2023-01-08
Il decreto anti Ong ha troppi buchi: non fermerà i «taxi»
Il provvedimento del governo introduce sì nuove restrizioni, ma facilmente aggirabili. L’Italia resta ricattata sui migranti.Dalla lettura del decreto legge pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 2 gennaio u.s. e intitolato «Disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori», risultano purtroppo confermati i timori già espressi nell’articolo comparso su questo giornale il 21 dicembre 2022 circa la reale efficacia dei provvedimenti che il governo intendeva adottare per mettere sotto controllo e limitare l’attività di «taxi del mare» svolta dalle Ong in favore dei migranti provenienti soprattutto dalle coste libiche.Con il suddetto decreto, infatti, il governo si è limitato ad introdurre alcune modifiche al già vigente D.L. n. 130/2020, convertito in legge n. 173/2020, a suo tempo emanato dal governo «giallo-rosso» Conte bis, senza intaccarne fondamentalmente la struttura. In particolare, le modifiche hanno avuto ad oggetto l’art. 2, che prevedeva (e continua a prevedere) la possibilità, per il ministro dell’Interno, d’intesa con altri e previa informativa al presidente del Consiglio, di «limitare o vietare il transito e la sosta di navi nel mare territoriale». Tale possibilità era, però (e rimane) esclusa «nell’ipotesi di operazioni di soccorso immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo e allo Stato di bandiera ed effettuate nel rispetto delle indicazioni della competente autorità per la ricerca e il soccorso in mare», nonché nel rispetto di una serie di norme che non serve, qui, riportare in dettaglio. Le novità introdotte dal D.L. del 2 gennaio scorso sono, essenzialmente, due. La prima consiste nella sostituzione dell’attuale sanzione penale con una serie di possibili sanzioni amministrative, fino al fermo temporaneo e alla confisca della nave, in caso di violazione del provvedimento con il quale il ministro dell’Interno abbia limitato o vietato il transito e la sosta della stessa nave nel mare territoriale. La seconda consiste nella previsione di una serie di condizioni perché le operazioni di soccorso in mare possano dirsi regolari ed escludere, quindi, che quel provvedimento possa essere adottato. Sulla loro osservanza e sull’efficacia deterrente delle sanzioni si fa affidamento - a quanto sembra di capire - per ottenere il risultato sperato. Si tratta, però, di un affidamento destinato, con ogni probabilità, a restare illusorio. Le suddette condizioni, infatti, ad onta delle vibrate e scandalizzate proteste sollevate dalle Ong, sono tali per cui queste ultime possono, se vogliono, abbastanza facilmente osservarle senza che ciò si traduca in un apprezzabile impedimento alla prosecuzione della loro attività; quella stessa attività di sostanziale, sistematico favoreggiamento dell’immigrazione irregolare alla quale, invece, stando alle dichiarate intenzioni del governo (ed alle aspettative di quanti hanno votato per le forze politiche che lo sostengono), si vorrebbe porre un drastico freno. In particolare, i comandanti delle navi delle Ong potrebbero continuare, come hanno fatto finora, a scegliere, a loro discrezione, l’Italia come Stato al quale richiedere l’assegnazione di un porto per lo sbarco dei migranti soccorsi in mare, pur quando - come avviene nella maggior parte dei casi - l’operazione di soccorso sia stata effettuata nella zona Sar di pertinenza di altri Paesi e, segnatamente, della Libia. E l’Italia continuerebbe a dover subire passivamente tali richieste pur avendo - come più volte si è cercato di spiegare su questo giornale - il sacrosanto diritto di respingerle se non provenienti direttamente dalle autorità dello Stato di bandiera della nave ed accompagnate dal chiaro e inequivocabile impegno ad accogliere nel territorio di quello stesso Stato tutti indistintamente i migranti cui sia stato consentito, nell’immediato, lo sbarco in un porto italiano; linea di condotta, questa, che - essa sì - potrebbe verosimilmente comportare un utile risultato per il nostro Paese senza ingiusto danno per alcuno. Né si potrebbe sostenere che lo Stato di bandiera della nave assumerebbe l’obbligo di accogliere i «migranti» nel proprio territorio per il solo fatto che gli stessi - come previsto in una delle condizioni più «reclamizzate» tra quelle contenute nel decreto legge - fossero stati informati, una volta a bordo della nave soccorritrice, della possibilità di richiedere la protezione internazionale e avessero, al riguardo, manifestato «interesse». Una tale manifestazione, infatti, non potrebbe valere come formale «domanda», quale invece richiesta, ai fini della determinazione dello Stato competente ad esaminarla, dal Regolamento europeo n. 604/2013, attuativo del c.d. «accordo di Dublino». Una volta, quindi, che i «migranti», pur preventivamente «informati» e risultati «interessati», fossero giunti in Italia ed ivi avessero formalizzato la domanda di protezione internazionale, solo sull’Italia graverebbe l’obbligo di provvedere su di essa e di consentire, fino alla sua definitiva reiezione, la permanenza dei richiedenti nel territorio italiano. E il risultato non cambierebbe neppure se, per la ritenuta mancanza di una qualsiasi delle condizioni richieste nel decreto legge, venisse adottato il provvedimento ministeriale di divieto di transito e sosta della nave nelle acque territoriali. Nello stesso decreto, infatti, è espressamente previsto che il transito e la sosta siano «comunque garantiti», sia pure «ai soli fini di assicurare il soccorso e l’assistenza a terra delle persone prese a bordo a tutela della loro incolumità». Ma, una volta che queste persone fossero comunque giunte in un porto italiano e avessero avanzata richiesta di protezione internazionale, senza che lo Stato di bandiera della nave avesse assunto l’impegno di cui sopra si è fatto cenno, ad essere gravata della loro gestione resterebbe sempre e soltanto l’Italia, come finora è costantemente avvenuto. Il tutto senza considerare, poi, che tanto il provvedimento ministeriale quanto quelli di applicazione delle previste sanzioni in caso di inosservanza sarebbero soggetti agli ordinari mezzi di impugnazione davanti ai competenti organi giudiziari; e, dati i noti precedenti, sarebbe assai azzardato scommettere che passerebbero facilmente indenni al loro vaglio. Non rimane quindi che concludere, a questo punto (facendo grazia degli ulteriori rilievi critici che pur sarebbe possibile formulare) con l’auspicio che, in sede di conversione, vengano apportate al decreto legge le modifiche indispensabili a far sì che esso non resti assimilabile, come ora appare, ad una «grida» di manzoniana memoria.