseminate qua e là (girando per i corridoi di Camera e Senato, si incontra un numero di «presidenti in pectore» doppio o triplo rispetto al numero delle poltrone da assegnare) serviranno ancora per un po' di tempo a tenere tutti i parlamentari giallorossi sulla corda, nella speranza di un premio. Ma l'esperienza insegna che quando una maggioranza è ridotta a questo punto, un incidente è sempre dietro l'angolo. Intanto, possono legittimamente togliersi una soddisfazione Claudio Borghi e Alberto Bagnai, gli esponenti leghisti che stanno guidando rispettivamente la Commissione Bilancio della Camera e la Commissione Finanze del Senato. Sono proprio i loro incarichi quelli oggetto della rissa più sanguinosa nella maggioranza. Per la Bilancio della Camera, è guerra tra il Pd Fabio Melilli e il renziano Luigi Marattin, mentre per la Finanze del Senato si affrontano il Pd Luciano D'Alfonso e il renziano Mauro Marino.