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2021-02-02
Il Cts attacca i sindaci sui controlli. L’Anci: «Basta, pensino a lavorare»
Ansa
La zona gialla per quasi tutta Italia non era ancora ufficialmente partita, e già il Cts, nella persona del suo coordinatore Agostino Miozzo, aveva individuato una exit-strategy dalle responsabilità sue e del governo, puntando l'indice su altri. Che, nella fattispecie, sarebbero i sindaci, rei a suo parere di omettere i dovuti controlli e di non elevare le sanzioni del caso ai cittadini che nel week-end hanno deciso di fare una passeggiata in città e magari di dare un'occhiata ai saldi. Dopo i governatori anarchici, i cittadini irresponsabili e la movida selvaggia, dunque, il nuovo spauracchio pronto a spiegare l'eventuale fallimento del «semaforo» inventato da tecnici ed esecutivo è incarnato dalla figura del «sindaco negligente», incline a voltarsi dall'altra parte di fronte agli assembramenti provocati da torme di barbari incuranti del rischio contagio.
Un attacco, quello di Miozzo, sferrato a freddo e portato con toni irritualmente aggressivi, che non ha potuto non suscitare la durissima reazione del presidente dell'Anci e sindaco di Bari, Antonio Decaro, di fronte alla quale il coordinatore del Cts ha dovuto battere mestamente in ritirata. Tutto è cominciato quando siti web e telegiornali, nel pomeriggio di sabato, diffondono le immagini dei centri delle principali città italiane attraversati da persone intente a passeggiare, attratte anche dal tempo mite e dai saldi e, sebbene nella gran parte del territorio nazionale bar e ristoranti siano ancora chiusi poiché le ordinanze sulle zone gialle sarebbero entrate in vigore da lunedì, si ricomincia a parlare di «movida», tanto che Miozzo, interpellato in merito, spara a zero parlando di «assembramenti inaccettabili» e puntando il dito contro i primi cittadini chiedendosi «che fanno?».
Per Decaro la misura è colma, e la risposta non si fa attendere: «Dare la colpa ai sindaci sta diventando il nuovo sport nazionale», afferma il presidente dell'Anci, che prima puntualizza («noi sindaci non siamo responsabili della sorveglianza di strade e piazze») poi affonda: «Miozzo, che ci accusa di immobilismo di fronte agli assembramenti nelle città, sembra impegnato in un disperato tentativo di allontanare da sé le responsabilità e addossarle sugli obiettivi più facili, che per senso del dovere sono abituati a esporsi in prima persona. Il Cts», chiude Decaro, pensi a lavorare, invece di andare alla ricerca di capri espiatori».
Per chiudere il caso, e per non aprire un ulteriore, imbarazzante fronte polemico tra potere centrale e amministratori locali (che a differenza dei governatori in questo caso provengono in maggioranza dal Pd), arriva a stretto giro di posta una precisazione dello stesso Miozzo che sa tanto di marcia indietro: «Non ho contestato i sindaci», puntualizza il coordinatore del Cts. «Ho fatto un appello affinché aiutino il sistema per controllare il territorio. Non era assolutamente mia intenzione addossare ai sindaci responsabilità diverse da quelle che hanno».
Ma le tensioni tra Roma e gli enti locali sembrano destinate a non sopirsi, anzi: le prossime due settimane, infatti, saranno decisive su due punti estremamente delicati, e cioè le possibili riaperture dei confini regionali e degli impianti sciistici. Le scadenze coincidono, poiché i precedenti provvedimenti governativi le hanno fissate entrambe al 15 febbraio, ma il ministro della Salute, Roberto Speranza, è stato chiaro, a suo tempo, nel sottolineare che nel caso la curva dei contagi non presentasse un rallentamento soddisfacente, sarebbe altamente probabile un ulteriore rinvio delle aperture. Il che cozza con le aspettative dei governatori maggiormente interessati dal provvedimento sugli impianti, che a loro volta si stanno facendo interpreti delle istanze di lavoratori e imprenditori. Il presidente lombardo Attilio Fontana, nel fare appello alla responsabilità dei cittadini affinché rispettino, anche in zona gialla, tutte le misure anti contagio, ha reclamato dal governo «misure più coerenti che evitino interventi altalenanti, incomprensibili, che spesso si sono dimostrati inefficaci».
