
Quarant'anni fa moriva la parlamentare autrice della famosa legge che pose termine all'esperienza delle case di tolleranza. Di formazione cattolica, si avvicinò ai movimenti per l'emancipazione. Però fu sempre contraria all'aborto e al divorzio.Quarant'anni orsono, il 16 agosto 1979, lasciava questa terra Angelina Merlin (1887-1979), conosciuta da tutti come Lina. Maestra, con formazione cattolica presso le suore canossiane di Chioggia, coraggiosa antifascista (subì il licenziamento dalla scuola, il confino a Dorgali...), membro socialista dell'Assemblea costituente, prima donna in Senato, la Merlin fu la promotrice della celebre legge Merlin, con cui si poneva fine alla prostituzione legale in Italia, portando alla chiusura di centinaia di case di tolleranza o bordelli (già boicottati dal ministro democristiano Mario Scelba, che dal 1948 aveva smesso di rilasciare licenze per l'apertura di dette case).La sua battaglia affondava le radici nelle lotte dei movimenti femminili di fine Ottocento, in nome della difesa delle donne, degli eventuali figli, e per scongiurare la depravazione e la sifilide per molti uomini. Un fronte che aveva visto protagonista, in Inghilterra, soprattutto la Josephine Butler (1828-1906), devota anglicana, e, in Italia, Cristina Giustiniani Bandini (1866-1959), aristocratica romana promotrice dell'Unione fra le donne cattoliche d'Italia e autrice negli anni Trenta di un'inchiesta sulle case chiuse per conto della Società delle Nazioni. Diversamente dalle altre due donne citate, la Merlin non era una militante cristiana: ciononostante ebbe la collaborazione di una notevole parte del mondo cattolico, a cui, come vedremo, si sarebbe riavvicinata alla fine della vita. A darle coraggio furono anche le lettere di tante prostitute che la invitavano a proseguire con determinazione nel suo intento. Eccone una: «Signora senatrice Merlin, fanno bene i signori ministri ad approvare il suo progetto legge, avrebbero dovuto farlo prima. Togliere queste case non è mettere noi ragazze in mezzo alla strada perché quando siamo arrivate ai 30 o 35 anni non ci vogliono più, vogliono ragazze giovani, e noi che facciamo se nei 10 o 15 anni di vita non abbiamo avuto giudizio e come si può averne se facciamo la vita che facciamo? Quasi tutte poi abbiamo avuto l'uomo che oltre ad averci messe, ci mangia tutto e raggiunti i 40 anni andiamo in case basse senza mai poterne uscire perché prive di mezzi. Chiudendo queste si salva tante ragazze giovani. Non stando più queste aperte si cercheranno un lavoro e sarà la volta che si confonderemo con le altre donne e non saremo più guardate come bestie. Ma fino a quando staranno queste aperte scenderemo sempre più. Un gruppo di ragazze». La legge Merlin venne approvata nel febbraio 1958 con una schiacciante maggioranza, ma privata purtroppo di alcune importanti proposte operative della stessa Merlin, come l'istituzione di centri di assistenza e di un corpo di polizia femminile per l'aiuto alle donne decise ad abbandonare la prostituzione. Nella sostanza riprendeva la loi Richard, varata in Francia nel 1946 per iniziativa di Marcel Roclore (1897-1966), deputato della destra cattolica, e di Marthe Richard (1889-1982), una donna controversa, ex prostituta, spia durante la guerra, eletta consigliere comunale a Parigi e poi nel parlamento nazionale, con il centro cattolico. Roclore fu colui che trasformò in legge nazionale il decreto locale della Richard. Nel 1961, dopo l'entrata in vigore della legge che ne porta il nome, l'onorevole Merlin si vide togliere dal Psi il collegio di Rovigo. Entrata in conflitto con il suo partito, stracciò la tessera e prese le distanze da «fascisti rilegittimati, analfabeti politici e servitorelli dello stalinismo». Nel 1974 la Merlin, che nelle sue memorie si definiva «madre ed educatrice sempre», ricomparve sulla scena: si schierò contro il divorzio (introdotto nel 1970, con l'approvazione della legge promossa dall'onorevole socialista Loris Fortuna), affermando di essere ancora una volta dalla parte dei più deboli, cioè donne e i bambini, i soggetti destinati a patire maggiormente a causa della disgregazione familiare.Merlin fece parte del Comitato per l'abrogazione della legge, guidato dal cattolico Gabrio Lombardi, assumendo la carica di vicepresidente insieme al celebre scienziato Enrico Medi. Questa sua ultima battaglia, ancor più della brusca esclusione dal partito nel 1961, è volutamente dimenticata in quasi tutte le rievocazioni ufficiali della sua vita.Eppure servirebbe a rammentare quello che una vulgata addomesticata tenta in ogni modo di nascondere: cioè il fatto che molte delle donne del primo femminismo, anche a sinistra, erano contrarie sia al divorzio, che, ancor più, all'aborto legale, ritenuto un furbo escamotage della «cultura maschilista» per deresponsabilizzare gli uomini, in caso di concepimento, sia nei confronti della donna che del nascituro, entrambi lasciati soli non alla loro «libertà», ma al loro destino. Di più: non mancarono le donne di sinistra, messe poi a tacere dal partito socialista e comunista, che ritennero l'aborto legale un modo per ricacciare le donne in una condizione simile a quella delle prostitute: «utilizzate», messe incinte, e poi abbandonate. Concludo citando un breve discorso della Merlin durante una seduta dell'Assemblea costituente del 1947: «Noi sentiamo che la maternità, cioè la nostra funzione naturale, non è una condanna, ma una benedizione e deve essere protetta dalle leggi dello Stato senza che si circoscriva e si limiti il nostro diritto a dare quanto più sappiamo e vogliamo in tutti i campi della vita nazionale e sociale, certe, come siamo, di continuare e completare liberamente la nostra maternità».Anche in questa sua visione della maternità, definita «nostra funzione naturale» alla faccia di tutte le future ideologie gender, la Merlin sarebbe stata tradita dalla gran parte delle «femministe» degli anni Sessanta e Settanta, caparbiamente intente a presentare la maternità non come una benedizione, ma piuttosto come una maledizione, e a boicottare, di conseguenza quello che era stato, invece, il primo obiettivo dei movimenti femminili di fine Ottocento ed inizio Novecento: costringere lo Stato laico di allora a riconoscere l'importanza sociale e la dignità della maternità, agendo di conseguenza a livello legislativo e anche economico.
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