I dati della produzione (-3,6% generale e -40% veicoli) annunciano il peggio. De Meo, presidente Acea, chiede lo stop alle multe. Ma serve un’altra strategia, mantenendo il termico e concentrando l’elettrico sul lusso. In fretta, poi ci sarà la tempesta su tessile e acciaio.
I dati della produzione (-3,6% generale e -40% veicoli) annunciano il peggio. De Meo, presidente Acea, chiede lo stop alle multe. Ma serve un’altra strategia, mantenendo il termico e concentrando l’elettrico sul lusso. In fretta, poi ci sarà la tempesta su tessile e acciaio.I numeri sono sempre un po’ freddi per definizione, ma questi diffusi ieri dall’Istat e relativi alla produzione industriale sono l’anticipo di una gelata che rischia - nel 2025 - di abbattersi sul Paese. Il dato complessivo che registra gli andamenti ottobre su ottobre 2023 segna un meno 3,6%. Il calo rispetto a settembre è inferiore a 1%. Ma sul trimestre precedente non siamo messi bene. A trascinare verso il basso la produzione complessiva sono però principalmente tre settori. Quello che riguarda la fabbricazione di mezzi di trasporto (-16%), la raffinazione di prodotti petroliferi (-15,9%) e il tessile (-7,6%). Sfogliando la cipolla dei numeri si arriva al cuore del problema. Dentro la voce «mezzi di trasporto», l’automotive da sola segna un crollo del 40%. Valore che dovrebbe lasciare a bocca spalancata tutti coloro che negli ultimi quattro anni hanno incensato le strategie di transizione green imposte dall’Unione europea. Il dato è così forte che qualunque istituzione o governo dovrebbe porre urgentemente sul tavolo un nuovo modello per l’industria non solo italiana ma europea. Ieri il numero uno di Acea, l’associazione Ue dei produttori di auto, Luca de Meo, ha avvertito: «L’Europa è sul punto di spararsi sui piedi, con 16 miliardi di euro di multe che incombono su un’industria che sta investendo oltre 250 miliardi nella transizione energetica, 16 miliardi che saranno dirottati da ulteriori investimenti nell’innovazione e nella transizione energetica». Il riferimento è alla volontà di tirare dritto ed evitare persino di rivedere la stretta sulle emissioni di CO2 prevista dal prossimo gennaio. In passato, ha detto De Meo, «siamo stati molto chiari sul fatto che l’industria automobilistica europea stava perdendo terreno da 20 anni nella competizione globale, mentre allo stesso tempo stava affrontando la sua più profonda trasformazione di sempre con il passaggio ai veicoli elettrici, imposto dalla regolamentazione Ue. Un approccio normativo che ci mette in qualche modo in svantaggio, perché ci mancano la coerenza e l’approccio olistico che sia la Cina che gli Stati Uniti sono stati in grado di fornire». Sebbene sia molto apprezzabile l’intervento di De Meo non si può non notare quanto sia tardivo, rispetto a tutti coloro che si sbracciavano segnalando il pericolo di deserto industriale. Esattamente ciò che oggi sta avvenendo. Per questo non basta chiedere il rinvio della stretta sulle emissioni di CO2, ma serve un intervento profondo rispetto alla decisione di dire addio al motore termico nel 2035. Lo scorso ottobre in Italia la vettura elettrica più venduta è stata la Volvo Ex 30, a seguire la Porsche Macan. Tanto per rendere l’idea che le auto a batteria funzionano soltanto nella fascia alta. Ma l’auto più venduta in assoluto in Italia è la Dacia Sandero il cui prezzo si aggira intorno ai 16.000 euro. Ed è su questi dati che bisogna lavorare per ripartire. Questa fascia non potrà mai essere coperta dall’elettrico, a meno che non si voglia consegnare i concessionari di utilitarie ai cinesi e trasformare il nostro Paese e l’Ue in un solo mercato di consumi. Se non si cerca di far convivere almeno le due tecnologie l’unica strategia possibile diventerà quella di prendere tempo e perdere altri miliardi di sussidi pubblici. Ci vorrà più tempo ma l’Italia non produrrà più beni di massa in grado di sostenere il Pil. Purtroppo il circolo vizioso in cui ci siamo infilati non tocca solo le quattro ruote. Se torniamo ai freddi dati dell’Istat fa male vedere quanto sia calato il business della raffinazione sotto i colpi del green e delle sanzioni alla Russia. Fa ancor più male il dato del meno 7,6% accanto alla voce Tessile. La moda è in crisi per via della deglobalizzazione e della forte concorrenza estera. Ma se distretti come quello di Prato cominciano a tirare i remi in barca significa che la cassa integrazione disponibile non sarà più sufficiente. Sicuramente servono investimenti. Ieri l’ha ricordato anche il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, puntando il dito sull’Ires premiale e i reinvestimenti. Perché prima o poi dovremo togliere dal freezer anche i grossi dossier che l’anno passato abbiamo congelato. Ci riferiamo soprattutto all’acciaio. La produzione dell’ex Ilva è ormai ridotta al lumicino. Chiuderà il 2024 con meno di 2 milioni di tonnellate. Prima del Covid eravamo a 6 milioni. Ai tempi dei Riva Taranto forniva la fetta principale della produzione totale di acciaio italiano, arrivata nel 2006 a valere 31 milioni di tonnellate. Per avvicinarci al dato odierno bisogna tornare indietro a quando negli anni Sessanta entrò a regime lo stabilimento di Taranto. All’epoca uscivano dagli altoforni 3 milioni di tonnellate. Comunque più di oggi. Fra poco più di un anno entreranno in vigore le norme europee del Cbam. Si tratta del Carbon border adjustment mechanism. Altro non è che la carbon tax che mira a ridurre l’importazione di prodotti ad alta intensità di carbonio penalizzandoli con imposte extra. L’Italia, visto anche il crollo della produzione, rimane in gran parte un Paese trasformatore di acciaio. Non ci vuole tanto a fare due più due e capire che è in arrivo un’altra tempesta. Altra mazzata sull’industria e sui dati della produzione. È già scritto. C’è un anno per fermare il treno che corre. Poi non lamentiamoci.
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