Per quanto riguarda gli impianti sciistici, sarà a breve al vaglio del Cts un documento delle Regioni con le ipotesi di linee guida per la riapertura, che riguarderanno ad esempio gli ingressi nelle piste, negli alberghi e negli impianti di ristorazione, così come è attesa nei prossimi giorni una risposta del ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora, su palestre e piscine. Trattative complesse e soggette, come già visto più volte negli ultimi mesi, a rigidità ideologiche che però risultano oggi ancor più inopportune, con in ballo comparti ormai al collasso.
«La vera catastrofe è il virus della stupidità»
Paolo Musso è docente di filosofia della scienza e membro del Seti permanent study group per la ricerca della vita nel cosmo nell'ambito della International Academy of astronautics. È autore, tra gli altri, di un poderoso saggio intitolato La Scienza e l'Idea di Ragione (2a ed. ampliata), edito da Mimesis nel 2019.
Come mai un filosofo come lei da qualche mese scrive articoli sul virus per la Fondazione Hume, diretta da un sociologo come Luca Ricolfi?
«Anzitutto, io sono un filosofo della scienza e ho sempre lavorato molto più (e molto meglio) con gli scienziati che con i filosofi. Ma, soprattutto, la confusione è oggi così totale che considero un dovere morale cercare di spiegare ciò che sta realmente accadendo».
E dunque cosa è successo?
«È successo che un virus di per sé non particolarmente pericoloso è stato trasformato in una catastrofe planetaria da un virus ben più terribile: quello della stupidità».
Come può dire questo?
«Non lo dico io, lo dicono i numeri. Lasciamo pure da parte l'Africa, che per diversi motivi è un caso anomalo. Ma Europa e Usa hanno più morti per abitante di qualsiasi Paese dell'America Latina. Certo, lì il numero dei morti è probabilmente sottostimato, ma se anche fossero il doppio o perfino il triplo non cambierebbe molto. Il punto è che se stiamo appena un po' meglio di Paesi che, avendo sistemi sanitari pressoché inesistenti, non hanno potuto far nulla contro il virus, ciò significa che le misure che abbiamo adottato sono state appena un po' meglio del non far nulla. E noi siamo quelli messi peggio di tutti: anche degli Usa, di cui continuiamo irragionevolmente a pretenderci migliori».
Donald Trump ha gestito bene la crisi?
«No, Trump l'ha gestita molto male. Ma noi siamo riusciti a far peggio. E avrebbero fatto peggio di lui anche Joe Biden e Anthony Fauci. Buon per l'America che stanno arrivando i vaccini».
Quindi lei dei vaccini si fida?
«L'ostilità ai vaccini è pura follia. Il vero problema è che l'attesa dei vaccini è diventata la scusa perfetta per la nostra inettitudine».
Ma il mondo non è tutto nella nostra stessa situazione?
«Assolutamente no! Questo è quello che ci raccontano i mass media, per ignoranza o per nascondere gli errori dei governi. Ma quasi un quarto dell'umanità è tornato alla normalità già da mesi, a cominciare dalla Cina, che ha colpe gravissime per aver mentito spudoratamente all'inizio dell'epidemia, facilitandone la diffusione, ma poi ha agito con grande efficacia».
La Cina, però, è una dittatura e ha usato metodi per noi inaccettabili.
«Una delle poche cose positive dell'epidemia è averci ricordato che la Cina non è un Paese normale. Ma il lockdown l'hanno attuato anche molti Paesi democratici e ha funzionato».
Scusi, ma il lockdown non c'è stato anche in Italia?
«Assolutamente no! Lockdown significa: stanno aperti solo supermercati e farmacie e si esce di casa solo per fare la spesa. È molto più duro, ma anche molto più rapido e soprattutto molto più efficace. Purché si chiuda davvero “tutto", però. Da noi, invece, nel momento di teorica chiusura totale lavoravano e circolavano legalmente 9,4 milioni di persone e il governo se la prendeva con le poche migliaia di irregolari... Comunque, esistono anche altri sistemi: anzitutto la chiusura delle frontiere, come ha fatto per prima Taiwan. Risultato: poche centinaia di contagi e appena 7 morti su 23 milioni di abitanti. In proporzione, noi avremmo dovuto averne 18! Con la Sars le frontiere le chiudemmo e ci furono appena 4 casi e nessun morto. Stavolta, invece, chi l'ha proposto si è preso del razzista e perfino del fascista».
