2019-09-05
Il governo del «cucù, Salvini non c’è più»
Come si può avere fiducia nell'esecutivo del «finalmente», con unico collante l'uscita del leader leghista? Il tripudio da 25 luglio 1943 ha travolto ogni razionalità. Ma un'accozzaglia di risentimenti solo per non andare al voto è il più grande regalo che gli si possa fare.Senza parole. Sono così gongolanti che non sanno nemmeno più cosa dire. Esultano, insultano, festeggiano, inebriati dal «finalmente». Finalmente non c'è più Matteo Salvini al ministero dell'Interno. Tanto basta per dichiarare il 4 settembre giornata del Sollievo nazionale, quasi fosse un nuovo 25 luglio. E tutto il resto non importa. Non importa se questo governo non sta in piedi, non importa se Dario Franceschini torna ai Beni culturali, non importa se Paola De Micheli (quella dei pomodori falliti) va alle Infrastrutture come se queste ultime non fossero già abbastanza provate da Danilo Toninelli. Non importa se il programma del governo è vago come una promessa di marinaio, se il Nord viene dimenticato anche nella distribuzione dei ministeri, se uno non vale più uno e, a pensarci, anche due più due fa cinque, perché anche le poltrone bisogna aumentarle un po'. Non importa non c'è accordo su nulla, se le persone costrette a stare insieme si schifano, se hanno cominciato a litigare ancora prima di sapere quel che devono fare. Non importa. Perché non c'è più Salvini. Punto. La gioia è così grande che travolge ogni tipo di razionalità. Ogni capacità di ragionare. Oscura ogni intelletto, anche di quelli che in passato hanno dimostrato di averne. Figurarsi gli altri. Figurarsi Oliviero Toscani (fotografo) o Ivano Marescotti (attore). L'altra sera in tv li ho visti passare uno dopo l'altro, storditi dall'eccitazione. Quasi non riuscivano a proferire parola, tanto erano ebbri. Al massimo qualche insulto. L'unica cosa che ripetevano felici come bimbi era il ritornello: Salvini non c'è più. Ma sì: cucù, Salvini non c'è più. L'ho sentita davvero questa. Alla radio. C'era un conduttore che si esaltava, roba che persino all'asilo Mariuccia l'avrebbero denunciato per eccesso di infantilismo. Ma chi li tiene più? Hanno sconfitto il Nemico. Hanno abbattuto il Mostro. Non capiscono più nulla, anche i pochi che prima capivano qualcosa (esclusi quelli appena citati, perciò). «Salvini è un pugile suonato», gongola Gad Lerner su Twitter. «Salvini non ci sta più con la testa», esagera Peppino Caldarola su Lettera43. #salviniasfaltato domina i trend dei social, dove è un florilegio ormai infinito di meme, foto, vomiti, balletti, rigurgiti, frizzi, lazzi, filmati di clamorosi autogol, rievocazioni di tafazzi, mojito e papeete come se piovesse. Un tripudio di eccitazione esagerata, per l'appunto, da 25 luglio, con tanto di elenchi di presunti collaborazionisti da esporre penzoloni nelle metaforiche piazze Loreto (e di tanto in tanto, in quegli elenchi, compare anche questo giornale). È caduto il salvinismo, e non abbiamo nemmeno dovuto fare un po' di fatica perché accadesse, si dicono l'un l'altro, esagitati, rimbalzandosi like e post. Come quello in cui uno dei protagonisti dei talk show della sera, l'ex sindacalista Cgil e poi deputato Pdl, Giuliano Cazzola, uno che dunque di trasformismi se ne intende assai, festeggia il nuovo accordo con una frase elegante: «Salvini è l'unico ministro che è mandato a fare in culo da solo». Meme con il vomito. Meme con il balletto. Applausi. Marco Travaglio sul Fatto quotidiano ha provato a nobilitare questo sentimento esaltato, da vittoria mundial, che pervade un pezzo (minoritario ma rumoroso) del Paese, citando Indro Montanelli e il suo pezzo sulla Voce nel giorno della caduta del primo governo Berlusconi: «Non sappiamo cosa ci aspetta domani, magari una confusione ancora più grossa… Per il momento ci si consenta di assaporare, delibare, esalare, urlare a pieni polmoni questo sospirato liberatorio “finalmente"». Sospirato e liberatorio. Anche Travaglio, per la verità, ha molti dubbi e interrogativi, a cominciare da quello che mette nel titolo del suo editoriale («Finalmente?»). Ma il punto, dal 1994 a oggi, da Lamberto Dini al Conte bis, resta sempre quello: come si può avere fiducia in un governo del «finalmente»? Quell'avverbio riassume, dandogli un po' di dignità, lo sbracamento collettivo, gli eccessi dell'eccitazione antisalviniana, il delirio dei gruppuscoli di festeggiatori compulsivi e obnubilati. Però, nello stesso tempo, dimostra tutta la fragilità di questo governo. Perché sono giorni che sentiamo parlare di ragioni economiche, urgenze finanziarie, necessità di svolta, tavoli programmatici, intese di contenuti. Ma in realtà tutti sanno benissimo che l'unica ragione che tiene insieme questo governo è il «finalmente». E i ventinove punti del Conte bis in realtà potrebbero essere riscritti tutti con la stessa intestazione: «Salvini a casa». Seguono risate. Meme. E righe bianche. Non c'è altro. Sotto l'eccitazione, niente. Lo sanno tutti, lo sanno anche quelli che festeggiano che infatti appena smettono di festeggiare non sanno che cosa dire, boccheggiano, smozzicano parole, s'arrampicano sugli specchi delle formule buone per ogni stagione. E alla fine non si rendono nemmeno conto della terribile contraddizione che stanno incarnando. Perché qui alla Verità, come sapete, la pensiamo in un modo un po' diverso. Ma se davvero fossimo convinti che Salvini è un generale birmano (come diceva Toscani ieri), se davvero fossimo convinti che è un fascista, un pericolo per la democrazia, una minaccia democratica, beh, allora penseremmo che questo è proprio il modo peggiore per fermarlo. Perché un governo pasticciato e ridicolo, un accrocchio dell'orrore, un'accozzaglia di risentimenti mal sopiti, soltanto per non andare a elezioni, è il più grande regalo che si possa fare al leader della Lega. Non è difficile da capire. A patto di non avere la mente offuscata da troppi «finalmente».