2022-03-22
Il dialogo nucleare Usa-Iran rilancia Assad
Mohammed Bin Rashid Al Maktoum e Bashar Al Assad (Ansa)
Joe Biden aveva promesso al mondo di combattere le autocrazie: le sta invece facendo coalizzare. La distensione con Teheran ha irritato sauditi ed emiratini, che a loro volta hanno sdoganato il leader di Damasco. E intanto la Cina tesse la sua tela.La crisi ucraina sta evidenziando il declino di influenza internazionale a cui l’amministrazione Biden è sempre più soggetta. Negli ultimi giorni, si sono infatti registrati due segnali inquietanti per la Casa Bianca. In primis, il ministero degli Esteri di Riad ha smentito la notizia secondo cui il segretario di Stato americano Tony Blinken visiterà l’Arabia saudita «nel prossimo futuro». In secondo luogo, il presidente siriano, Bashar Al Assad si è recato in visita negli Emirati arabi uniti, dove ha incontrato il principe ereditario Mohammed Bin Zayed Al Nahyan: è la prima volta che Assad visita uno Stato arabo dallo scoppio della guerra civile siriana nel 2011 (da quando, cioè, Damasco fu sospesa dalla Lega araba). Ora, è chiaro che queste due notizie non possono fare granché piacere agli Usa. Non è un caso che l’amministrazione Biden abbia esplicitamente criticato il viaggio emiratino di Assad (che è uno stretto alleato di Vladimir Putin). In particolare, il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Ned Price, ha affermato che Washington è rimasta «profondamente delusa e turbata da questo apparente tentativo di legittimare Bashar Al Assad». Dall’altra parte, anche la smentita saudita del viaggio di Blinken è tutt’altro che una buona notizia per la Casa Bianca. Nei giorni scorsi, il Wall Street Journal aveva d’altronde rivelato non solo che i sauditi starebbero trattando con i cinesi per vendere loro petrolio in yuan anziché in dollari, ma anche che le leadership di Riad e Abu Dhabi si sarebbero rifiutate di tenere una telefonata con Biden. Insomma, l’attuale Casa Bianca sta scontando una notevole perdita di influenza su due Paesi mediorientali che erano storicamente vicini all’orbita americana. L’anno scorso, Biden ha significativamente irritato entrambe le petromonarchie sia per la sua volontà di rilanciare il controverso accordo sul nucleare con l’Iran sia per attriti registratisi sul dossier della guerra nello Yemen. Questi fattori hanno deteriorato il rapporto dei due Stati arabi con Washington, spingendo entrambi a rafforzare i propri legami con il Cremlino. Del resto, pur sottoscrivendo la risoluzione di condanna dell’invasione russa all’Assemblea generale dell’Onu, Riad e Abu Dhabi stanno continuando a mantenere una posizione morbida nei confronti della Russia (basti pensare che, appena giovedì scorso, il ministro degli Esteri emiratino, Abdullah Bin Zayed Al Nahyan, si è recato in visita a Mosca). Il nodo centrale è comunque rappresentato dall’Iran. Pur di rilanciare l’accordo obamiano sul nucleare da cui Trump si era sfilato nel 2018, Biden sta conducendo un pericoloso appeasement nei confronti di Teheran. Non solo sta considerando di togliere i Guardiani della rivoluzione islamica dalla lista delle organizzazioni terroristiche (irritando Israele), ma - secondo documenti ottenuti dal Washington Free Beacon - l’intesa sul nucleare in via di definizione garantirebbe al colosso statale russo Rosatom un contratto da 10 miliardi di dollari, per espandere la centrale nucleare iraniana di Bushehr. «Ovviamente, non sanzioneremo la partecipazione russa a progetti nucleari che fanno parte della ripresa della piena attuazione del trattato sul nucleare con l’Iran», ha fatto sapere il Dipartimento di Stato americano. Si tratta di un evidente cortocircuito. L’Iran, che è strettamente legato a Siria e Russia, ha infatti di recente annunciato che sosterrà Mosca contro le sanzioni occidentali. E non è finita qui. Per far fronte al caro energia, Biden starebbe considerando di allentare la pressione sul Venezuela: regime dittatoriale che non solo vanta legami politici, energetici e militari con Mosca e Teheran, ma che ha anche dato il proprio endorsement all’invasione russa dell’Ucraina. Ne consegue che Biden da una parte impone embarghi energetici alla Russia e dall’altra le offre al contempo delle scappatoie, per aggirare le sanzioni occidentali. Tra l’altro, il presidente americano ha da sempre fatto affidamento principalmente su Mosca per rilanciare l’accordo iraniano (anche quando la crisi ucraina stava già montando, alla fine di dicembre). Tutto questo, senza trascurare che la guerra in Ucraina sta portando sauditi ed emiratini pressoché dalla stessa parte di Teheran e Caracas. Non va inoltre dimenticato il ruolo cinese. Negli ultimi anni, Pechino ha effettuato importanti investimenti in Venezuela e, nel 2021, ha siglato un accordo di cooperazione di 25 anni con l’Iran. Lo scorso febbraio, Xi Jinping e Putin hanno poi consolidato l’asse sino-russo, mentre Riad e Pechino si sono progressivamente avvicinate nei settori della Difesa e del greggio. Insomma, i cortocircuiti di Biden non solo rischiano di rendere inefficaci le sanzioni occidentali contro la Russia, ma stanno anche indirettamente favorendo il costituirsi di un nuovo «asse del male». Un asse ben più pericoloso di quello a cui si riferì Bush jr nel 2002, che comprendeva «soltanto» Iraq, Iran e Corea del Nord. No, l’asse che va formandosi oggi non solo è più vasto ma ha anche un «regista», che ha tutto l’interesse a scardinare l’ordine internazionale occidentale: quel regista è la Cina. Quella Cina che Biden si illude ancora di poter coinvolgere nel processo di mediazione ucraino, ma che in realtà punta esclusivamente a massimizzare il proprio tornaconto geopolitico, sfruttando le contraddizioni della Casa Bianca. In campagna elettorale, Biden aveva promesso che avrebbe combattuto le autocrazie. E invece, con i suoi errori e la sua scarsa risolutezza, sta mettendo progressivamente l’Occidente alla loro mercé.