L'Oms ha delle colpe?
«L'Oms ha più colpe di tutti. Anzitutto ha sempre avallato le menzogne cinesi. Poi ha sconsigliato le misure attuate dai Paesi più virtuosi, come Taiwan (0,3 morti per milione di abtanti), Nuova Zelanda (5) e Australia (35), solo perché da tempo contestano la gestione del suo segretario Tedros Adhanom, un tipo che va a braccetto con i peggiori dittatori del pianeta. Addirittura, sul suo sito ufficiale l'Oms nemmeno nomina Taiwan perché la considera parte della Cina!».
Ma almeno all'inizio non eravamo stati bravi?
«No. L'Italia è sempre stata il peggior Paese al mondo dopo il Belgio».
Fare tanti tamponi serve?
«Anzitutto non ne facciamo così tanti: siamo solo al 40° posto nel mondo. E poi, come ha detto anche Crisanti, i tamponi aiutano, ma non bastano: bisogna abbinarli al tracciamento dei contagi. Ma la app Immuni è arrivata con mesi di ritardo e non l'ha usata nessuno perché il governo non l'ha resa obbligatoria. Dove ciò è stato fatto, come in Corea del Sud, Giappone e Australia, la situazione è da 40 a 60 volte migliore che da noi. Anche se io preferisco sempre il modello neozelandese: lockdown totale al primo segno di contagio».
Non le sembra eccessivo?
«È esattamente il contrario. Le epidemie si propagano esponenzialmente, quindi anche il costo per fermarle cresce esponenzialmente col tempo, così come il rischio che il virus muti, come infatti è accaduto. Comunque, sa qual è la cosa più agghiacciante?».
Quale?
«Che perfino gli sgangherati pseudo-lockdown contiani, se attuati al momento giusto e nell'ordine giusto, sarebbero bastati a ridurre i contagi dell'85%, permettendoci una vita “quasi normale", con poche migliaia di morti e danni economici limitati. Capisce perché dico che il vero problema è la stupidità?».
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Agostino Miozzo, coordinatore dei tecnici, mette le mani avanti sull'eventuale fallimento delle zone colorate. La replica del pd Antonio Decaro, presidente dell'associazione Comuni: «Disperato tentativo di spostare da sé le responsabilità».Il filosofo della scienza Paolo Musso: «Con la Sars abbiamo chiuso le frontiere e ci furono appena 4 casi e nessun morto».Lo speciale contiene due articoli.La zona gialla per quasi tutta Italia non era ancora ufficialmente partita, e già il Cts, nella persona del suo coordinatore Agostino Miozzo, aveva individuato una exit-strategy dalle responsabilità sue e del governo, puntando l'indice su altri. Che, nella fattispecie, sarebbero i sindaci, rei a suo parere di omettere i dovuti controlli e di non elevare le sanzioni del caso ai cittadini che nel week-end hanno deciso di fare una passeggiata in città e magari di dare un'occhiata ai saldi. Dopo i governatori anarchici, i cittadini irresponsabili e la movida selvaggia, dunque, il nuovo spauracchio pronto a spiegare l'eventuale fallimento del «semaforo» inventato da tecnici ed esecutivo è incarnato dalla figura del «sindaco negligente», incline a voltarsi dall'altra parte di fronte agli assembramenti provocati da torme di barbari incuranti del rischio contagio. Un attacco, quello di Miozzo, sferrato a freddo e portato con toni irritualmente aggressivi, che non ha potuto non suscitare la durissima reazione del presidente dell'Anci e sindaco di Bari, Antonio Decaro, di fronte alla quale il coordinatore del Cts ha dovuto battere mestamente in ritirata. Tutto è cominciato quando siti web e telegiornali, nel pomeriggio di sabato, diffondono le immagini dei centri delle principali città italiane attraversati da persone intente a passeggiare, attratte anche dal tempo mite e dai saldi e, sebbene nella gran parte del territorio nazionale bar e ristoranti siano ancora chiusi poiché le ordinanze sulle zone gialle sarebbero entrate in vigore da lunedì, si ricomincia a parlare di «movida», tanto che Miozzo, interpellato in merito, spara a zero parlando di «assembramenti inaccettabili» e puntando il dito contro i primi cittadini chiedendosi «che fanno?».Per Decaro la misura è colma, e la risposta non si fa attendere: «Dare la colpa ai sindaci sta diventando il nuovo sport nazionale», afferma il presidente dell'Anci, che prima puntualizza («noi sindaci non siamo