2019-04-25
Il fascismo è morto il 25 luglio 1943 e si combatte ancora il suo fantasma
I conti con il ventennio non si chiusero il 25 aprile. Fu l'ordine del giorno Grandi a dissolvere storicamente e politicamente il regime. Ma per la sinistra resta un'etichetta da appiccicare a tutto ciò che le è contrario.Se la Patria morì l'8 settembre 1943, secondo l'autorevole e condivisibile tesi di Ernesto Galli Della Loggia, quando morì il fascismo che fu uno degli artefici principali di quel lacerante dramma nazionale? Secondo alcuni mai, perché capace di rigenerarsi come un'idra e di riproporsi in diverse epoche storiche, tra cui quella presente; secondo altri il 25 aprile 1945, con l'ordine di insurrezione generale che rivelò un'Italia dai fazzoletti multicolori che chiudeva i conti con le camicie nere del ventennio e con la guerra, e che cercò la catarsi con l'esposizione a testa in giù dei cadaveri di Benito Mussolini e dei gerarchi a Piazzale Loreto, assieme all'incolpevole Claretta Petacci. Non a caso quella data è divenuta pretesto per un presidio ideologico permanente, da schierare contro il «nemico» fascistizzato di turno.Probabilmente nessuna delle due ipotesi è quella più vicina alla verità, parola che racchiude un concetto filosofico assoluto e quindi fattualmente imperfetto. Probabilmente il fascismo è morto il 25 luglio 1943, ovvero con l'ordine del giorno Grandi con cui i gerarchi pensavano di rigenerare il fascismo sconfitto sacrificando il suo capo, e con il colpo di Stato di Vittorio Emanuele III che fa arrestare l'ex duce a Villa Savoia e lo sostituisce con un regime militare retto dal maresciallo Pietro Badoglio, spazzando con questo la dittatura mussoliniana e cercando di rifarsi un'improbabile verginità. Quel giorno gli italiani scendono in piazza, inneggiano al re e alla pace, si abbandonano a una furia iconoclasta contro i simboli del fascismo. Molti tra loro erano quelli che inneggiavano al duce e alla vittoria, a Piazza Venezia, il 10 giugno 1940, giorno dell'ingresso in guerra contro le «democrazie plutocratiche e reazionarie». Quello stesso giorno i fascisti sono scomparsi. «Ma cos'era questo fascismo che si è liquefatto così?», si chiederà Joseph Goebbels sul suo diario. Nessuno leva un dito in soccorso di Mussolini o per impedire il decorso della storia. La Polizia, per ordine del riesumato capo Carmine Senise, sostituisce i fascetti al bavero con le stellette regie. Enzo Galbiati, capo della Milizia (Mvsn), passa da un'idea astratta di azione all'attendismo, per poi chiamare in tarda serata il sottosegretario agli interni Umberto Albini e comunicargli che «la Milizia rimane fedele ai suoi principi e cioè servire la Patria nel binomio re e duce» (e venendo esautorato verso mezzanotte). L'agguerrita divisione corazzata M, armata dai tedeschi, resta col fucile al piede (e con i panzer parcheggiati), e si metterà agli ordini del genero del re, Giorgio Carlo Calvi di Bergolo. Quel che accade lascia sconcertato un osservatore acuto come Eugen Dollmann: il fascismo non c'è più. L'unico colpo che viene sparato, oltre a quelli di gioia, se lo tira alla tempia Manlio Morgagni, presidente e direttore dell'Agenzia Stefani, organo informativo del regime, poiché ritiene di non poter sopravvivere alla scomparsa politica di Mussolini. Lo stesso che, sballottato tra Ponza, Maddalena e Campo Imperatore per sottrarlo alla tenace caccia dei tedeschi, si autodefinirà «morto di cui non si annuncia il decesso»; l'ex duce, quando sarà liberato dai paracadutisti tedeschi a Campo Imperatore, si rammaricherà pure che non sono italiani, non sono i suoi. Si era visto tranquillo pensionato alla Rocca delle Caminate e aveva scritto pure alcune righe servili a Badoglio per mettersi a sua disposizione, come se nulla fosse accaduto in venti anni di potere, seppellendo quell'esperienza. Il fascismo era storicamente morto il 25 luglio, e Mussolini lo era politicamente il 12 settembre, quando sul Gran Sasso era salito sull'aereo Storch, mettendo il suo destino e quello di mezza Italia nelle mani di Adolf Hitler. Il fascismo saloino, incattivito e vendicativo, era un coacervo inestricabile di velleitarismo e di confuso recupero delle origini. Il regime apparteneva già alla storia, la sua proiezione della Repubblica sociale ne era una fotocopia venuta male. Quando la parabola mussoliniana volgerà al termine, non si troveranno neppure un centinaio di fanatici per una simbolica e terminale resistenza nel ridotto della Valtellina, che dia un segno di vitalità: altro che cercare «la bella morte». Si era trattato della risurrezione artificiale di un fenomeno storico, sotto tutela nazista, con un capo inane e in balia degli eventi, con un non-esercito nazionale e una decina di milizie private o personali fuori controllo. Oggi il fantasma del fascismo viene continuamente agitato da una sinistra dall'ideologia scolorita e dalle idee monocordi, spacciandolo come una comoda etichetta da appiccicare a tutto ciò che non le appartiene, che le è contrario, che non si rifà al suo modo di pensare, che può rafforzarla. Un manicheismo fuori dalla storia e dalla realtà, che esorcizza sé stesso evocando lo spirito del fascismo da combattere ora come allora. A volte persino con venature fasciste, di cui inconsapevolmente si appropria e che spaccia per democratiche manifestazioni di pensiero.