2023-11-19
Il diritto alla sicurezza è dovere dello Stato
Il Pd accusa il governo di nutrire il popolo di paure per poter poi reprimere. Ma l’esecutivo ha l’obbligo di garantire a prescindere la convivenza civile e se deve scegliere tra ingiustizia e disordine, per tutelare i più deboli è meglio preferire la prima al secondo.C’è una parola che costantemente ricorre nel vocabolario della sinistra per bollare negativamente, come essa fa di solito, qualsiasi iniziativa o proposta volta a garantire ai comuni cittadini una maggiore sicurezza contro la criminalità, con particolare riguardo a quella che viene spesso qualificata come «minore» ma che, essendo la più diffusa, viene da essi maggiormente percepita come fastidiosa e insopportabile. Quella parola è costituita dall’aggettivo «securitario», creato, in anni recenti, dalla stessa sinistra che gli ha, nel contempo, attribuito un significato inequivocabilmente dispregiativo, per quindi servirsene, unendolo a sostantivi quali «deriva», «matrice», «istinto», ecc, ad un ben preciso scopo: quello, cioè, di screditare la naturale aspirazione di ogni cittadino alla propria sicurezza, sulla base del concetto secondo cui essa sarebbe solo il frutto della paura artificiosamente alimentata dai fautori dello «Stato forte» negli strati culturalmente più arretrati della popolazione per quindi giustificare l’adozione di politiche repressive e discriminatorie nei confronti dei deboli, degli emarginati e dei «diversi» in genere. Ed infatti la regola ha trovato puntuale applicazione anche a fronte della recente approvazione, da parte del Consiglio dei ministri, del cosiddetto «pacchetto sicurezza», a proposito del quale - tanto per fare un esempio fra i molti possibili - Francesco Boccia, presidente dei senatori del Pd, ha affermato (La Repubblica del 17 novembre scorso) che esso è il prodotto dell’«unico istinto» dal quale il governo e i suoi sostenitori sarebbero mossi, e cioè appunto quello «securitario». Ora, non si vuole qui certo entrare nel merito di quanto contenuto nel «pacchetto» in questione, sul quale si possono nutrire le più varie opinioni. Quel che invece importa è mettere in luce la sottile perfidia occultata nell’uso della parola di cui si è detto e consistente nel far credere che solo in funzione del grado di «paura» nutrito dai cittadini per la propria vita, la propria incolumità ed i propri beni lo Stato debba stabilire quale sia il livello di sicurezza che ad essi conviene garantire. Conseguenza di ciò è che, essendo la paura un sentimento del quale, in genere, non si è affatto orgogliosi, siano molti quelli che, per il timore di manifestarlo o anche nel convincimento di doverlo reprimere, si astengano dal reclamare o, almeno, sostenere l’adozione di politiche che pur gioverebbero ai loro legittimi interessi ma che, secondo gli incancreniti stereotipi dominanti in gran parte della sinistra, sarebbero da rifiutare «a priori» in quanto contrarie a presunti principi di civiltà di cui la stessa sinistra, ovviamente, si autoaccredita come interprete esclusiva ed infallibile. A fronte di ciò occorre quindi ricordare che lo Stato ha come obbligo primario, assoluto e ineludibile - nel quale consiste la sua stessa ragion d’essere - quello di garantire in ogni momento il maggior grado di sicurezza possibile ai propri cittadini. E di tale obbligo i cittadini hanno, a loro volta, il diritto assoluto di pretendere l’osservanza, indipendentemente dalla circostanza che sia o meno presente, in essi, un qualsivoglia sentimento di paura e, quindi, anche quando siano o si sentano in grado di provvedere autonomamente alla propria difesa contro i malintenzionati. Trattandosi, poi, come si è appena detto, di un obbligo assoluto, ne deriva che lo Stato non potrebbe neppure adempiervi in misura minore di quella che, tenuto conto delle risorse disponibili, sarebbe oggettivamente possibile, adducendo come giustificazione quella di voler privilegiare altre finalità che, pur legittime in sé e per sé, comportino come necessaria conseguenza una riduzione del livello di sicurezza per la generalità dei cittadini. Ciò vale, in particolare, con riguardo alla finalità costituita dal recupero sociale dei delinquenti, considerando che la Costituzione italiana, nel prevedere, all’articolo 27, che le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato», non implica affatto che tale obiettivo possa essere perseguito a scapito della sicurezza dei cittadini. E, d’altra parte, è la stessa Costituzione che, all’articolo 2, stabilisce che «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo», tra i quali, per espressa previsione dell’articolo 3 della dichiarazione universale del 1948 e dell’articolo 5 della Convenzione europea del 1952 (resa esecutiva in Italia con la legge 848/1955), vi è anche quello di ciascun individuo alla sicurezza. E a chi altri se non allo Stato può spettare il compito di garantire questo diritto? Tutto ciò non significa, naturalmente, che, in nome della sicurezza, gli apparati dello Stato preposti alla sua salvaguardia e, in primo luogo, le forze dell’ordine, possano essere lasciati liberi di agire senza regole e senza limiti. Regole e limiti debbono, anzi, essere necessariamente imposti e fatti rigorosamente osservare, tenendo però presente che la loro funzione non è certo quella di ridurre il livello di sicurezza al quale i cittadini hanno diritto ma, al contrario, di accrescerlo, impedendo le condotte prevaricatrici, violente ed arbitrarie alle quali essi sarebbero, altrimenti, esposti proprio ad opera di coloro dai quali dovrebbero ottenere protezione. Non vi è, dunque, in conclusione, nulla di vergognoso o di sbagliato nel pretendere, da parte dei cittadini, e nell’offrire, da parte dello Stato, la maggior sicurezza possibile dai pericoli prodotti da ogni genere di criminalità. Certo può avvenire che nel perseguire tale legittimo e doveroso obiettivo si commettano delle ingiustizie tanto nell’applicazione delle norme vigenti quanto nella creazione di nuove. Ad esse ci si può e ci si deve, quindi, opporre in tutti i modi consentiti, senza però dimenticare un principio a suo tempo enunciato da Wolfgang Ghoete, secondo cui, quando si sia costretti a scegliere tra l’ingiustizia e il disordine - e l’insicurezza nasce dal disordine e produce a sua volta altro disordine - la prima è preferibile al secondo. Si tratta di un principio che è stato da molti aspramente criticato, ma sul quale si dovrebbe, invece, essere tutti d’accordo per la semplice ragione che l’ingiustizia non comporta necessariamente il disordine ma il disordine comporta necessariamente anche l’ingiustizia perché in esso chi è più forte può, in qualche modo, difendersi dalle prepotenze altrui mentre chi è più debole è condannato a sopportarle. La prima a condividere questo principio dovrebbe quindi essere proprio la sinistra, che rivendica nel suo Dna la vocazione alla difesa dei deboli. Ma tale vocazione sembra che da parecchio tempo sia stata dimenticata.
La leggendaria bacchetta svela le ragioni che l’hanno portato a fondare una vera e propria Accademia per direttori d’orchestra, che dal 2015 gira il mondo per non disperdere quel patrimonio di conoscenze sul repertorio operistico che ha ereditato dai giganti della scuola italiana.
Ll’ex procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti (Ansa). Nel riquadro la copertina del numero di «Panorama» da oggi in edicola