responsabili della sorveglianza di strade e piazze») poi affonda: «Miozzo, che ci accusa di immobilismo di fronte agli assembramenti nelle città, sembra impegnato in un disperato tentativo di allontanare da sé le responsabilità e addossarle sugli obiettivi più facili, che per senso del dovere sono abituati a esporsi in prima persona. Il Cts», chiude Decaro, pensi a lavorare, invece di andare alla ricerca di capri espiatori». Per chiudere il caso, e per non aprire un ulteriore, imbarazzante fronte polemico tra potere centrale e amministratori locali (che a differenza dei governatori in questo caso provengono in maggioranza dal Pd), arriva a stretto giro di posta una precisazione dello stesso Miozzo che sa tanto di marcia indietro: «Non ho contestato i sindaci», puntualizza il coordinatore del Cts. «Ho fatto un appello affinché aiutino il sistema per controllare il territorio. Non era assolutamente mia intenzione addossare ai sindaci responsabilità diverse da quelle che hanno». Ma le tensioni tra Roma e gli enti locali sembrano destinate a non sopirsi, anzi: le prossime due settimane, infatti, saranno decisive su due punti estremamente delicati, e cioè le possibili riaperture dei confini regionali e degli impianti sciistici. Le scadenze coincidono, poiché i precedenti provvedimenti governativi le hanno fissate entrambe al 15 febbraio, ma il ministro della Salute, Roberto Speranza, è stato chiaro, a suo tempo, nel sottolineare che nel caso la curva dei contagi non presentasse un rallentamento soddisfacente, sarebbe altamente probabile un ulteriore rinvio delle aperture. Il che cozza con le aspettative dei governatori maggiormente interessati dal provvedimento sugli impianti, che a loro volta si stanno facendo interpreti delle istanze di lavoratori e imprenditori. Il presidente lombardo Attilio Fontana, nel fare appello alla responsabilità dei cittadini affinché rispettino, anche in zona gialla, tutte le misure anti contagio, ha reclamato dal governo «misure più coerenti che evitino interventi altalenanti, incomprensibili, che spesso si sono dimostrati inefficaci». Per quanto riguarda gli impianti sciistici, sarà a breve al vaglio del Cts un documento delle Regioni con le ipotesi di linee guida per la riapertura, che riguarderanno ad esempio gli ingressi nelle piste, negli alberghi e negli impianti di ristorazione, così come è attesa nei prossimi giorni una risposta del ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora, su palestre e piscine. Trattative complesse e soggette, come già visto più volte negli ultimi mesi, a rigidità ideologiche che però risultano oggi ancor più inopportune, con in ballo comparti ormai al collasso. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-cts-attacca-i-sindaci-sui-controlli-lanci-basta-pensino-a-lavorare-2650238935.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-vera-catastrofe-e-il-virus-della-stupidita" data-post-id="2650238935" data-published-at="1612210636" data-use-pagination="False"> «La vera catastrofe è il virus della stupidità» Paolo Musso è docente di filosofia della scienza e membro del Seti permanent study group per la ricerca della vita nel cosmo nell'ambito della International Academy of astronautics. È autore, tra gli altri, di un poderoso saggio intitolato La Scienza e l'Idea di Ragione (2a ed. ampliata), edito da Mimesis nel 2019. Come mai un filosofo come lei da qualche mese scrive articoli sul virus per la Fondazione Hume, diretta da un sociologo come Luca Ricolfi? «Anzitutto, io sono un filosofo della scienza e ho sempre lavorato molto più (e molto meglio) con gli scienziati che con i filosofi. Ma, soprattutto, la confusione è oggi così totale che considero un dovere morale cercare di spiegare ciò che sta realmente accadendo». E dunque cosa è successo? «È successo che un virus di per sé non particolarmente pericoloso è stato trasformato in una catastrofe planetaria da un virus ben più terribile: quello della stupidità». Come può dire questo? «Non lo dico io, lo dicono i numeri. Lasciamo pure da parte l'Africa, che per diversi motivi è un caso anomalo. Ma Europa e Usa hanno più morti per abitante di qualsiasi Paese dell'America Latina. Certo, lì il numero dei morti è probabilmente sottostimato, ma se anche fossero il doppio o perfino il triplo non cambierebbe molto. Il punto è che se stiamo appena un po' meglio di Paesi che, avendo sistemi sanitari pressoché inesistenti, non hanno potuto far nulla contro il virus, ciò significa che le misure che abbiamo adottato sono state appena un po' meglio del non far nulla. E noi siamo quelli messi peggio di tutti: anche degli Usa, di cui continuiamo irragionevolmente a pretenderci migliori». Donald Trump ha gestito bene la crisi? «No, Trump l'ha gestita molto male. Ma noi siamo riusciti a far peggio. E avrebbero fatto peggio di lui anche Joe Biden e Anthony Fauci. Buon per l'America che stanno arrivando i vaccini». Quindi lei dei vaccini si fida? «L'ostilità ai vaccini è pura follia. Il vero problema è che l'attesa dei vaccini è diventata la scusa perfetta per la nostra inettitudine». Ma il mondo non è tutto nella nostra stessa situazione? «Assolutamente no! Questo è quello che ci raccontano i mass media, per ignoranza o per nascondere gli errori dei governi. Ma quasi un quarto dell'umanità è tornato alla normalità già da mesi, a cominciare dalla Cina, che ha colpe gravissime per aver mentito spudoratamente all'inizio dell'epidemia, facilitandone la diffusione, ma poi ha agito con grande efficacia». La Cina, però, è una dittatura e ha usato metodi per noi inaccettabili. «Una delle poche cose positive dell'epidemia è averci ricordato che la Cina non è un Paese normale. Ma il lockdown l'hanno attuato anche molti Paesi democratici e ha funzionato». Scusi, ma il lockdown non c'è stato anche in Italia? «Assolutamente no! Lockdown significa: stanno aperti solo supermercati e farmacie e si esce di casa solo per fare la spesa. È molto più duro, ma anche molto più rapido e soprattutto molto più efficace. Purché si chiuda davvero “tutto", però. Da noi, invece, nel momento di teorica chiusura totale lavoravano e circolavano legalmente 9,4 milioni di persone e il governo se la prendeva con le poche migliaia di irregolari... Comunque, esistono anche altri sistemi: anzitutto la chiusura delle frontiere, come ha fatto per prima Taiwan. Risultato: poche centinaia di contagi e appena 7 morti su 23 milioni di abitanti. In proporzione, noi avremmo dovuto averne 18! Con la Sars le frontiere le chiudemmo e ci furono appena 4 casi e nessun morto. Stavolta, invece, chi l'ha proposto si è preso del razzista e perfino del fascista». L'Oms ha delle colpe? «L'Oms ha più colpe di tutti. Anzitutto ha sempre avallato le menzogne cinesi. Poi ha sconsigliato le misure attuate dai Paesi più virtuosi, come Taiwan (0,3 morti per milione di abtanti), Nuova Zelanda (5) e Australia (35), solo perché da tempo contestano la gestione del suo segretario Tedros Adhanom, un tipo che va a braccetto con i peggiori dittatori del pianeta. Addirittura, sul suo sito ufficiale l'Oms nemmeno nomina Taiwan perché la considera parte della Cina!». Ma almeno all'inizio non eravamo stati bravi? «No. L'Italia è sempre stata il peggior Paese al mondo dopo il Belgio». Fare tanti tamponi serve? «Anzitutto non ne facciamo così tanti: siamo solo al 40° posto nel mondo. E poi, come ha detto anche Crisanti, i tamponi aiutano, ma non bastano: bisogna abbinarli al tracciamento dei contagi. Ma la app Immuni è arrivata con mesi di ritardo e non l'ha usata nessuno perché il governo non l'ha resa obbligatoria. Dove ciò è stato fatto, come in Corea del Sud, Giappone e Australia, la situazione è da 40 a 60 volte migliore che da noi. Anche se io preferisco sempre il modello neozelandese: lockdown totale al primo segno di contagio». Non le sembra eccessivo? «È esattamente il contrario. Le epidemie si propagano esponenzialmente, quindi anche il costo per fermarle cresce esponenzialmente col tempo, così come il rischio che il virus muti, come infatti è accaduto. Comunque, sa qual è la cosa più agghiacciante?». Quale? «Che perfino gli sgangherati pseudo-lockdown contiani, se attuati al momento giusto e nell'ordine giusto, sarebbero bastati a ridurre i contagi dell'85%, permettendoci una vita “quasi normale", con poche migliaia di morti e danni economici limitati. Capisce perché dico che il vero problema è la stupidità?».
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Veniamo al profeta, Pellegrino Artusi, il Garibaldi della cucina tricolore. Scrivendo il libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), l’uomo di Forlimpopoli trapiantato a Firenze creò un’identità gastronomica comune nel Paese da poco unificato, raccogliendo le ricette tradizionali delle varie Regioni - e subregioni - italiane valorizzando le tipicità e diffondendone la conoscenza. È così che suscitò uno slancio di orgoglio nazionale per le diverse cucine italiane che, nei secoli, si sono caratterizzate ognuna in maniera diversa, attraverso i vari coinvolgimenti storici, la civiltà contadina, la cucina di corte (anche papale), quella borghese, le benefiche infiltrazioni e contaminazioni di popoli e cucine d’oltralpe e d’oltremare, e, perché no, anche attraverso la fame e la povertà.
Orio Vergani, il custode, giornalista e scrittore milanese (1898-1960), è una figura di grande rilievo nella storia della cucina patria. Fu lui insieme ad altri innamorati a intuire negli anni Cinquanta del secolo scorso il rischio che correvano le buone tavole del Bel Paese minacciate dalla omologazione e dall’appiattimento dei gusti, insidiate da una cucina industriale e standardizzata. Fu lui a distinguere i pericoli nel turismo di massa e nell’alta marea della modernizzazione. Il timore e l’allarme sacrosanto di Vergani erano dettati dalla paura di perdere a tavola l’autenticità, la qualità e il legame col territorio della nostra tradizione gastronomica. Per combattere la minaccia, l’invitato speciale fondò nel 1953 l’Accademia italiana della cucina sottolineando già nel nome la diversità dell’arte culinaria nelle varie parti d’Italia.
L’Accademia, istituzione culturale della Repubblica italiana, continua al giorno d’oggi, con le sue delegazioni in sessanta Paesi del mondo e gli 8.000 soci, a portare avanti il buon nome della cucina italiana. Non è un caso se a sostenere il progetto all’Unesco siano stati tre attori, due dei quali legati al «profeta» romagnolo e al «custode» milanese: la Fondazione Casa Artusi di Forlimpopoli e l’Accademia italiana della cucina nata, appunto, dall’intuizione di Orio Vergani. Terzo attore è la rivista La cucina Italiana, fondata nel 1929. Paolo Petroni, presidente dell’Accademia, commenta: «Il riconoscimento dell’Unesco rappresenta una grandissima medaglia al valore, per noi. La festeggeremo il terzo giovedì di marzo in tutte le delegazioni del mondo e nelle sedi diplomatiche con una cena basata sulla convivialità e sulla socialità. Il menu? Libero. Ogni delegazione lo rapporterà al territorio e alla tradizione.
L’Unesco ha riconosciuto la cucina italiana patrimonio immateriale andando oltre alle ricette e al semplice nutrimento, considerandola un sistema culturale, rafforzando il ruolo dell’Italia come ambasciatrice di un modello culturale nel mondo in quanto la nostra cucina è una pratica sociale viva, che trasmette memoria, identità e legame con il territorio, valorizzando la convivialità, i rituali, la condivisione famigliare, come il pranzo della domenica, la stagionalità e i gesti quotidiani, oltre a promuovere inclusione e sostenibilità attraverso ricette antispreco tramandate da generazione in generazione. Il riconoscimento non celebra piatti specifici come è stato fatto con altri Paesi, ma l’intera arte culinaria e culturale che lega comunità, famiglie e territori attraverso il cibo. Riconosce l’intelligenza delle ricette tradizionali nate dalla povertà contadina, che insegnano a non sprecare nulla, un concetto di sostenibilità ancestrale. Incarna il legame tra la natura, le risorse locali e le tradizioni culturali, riflettendo la diversità dei paesaggi italiani».
Peccato che non tutti la pensino così, vedi l’attacco del critico e scrittore britannico di gastronomia Giles Coren sul Times. Dopo aver bene intinto la penna nell’iperbole, nella satira e nell’insulto, Coren è partito all’attacco alla baionetta contro, parole sue, il riconoscimento assegnato dall’Unesco, riconoscimento prevedibile, servile, ottuso e irritante. Dice l’opinionista prendendosela anche con i suoi connazionali snob: «Da quando scrivo di ristoranti, combatto contro la presunta supremazia del cibo italiano. Perché è un mito, un miraggio, una bugia alimentata da inglesi dell’alta borghesia che, all’inizio degli anni Novanta, trasferirono le loro residenze estive in Toscana».
Risponde Petroni: «Credo che l’articolo di Coren sia una burla, lo scherzo di uno che in fondo, e lo ha dimostrato in altri articoli, apprezza la cucina italiana. Per etichettare il tutto come burla, basta leggere la parte in cui elogia la cucina inglese candidandola al riconoscimento Unesco per il valore culturale del “toast bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio”, gli “spaghetti con il ketchup”, il “Barolo britannico”, i “noodles cinesi incollati alla tovaglia” e altre perle di questo genere. C’è da sottolineare, invece, che la risposta dell’Unesco è stata unanime: i 24 membri del comitato intergovernativo per la salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale hanno votato all’unanimità in favore della cucina italiana. Non c’è stato nemmeno un astenuto. La prima richiesta fu bocciata. Nel 2023 l’abbiamo ripresentata. È la parola “immateriale” che ci bloccò. È difficile definire una cucina immateriale senza cadere nel materiale. Per esempio l’Unesco non ha dato il riconoscimento alla pizza in quanto pizza, ma all’arte napoletana della pizza. Il cammino è stato molto difficile ma, alla fine, siamo riusciti a unificare la pratica quotidiana, i gesti, le parole, i rituali di una cucina variegata e il risultato c’è stato. La cucina italiana è la prima premiata dall’Unesco in tutta la sua interezza».
Se Coren ha scherzato, Alberto Grandi, docente all’Università di Parma, autore del libro La cucina italiana non esiste, è andato giù pesante nell’articolo su The Guardian. Basta il titolo per capire quanto: «Il mito della cucina tradizionale italiana ha sedotto il mondo. La verità è ben diversa». «Grandi è arrivato a dire che la pizza l’hanno inventata gli americani e che il vero grana si trova nel Wisconsin. Che la cucina italiana non risalga al tempo dei Romani lo sanno tutti. Prima della scoperta dell’America, la cucina era un’altra cosa. Quella odierna nasce nell’Ottocento da forni e fornelli borghesi. Se si rimane alla civiltà contadina, si rimane alle zuppe o poco più. Le classi povere non avevano carne da mangiare». Petroni conclude levandosi un sassolino dalla scarpa: l’esultanza dei cuochi stellati, i «cappelloni», come li chiama, è comprensibile ma loro non c’entrano: «Sono contento che approvino il riconoscimento, ma sia chiaro che questo va alla cucina italiana famigliare, domestica».
A chi si deve il maggior merito del riconoscimento Unesco? «A Maddalena Fossati, la direttrice de La cucina italiana. È stata lei a rivolgersi all’Accademia e alla Fondazione Casa Artusi. Il documento l’abbiamo preparato con il prezioso aiuto di Massimo Montanari, accademico onorario, docente all’Università di Bologna, e presentato con il sostegno del sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi».
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Gianluigi Cimmino (Imagoeconomica)
Yamamay ha sempre scelto testimonial molto riconoscibili. Oggi il volto del brand è Rose Villain. Perché questa scelta?
«Negli ultimi tre anni ci siamo avvicinati a due canali di comunicazione molto forti e credibili per i giovani: la musica e lo sport. Oggi, dopo il crollo del mondo degli influencer tradizionali, è fondamentale scegliere un volto autentico, coerente e riconoscibile. Gran parte dei nostri investimenti recenti è andata proprio in questa direzione. Rose Villain rappresenta la musica, ma anche una bellezza femminile non scontata: ha un sorriso meraviglioso, un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici, donne che si riconoscono nel brand anche per la vestibilità, che riteniamo tra le migliori sul mercato. È una voce importante, un personaggio completo. Inoltre, il mondo musicale oggi vive molto di collaborazioni: lo stesso concetto che abbiamo voluto trasmettere nella campagna, usando il termine «featuring», tipico delle collaborazioni tra artisti. Non a caso, Rose Villain aveva già collaborato con artisti come Geolier, che è stato nostro testimonial l’anno scorso».
I volti famosi fanno vendere di più o il loro valore è soprattutto simbolico e di posizionamento del brand?
«Oggi direi soprattutto posizionamento e coerenza del messaggio. La vendita non dipende più solo dalla pubblicità: per vendere bisogna essere impeccabili sul prodotto, sul prezzo, sull’assortimento. Viviamo un momento di consumi non esaltanti, quindi è necessario lavorare su tutte le leve. Non è che una persona vede lo spot e corre subito in negozio. È un periodo “da elmetto” per il settore retail».
È una situazione comune a molti brand, in questo momento.
«Assolutamente sì. Noi non possiamo lamentarci: anche questo Natale è stato positivo. Però per portare le persone in negozio bisogna investire sempre di più. Il traffico non è più una costante: meno persone nei centri commerciali, meno in strada, meno negli outlet. Per intercettare quel traffico serve investire in offerte, comunicazione, social, utilizzando tutti gli strumenti che permettono soprattutto ai giovani di arrivare in negozio, magari grazie a una promozione mirata».
Guardando al passato, c’è stato un testimonial che ha segnato una svolta per Yamamay?
«Sicuramente Jennifer Lopez: è stato uno dei primi casi in cui una celebrità ha firmato una capsule collection. All’epoca era qualcosa di totalmente nuovo e ci ha dato una visibilità internazionale enorme. Per il mondo maschile, Cristiano Ronaldo ha rappresentato un altro grande salto di qualità. Detto questo, Yamamay è nata fin dall’inizio con una visione molto chiara».
Come è iniziata questa avventura imprenditoriale?
«Con l’incoscienza di un ragazzo di 28 anni che rescinde un importante contratto da manager perché vuole fare l’imprenditore. Ho coinvolto tutta la famiglia in questo sogno: creare un’azienda di intimo, un settore che ho sempre amato. Dico spesso che ero già un grande consumatore, soprattutto perché l’intimo è uno dei regali più fatti. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno».
Oggi Yamamay è un marchio internazionale. Quanti negozi avete nel mondo?
«Circa 600 negozi in totale. Di questi, 430 sono in Italia e circa 170 all’estero».
Il vostro è un settore molto competitivo. Qual è oggi il vostro principale elemento di differenziazione?
«Il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo scelto di non seguire la strada degli aumenti facili nel post Covid, quando il mercato lo permetteva. Abbiamo continuato invece a investire su prodotto, innovazione, collaborazioni e sostenibilità. Posso dire con orgoglio che Yamamay è uno dei marchi di intimo più sostenibili sul mercato. La sostenibilità per noi non è una moda né uno strumento di marketing: è un valore intrinseco. Anche perché abbiamo in casa una delle massime esperte del settore, mia sorella Barbara, e siamo molto attenti a non fare greenwashing».
Quali sono le direttrici di crescita future?
«Sicuramente l’internazionale, più come presenza reale che come notorietà, e il digitale: l’e-commerce è un canale dove possiamo crescere ancora molto. Inoltre stiamo investendo tantissimo nel menswear. È un mercato in forte evoluzione: l’uomo oggi compra da solo, non delega più alla compagna o alla mamma. È un cambiamento culturale profondo e la crescita sarà a doppia cifra nei prossimi anni. La società è cambiata, è più eterogenea, e noi dobbiamo seguirne le evoluzioni. Penso anche al mondo Lgbtq+, che è storicamente un grande consumatore di intimo e a cui guardiamo con grande attenzione».
Capodanno è un momento simbolico anche per l’intimo. Che consiglio d’acquisto dai ai vostri clienti per iniziare bene l’anno?
«Un consiglio semplicissimo: indossate intimo rosso a Capodanno. Mutande, boxer, slip… non importa. È una tradizione che non va persa, anzi va rafforzata. Il rosso porta amore, ricchezza e salute. E le tradizioni belle vanno rispettate».
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